venerdì 7 marzo 2008

Cinema

Sono appena tornata da un’esperienza assolutamente surreale.

E’ cominciata in modo semplice. Mi chiama Clarissa, ti va di venire a vedere un film? Ti passo a prendere alle 7:30 - Guarda che devo ritirare soldi - Non ti preoccupare, è tutto gratis. E io che pensavo: strano, da quando in qua i cinema sono gratis?

E infatti il posto dove Clarissa mi stava portano a vedere il film non era propriamente un cinema, anzi non lo era affatto. Era qualcosa di completamente diverso, che mai mi sarei aspettata di trovare in un’isola del nuovo mondo come Trinidad. Non potevo credere ai miei occhi.

Si trattava di un capannone industriale di un’area dimessa al di fuori di Port of Spain, trasformato da un gruppo di artisti in un centro culturale alternativo e all’avanguardia. Una volta entrata, questo posto si è rivelato irripetibile e meraviglioso, sconcertante direi. Una ex fabbrica sterminata, piena di spazi vuoti, poche luci al neon e avanzi di materiale pittorico addossato alle pareti. Di colpo, mi sembrava di essere stata teletrasportata a New York o Berlino Est.

Come noi, la crème de la crème della cultura underground di Trinidad si avviava verso il centro pulsante di arte viva che era la sala cinema. Ragazzi che camminavano tra quelle mura come gatti, disinvolti e silenziosi, tutt’uno con il buio dei corridoi. Seguiamo la musica per arrivare alla sala della proiezione, un’enorme stanza con un tetto sperticato, un telo per proiettare la pellicola e una cinquantina di enormi sedie da giardino dove si poteva stare comodamente accoccolati con le braccia intorno alle ginocchia. In un angolo un frigorifero pieno di birre, da cui si poteva pescare una bottiglia da tenere sul bracciolo, e qualche elemento di modernariato sparso in giro, senza pretenziosità. E incredibilmente, paradossalmente, un flusso di immagini di un film d’essay spagnolo del 1973 che scorreva lentissimo davanti a noi. Colori di panna, colori dolci di terra Europea, luce soffusa che ai tropici non esiste, spalmata su quel telo inerte. E il pubblico rasta che osservava annuendo. Fantastico. Surreale e fantastico.

Il centro culturale è gestito da un paio di ragazzi, tra cui uno è il figlio di Lovelace, premio Nobel della letteratura trinidino. Era lì stasera, Clarissa me l’ha presentato, un tipo afro campione di surf, dal corpo scultoreo e fare drageur. Mi raccontavano che sono decenni che proiettano film dei loro archivi personali ogni giovedì. Ci veniva pure Gregoire, il figlio di Wilma, illo tempore. Ma non solo, era anche uno spazio in cui ospitavano artisti stranieri, in trasferta da Caracas e L’Havana, e producevano tutti insieme in un tripudio di cultura e di ganja. Ora non ci sono più fondi, ma qualche artista rimane, tra cui lui, che porgendoci due birre ci ha condotte oltre le porte segrete del suo studio, praticamente nella stanza accanto.

E che studio. Un locale-loft bianco pieno di tele in disordine, colori sgargianti, tubetti di pittura strizzati, tavolozze tutte macchiate abbandonate su sedie di paglia. Il posto stesso sembrava un’opera d’arte, sembrava l’idea platonica di studio di pittura, così caoticamente elegante. Entrando praticamente si inciampava in una trentina di casse di plastica da 12 bottiglie di acqua, che però al posto dell’acqua contenevano migliaia di vinili vecchi. Ho appena comprato questa intera collezione di dischi, non li ho ancora ascoltati tutti, ci so lavorando, ci dice. Gli chiedo dei suoi quadri, questo è finito? Questo come diventerà? Bella questa doppia figura a sinistra, tutta contorta. Lui sorride, spiega che dipinge quasi solo temi inerenti al Carnevale, lascia che osserviamo il suo mucchio di libri, di pennelli, il giradischi. Poi come se niente fosse ci prende in braccio entrambe e ci invita a venire, domani, che riapre la stagione del roof.

Il roof, l’ultimo pian della grande discoteca Zen, quella dove lavorano i miei coinquilini. Ultimo piano che però non ha nulla a che fare con la discoteca, è uno spazio espositivo dove si fanno eventi, il primo venerdì di ogni mese, sempre lanciati da loro. Con musica soca, o house, o steel pan, e luci soffuse, mi dicono. L’invito di per sé è stato meraviglioso. Venite, vi aspetto. E’ una serata di fund raising per un gruppo surfisti. Io e Clarissa ci guardiamo ammiccando. Come negarglielo, il nostro supporto, ai poveri surfisti?

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