venerdì 7 marzo 2008

Casa di Wilma

Affitto una stanza da Wilma. La casa di Wilma è gialla, chiusa tra un muretto giallo, a cinquanta metri dal parco. Il suo appartamento è al primo piano, e vi si accede da una scaletta che culmina in una porta a due chiavistelli e un cancello interno con lucchetto massiccio. Un soggiorno pieno di foto di figli e nipoti e poltrone fiorate e cable TV. La sua stanza un po’ incasinata, la stanza degli ospiti pure un po’ incasinata, due bagni, una grande cucina piena di barattoli di plastica lavati e conservati. E camera mia, la più piccola, la più in ordine, la più consapevolmente arredata, si fa per dire, per come l’ho messa a posto in questa settimana. E’ il mio rifugio di razionalità e rigore, beh non rigore ma quantomeno senso, senso estetico forse, senso perché ci ho appeso poster e foto che ormai mi seguono da anni e che mi fanno capire che sono la stessa persona con la stessa storia continuata di quando stavo a Parigi e Bruxelles.

La cosa bella di questa casa, là dove assume contorni di bruciante, schiacciante realtà, è il piano di sotto, che poi non è un piano, è uno spiazzo per la macchina e intorno tre o quattro cubicoli in cui si aprono stanzette ombrose con porte gialle e odore di chiuso dove stanno loro tre. Il bagno è in un cubicolo separato, e la cucina, se così la si può chiamare, è semplicemente uno spazio centrale delimitato da un’inferriata, una specie di gabbia bianca senza né tavola né piatti né cassetti, in cui ci sono soltanto due fornelli, un lavatrice, un paio di frigo e un grande lavabo in muratura rossa, che a me sembra bello, ma quando lo dico mi rispondono che sono pazza. E hanno tutte le sacrosante ragioni per rifiutare istintivamente queste mie categorie di giudizio, che una riflessione onesta smaschera subito come impregnate di un patetico, intellettualistico snobismo tardo-bohemien.

Il muro dietro è scrostato, c’è una grande cisterna in plastica nera che raccoglie l’acqua, lunghi fili per stendere i panni, vecchie valigie in un angolo, un albero di mango, e il pavimento sbilenco che scende fino ad uno spiazzo erboso e incolto che io mi ostino a considerare un giardino. Loro tre vivono lì, in queste stanzette mezze chiuse mezze aperte, selvaticamente, tra le loro quattro cose tutte mescolate, tappi di bottiglia, una sedia di legno mezza rotta e schegge di plastica morte. E il sole radioso tutto intorno tutto il giorno che cuoce il vuoto dietro la casa, dove io passo minuti in silenzio, per sentirmi vicina a questi strani ragazzi che in qualche modo mi hanno accettata, questi ragazzi-lupo ragazzi-civetta, che vivono di ruggine e espedienti e cause perse e io cerco di rendermi ruggine io stessa, per assumere un senso nel loro contesto e ai loro occhi nonostante i miei inspiegabili vestitini a fiori.

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