In questo paese esiste un verbo utlissimo, che quando si comincia ad impiegare ci si chiede come possa non esistere né nell’inglese ufficiale né nelle maggiori lingue europee. E’ il verbo “to lime”, che significa uscire a bere qualcosa, e passare la serata chiacchierando.
Il mio primo liming a Trinidad è stato bello. Orisha mi ha portata in un posto carino, una specie di minuscolo centro culturale messo su in una casa privata di Woodbrook. E’ impossibile da trovare per chi non lo conosce, non è altro che una casuccia come altre con un piccolo cortile che dà sulla strada senza troppo preamboli, ma in cui quasi tutti i giorni succede qualcosa di interessante. L’altro giorno c’era una micro-mostra di bozzetti di costumi di Carnevale, con foto e modellini che documentavano le varie fasi della loro costruzione. Alcuni erano davvero belli, architetture di legno, tessuti e carta colorata talmente grandi che chi le indossa le deve trasportare su ruote. I temi erano vari, da quelli più classici e naturalistici di fiori e frutta, a quelli astratti, a quelli di sapore futurista, con grandi ruote dentatate ed elastici… C’erano delle belle luci, un’atmosfera rilassata da serata di metà settimana, delle tende sotto cui riparasi a sorseggiare la propria birra e chiacchierare mentre cadevano quattro gocce di pioggia. Erano presenti anche i designers, degli artisti tutt’al più rasta che sono stati applauditi dalla piccola delegazione dell’intelligentisia isolana che bazzica regolarmente l’ambiente. Questa comprende anche una manciata di europei e di americani ormai naturalizzati trinidini, come quel signore californiano con cui ho chiacchierato un po’ di Barak e Hillary, proprietario della principale ditta di produzione di vestiti di Carnevale di Trinidad.
Al centro abbiamo incontrato due amici di Orisha, un ragazzo e una ragazza, lui di New York e lei del Maine, con cui ci siamo incamminati verso un baretto chiamato Sweet Lime. Tra una battuta e l’altra, ho avuto un quarto d’ora di conversazione interessantissima con il tipo. Avrà avuto 27-28 anni, tratti somatici marcatamente messicani e accento East Coast. Era stato un fotografo di moda che essendosi stufato di frivolezza ad un certo punto aveva deciso di mettersi a fotografare “altro”. Era quindi partito per il Messico ed era riuscito in qualche modo ad addentrarsi nel territorio controllato dagli Zapatisti del generale Marcos. Si è guadagnato la loro fiducia, aveva accettato di essere bendato e portato in macchina in un loro accampamento nei boschi, e ci era rimasto per qualche tempo a fotografare la vita dei ribelli. Ora si trovava a Trinidad, dove era entrato in contatto con YMCA e dopo aver chiesto se poteva fotografare la vita dei bambini era stato coinvolto in un progetto educativo e si era ritrovato a dare lezioni di fotografia ai piccoli. Lunedì sarebbe partito per il Perù, a fare non so più che.
Ero stanca e avevo mal di testa, si stava facendo tardi e in più quella giornata era iniziata particolarmente presto, con una colazione-conferenza alle 7:30 di mattina. Me ne stavo silenziosa a lasciare che la serata si esaurisse, quando un pensiero molto lucido ha cominciato a prendere forma. Se avessi incontrato una persona così a Milano sarebbe probabilmente stato l’incontro del mese. In questa situazione, sentirsi raccontare di servizi fotografici sui guerriglieri della foresta messicana rientrava tutto sommato nell’ordine naturale delle cose.
lunedì 10 marzo 2008
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