venerdì 7 marzo 2008

Mas I

Quando sono venuta per la prima volta a vedere casa di Wilma, non ero qui nemmeno da una settimana. Mi avevano detto che Belmont era zona proibita, ma avevo avuto rassicurazioni da mille fonti che la posizione della casa era talmente alla periferia del quartiere e talmente vicina al grande, tranquillissimo parco cittadino che non ci sarebbe stato assolutamente alcun pericolo. Ciononostante, quel lunedì pomeriggio mi sono addentrata a Cadiz Road con un po’ di timore.

Ricordo benissimo. Percorro il ponte, trovo il numero civico. Tiro fuori il cellulare e chiamo la signora. Penso che spero che risponda presto - non mi va di aspettare da sola qui davanti, ci sono quei brutti ceffi che si avvicinano. Sento il telefono squillare in casa. Uno squillo, due squilli, tre squilli. I ceffi camminano, Wilma risponde. “Sono qui davanti”, le dico. “Vengo subito ad aprire”. I tizi mi guardano, io mi sento inquieta. La porta rimane chiusa. Ad un certo punto uno dei due si mette a correre verso di me, velocissimo, fissandomi. Io penso ommioddio cosa faccio, e mentre lo penso succede una cosa ancora più assurda. Il tizio che corre si tira giù i pantaloni. E io ho paura, che sono lì fuori, che non so che fare, e cerco subito di aprire il cancello, grazie al cielo non c’era il lucchetto, il tizio mi è vicinissimo, io sguscio dentro, lui continua a correre, correre via, ridendo. Voleva solo farmi paura. Un cretino, un pazzo.

Sono dentro e trovo Mas, che mi viene incontro. Un ragazzo, forse un paio d’anni meno di me, che stava credo lavando i piatti. Più che altro sorpreso di vedermi in casa sua. Are you ok?, mi chiede. Io sono ancora terrorizzata. Gli racconto quello che è successo con parole smozzicate, non riesco a non scoppiare a piangere. Lui corre subito fuori e si mette a seguire quell’uomo, mentre Wilma apre la porta.

Dopo aver visto la stanza e aver bevuto un po’ d’acqua, mi sento meglio. Mas sale da noi un secondo, per spiegare a Wilma quello che era successo. Non sono riuscito a prenderlo. E a me. Volevo obbligarlo a chiederti scusa, quello stronzo. Gli dico grazie, che non importa, che è passata, sorrido per tranquillizzare tutti. Gli chiedo se comunque gli va di riaccompagnarmi un pezzo, fino alla fine della strada, fino al parco, potresti?, mi sentirei più tranquilla. Sì, può. Anzi mi riaccompagna fino all’ufficio, tanto è a 10 minuti di strada, non ha niente da fare. E poi ha un paio amici all’ONU, ne approfitta per salutarli. Per strada parliamo un po’, è simpatico. Lavora in una discoteca, proprio dietro l’angolo, è una delle più famose di Port of Spain, a quanto pare. Al lavoro lui ha un altro nome. Pink. Pi I Enne Kappa, mi dice, con un sorriso orgoglioso. Penso subito al personaggio delle Iene di Tarantino, glielo accenno, non sa. Gli chiedo perché Pink. E’ una di quelle domande che non solo non ottengono risposta, ma sembrano non essere nemmeno comprese in quanto domande. E’ una cosa che mi capita spesso, recentemente. Come se il mio pensiero avesse una lunghezza d’onda diverso che non combacia con la loro. Che domanda è?, si chiedono.

Poi domenica mi sono trasferita. Mi sono documentata, è stato un episodio completamente eccezionale, la zona in realtà è calmissima. Rivedo Mas solo un paio di giorni dopo, che cercava Wilma. Ah ciao, sei tu? Apro a porta, mi fa piacere rivedere quel ragazzo gentile. Restiamo due minuti lì a parlare, del più e del meno. Ma mentre chiacchieriamo quasi subito mi coglie una sensazione strana. Lui parla in modo irregolare, parla veloce, parla in modo completamente diverso dall’altro giorno. Si muove molto, alza la voce, cambia discorso, non riesce a stare fermo. E’ drogato. Sicuro. Non so di cosa, ma è fatto perso, forse qualche acido, che ha ancora strascichi di effetto dopo la notte al lavoro. Il discorso perde quasi subito senso, io continuo a sorridergli, a fare finta di niente. Non c’è nulla di preoccupante, lui continua ad essere gentile, non c’è una briciola di tensione da parte mia. Solo sconcerto. Lui davanti a me che parla, si agita, e straparla.

La sensazione che mi attanaglia con più violenza è una certa impotente tristezza. Mi sembra fragile, non voglio vederlo così fragile. Parla, parla, e io non posso non pensare che è sfatto, non posso non attribuirgli questo aggettivo umiliante. E così mi sembra di contribuire alla sua precarietà, di renderlo ancora più vulnerabile guardandolo, ascoltandolo, nella mia condizione di sana, mentre lui è in balia delle sue storie. Mi fa pena, ma non voglio che mi faccia pena. Ho paura che il mio giudizio possa fargli del male. E allora faccio mille sforzi per non far capire che capisco, l’ultima cosa che voglio è che il giorno dopo lui si ricordi e pensi che avevo capito e se ne vergogni.
Ad un certo punto gli chiedo come avesse conosciuto Wilma, tanto per trascinare la conversazione su un territorio semplice e quotidiano. Vedo un’ombra velocissima nei suoi occhi, sussurra che c’erano stati problemi, quando era piccolo. Che si era trovato a vivere in strada, da bambino. E poi... Poi ha cambiato discorso, si è messo a dire qualcosa sul Signore degli Anelli, su qualche messaggio spirituale del cosmo, ha ricominciato a muovere le mani freneticamente. Gli ho detto che dovevo finire di lavorare, magari uno di questi giorni prendiamo un caffè con calma? Volevo smetterla di vederlo così, volevo salvarlo dal miop giudizio. Era la stessa persona che mi aveva chiesto Are you ok e che mi aveva detto Volevo obbligarlo a chiederti scusa, quello stronzo.

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