mercoledì 26 marzo 2008

Jesus II

Ieri è stata la volta di Jesus a sconvolgermi emotivamente. Il terzo coinquilino schivo, quello che non si vede mai, che lavora sempre, che quando lo incrocio mi risponde appena. In realtà nelle ultime due settimane ci ero riuscita, ad avvicinarlo. Una sera che l’ho trovato di buon umore si era messo a parlare un po’, mi aveva fatto vedere le foto di sua figlia e della sua ragazza. E anche sabato scorso, ci siamo incrociati nel sottobosco e abbiamo fatto due chiacchiere al volo. Nulla di più, ma ero contenta che stesse cominciando ad aprirsi.

Poi ieri verso le nove di sera sento qualcuno che mi chiama, e vedo che lui è alla porta. Mi sembra stranissimo, mi chiedo di cosa abbia bisogno. Gli apro, lui mi tende la mano e mi dice con filo di voce, appena appena percettibile: “Am I being inpolite?”. “Certo che no, Jesus, vieni dentro, dimmi”. Ma non aveva nulla da dirmi, era solo venuto da me, come non aveva mai fatto prima. Puzzava di alcohol ed era venuto a trovarmi. Gli ho dato un bicchier d’acqua e lui ha cominciato a parlarmi.

E ora non ce la faccio, non ce la faccio a raccontare la serata. Non mi ricordo come lui abbia cominciato, ma l’unica cosa che traspariva chiara come il sole era che lui era disperato e stanco e mi stava chiedendo di non mandarlo via. Aveva bisogno di non essere solo, di non tornare nella stanza dove Mas lo odiava e addormentarsi nel proprio odore di rum e nel proprio mal di testa. E io ovviamente non lo mandavo via, ero così toccata dal fatto che lui fosse venuto e mi stesse davanti inerme e impaurito e mi dicesse che ero carina che era solo che non aveva amici. Dio mio mi uccide scriverlo, mi uccide ricordarlo. Ha aperto la porta sul retro e siamo andati fuori alla luce della luna e lui continuava a parlare e io gli dicevo che sì, che volevo essere sua amica, che volevo conoscerlo, che volevo esserci per lui. E in un paio di momenti mi è sembrato che stesse per piangere, dio mio ha quasi trent’anni e stava per piangere e mi vorrei uccidere per non aver avuto il coraggio di abbracciarlo.

Siamo stati insieme tutta la sera, abbiamo parlato tanto e poco perché lui non era lucido e non era in grado di ascoltarmi, e parla così difficile, dovevo chiedergli di ripetere. Ogni tanto mi prendeva la mano e mi piaceva il modo in cui mi toccava perché era delicatissimo. E ogni tanto mi sfiorava appena i capelli, lentamente, dolcemente, e non era nemmeno una carezza, non era niente, era solo vicinanza. E ogni tanto mi diceva che stava per morire e ci credeva davvero, e mi sembrava un bambino impaurito. Mi ha detto cose tristi che non posso scrivere. E ogni tanto si rasserenava e mi sorrideva e mi chiedeva Che cosa ti piace? Domani ti porto al giardino botanico.

Mi ha detto che quando non mi rispondeva non era perché non voleva, era perchè era intimidito. Quando gli ho chiesto di promettermi che per qualunque cosa avrebbe bussato alla mia porta lui mi ha detto no, non busserò mai alla tua porta, non lo farò mai. E io mi chiedo quale stato di bisogno lo abbia spinto a superare questa sua timidezza enorme e chiamare il mo nome stasera al posto che scomparire in camera sua. Continuava a chiedermi se io avessi paura di lui, me l’avrà chiesto dieci volte. No Jesus, non ho affatto paura di te. E alla fine lui ha detto una cosa lancinante. Hai ragione, Vivi. Forse sono io che ho paura di te.

1 commento:

Romy ha detto...

Vivi, stai maneggiando ciò che, sempre più, riconosco come il mio quotidiano... le emozioni in una relazione. Sono calde... come il fuoco è estremamente seducente e pericoloso; ti auguro di non bruciarti... al massimo di scottarti solo un po' le dita ;) Con tanto affetto!
Romy