Per contrastare il tono melenso e buonistico che ha contrassegnato i miei ultimi post, questa volta elencherò tutte le cose che mi hanno fatto sommamente incazzare oggi.
- Ho dormito con il cellulare in mano per poter esere svegliata da Colui che aveva mezzo-promesso che mi sarebbe passato a prendere per andare in spiaggia, e Colui non ha chiamato;
- Sono stata per contro svegliata da Colei alla quale avevo assicurato che se Colui fosse venuto la saremmo andati a prendere per portarla in spiaggia, e quando Colei ha saputo che non avevo nulla da offrirle ha scelto altri piani per la sua domenica, che non mi includevano;
- Ho pensato di ripiegare passando la domenica per i cavoli miei a vedere film ma il mio computer ha il dvd reader rotto e non legge i cd che ho appena comprato;
- Ho provato a chiamare un'amica e mi si è esaurito il credito del cellulare;
- Sono andata in palestra e l'ho trovata chiusa perchè è domenica;
- Mi è caduta la connessione internet proprio mentre chattavo con uno tizio conosciuto da pochissimo che sto pensando di sfruttare per farmi portare in spiaggia settimana prossima (lo so è da opporunisti, ma tanto questo è un post cattivo);
- Poi sono rimasta senza internet tutto il pomeriggio.
Ciliegina sulla torta. Domani per qualche motivo oscuro è un giorno di vacanza a Trinidad, lavoriamo solo noi fortunelli dell'ONU. Sicuro come l'oro che saranno tutti in spiaggia.
domenica 30 marzo 2008
Pollyanna
L’addetto alla sicurezza della UN House fa il lavoro più noioso del mondo. Se ne sta lì nel suo gabbiotto a controllare che entra e chi esce, con la specifica proibizione di attaccare bottone con chicchessia. Una specie di condanna al silenzio 8 ore al giorno. E’ per questo che nonostante lui tenesse il muso lungo e non mi rispondesse nemmeno, mi sono imposta di dirgli sempre buongiorno e buonasera. Se anche non mi dovesse rispondere per tutto l’anno, non smetterò di salutarlo. Buongiorno buonasera, buongiorno buonasera. Due settimane fa mi ha finalmente fatto un sorriso. Buongiorno buonasera, buongiorno buonasera. E poi martedì quando sono entrata – buongiorno – ha fatto una cosa troppo carina – buonasera. Ha aperto il suo cassetto, ha tirato fuori un mandarino, e me l’ha messo in mano. “Spero che ti piaccia”. Buongiorno. Buonasera.
sabato 29 marzo 2008
venerdì 28 marzo 2008
Rasta-Mobile
Ieri in macchina Clarissa mi ha detto una cosa che mi ha colpita enormemente. Mi ha detto che era contenta di vedermi così ben integrata, perché all’inizio aveva avuto la sensazione che non ce l’avrei fatta. “Cosa vuol dire che non ce l’avrei fatta?” “Ma sì, sai, molti partono pieni di entusiasmo per i quatto angoli della terra e poi capiscono che non fa per loro, e in capo a un mese decidono di tornare a casa”. “E io ti ho dato quest’impressione?”. “Beh, onestamente sì”.
E’ vero che il primo mese a Trinidad è stato abbastanza duro, l’adattamento non è affatto stato immediato come nelle altre città in cui sono andata a vivere. Ma non ho mai pensato di tornare indietro. Mi sono data un quindici giorni per soddisfare le prime necessità, un mese per avere una routine, e sono stata nei tempi. Ma al di là del merito, mi sono chiesta come mai Clarissa avesse avuto questa sensazione. Mi sono lasciata andare contro al sedile posteriore, e ho cercato di riflettere.
La risposta era proprio lì, nella sua macchina, nella rasta-mobile. Che come suggerisce il nome non ha nulla a che vedere con una macchina normale, ma è piuttosto un aggeggio fantastico che solo un’intellettuale-europea-di-sinistra-con-senso-dell’umorismo-ai-Caraibi può decidere di possedere. Si tratta di un grippino scassato rosso decappottabile, col tetto pieno di buchi, che trema mentre cammina e fa rumori strani quando frena, in cui si accede al posto di dietro solo scavalcado da davanti, scomoda all’inverosimile, con gadget meta-tamarri allo specchietto, il volante coperto di perline rosse, verdi e gialle e il sedile dietro ugualmente foderato in multicolor. Talmente cool e alternativa che non sembra vera.
E dire che Clarissa è una professionista coi fiocchi, sempre vestita alla perfezione, iper-competente, iper-energetica, result-oriented e con un’invidiabile padronanza dell’inglese. Ma sotto sotto è materiale da centri sociali, ha passato anni a lavorare come giornalista per il Manifesto e a non scendere a nessun compromesso professionale. E per questo ed altro ha davvero tutta, tutta la mia stima.
Io ovviamente ho un altro stile e un’altra storia. Io mi sono presentata in questo paese con l’aria eterea di chi era appena sbarcata da Ginevra. Al liceo non ero nel colletivo, non mangio macrbiotico, non faccio yoga. E per quanto la trovi geniale, non avrei una rasta-mobile. Questo però non vuol dire abbia trovato la mia modalità personale per viaggiare follemente, per sopportare esperienze abbastanza estreme e per entrare in contatto con questa insolita porzione di mondo. Clarissa ieri l'ha capito, e me l'ha detto. Nel tempo che avevo finito questo ragionamento Orisha è saltata in macchina, ci siamo messe tutte e tre a bere a canna una bottiglia di vino, e abbiamo sguinzagliato il bolide verso la magica fabbrica dei film. Ovviamente senza ammortizzatori.
E’ vero che il primo mese a Trinidad è stato abbastanza duro, l’adattamento non è affatto stato immediato come nelle altre città in cui sono andata a vivere. Ma non ho mai pensato di tornare indietro. Mi sono data un quindici giorni per soddisfare le prime necessità, un mese per avere una routine, e sono stata nei tempi. Ma al di là del merito, mi sono chiesta come mai Clarissa avesse avuto questa sensazione. Mi sono lasciata andare contro al sedile posteriore, e ho cercato di riflettere.
La risposta era proprio lì, nella sua macchina, nella rasta-mobile. Che come suggerisce il nome non ha nulla a che vedere con una macchina normale, ma è piuttosto un aggeggio fantastico che solo un’intellettuale-europea-di-sinistra-con-senso-dell’umorismo-ai-Caraibi può decidere di possedere. Si tratta di un grippino scassato rosso decappottabile, col tetto pieno di buchi, che trema mentre cammina e fa rumori strani quando frena, in cui si accede al posto di dietro solo scavalcado da davanti, scomoda all’inverosimile, con gadget meta-tamarri allo specchietto, il volante coperto di perline rosse, verdi e gialle e il sedile dietro ugualmente foderato in multicolor. Talmente cool e alternativa che non sembra vera.
E dire che Clarissa è una professionista coi fiocchi, sempre vestita alla perfezione, iper-competente, iper-energetica, result-oriented e con un’invidiabile padronanza dell’inglese. Ma sotto sotto è materiale da centri sociali, ha passato anni a lavorare come giornalista per il Manifesto e a non scendere a nessun compromesso professionale. E per questo ed altro ha davvero tutta, tutta la mia stima.
Io ovviamente ho un altro stile e un’altra storia. Io mi sono presentata in questo paese con l’aria eterea di chi era appena sbarcata da Ginevra. Al liceo non ero nel colletivo, non mangio macrbiotico, non faccio yoga. E per quanto la trovi geniale, non avrei una rasta-mobile. Questo però non vuol dire abbia trovato la mia modalità personale per viaggiare follemente, per sopportare esperienze abbastanza estreme e per entrare in contatto con questa insolita porzione di mondo. Clarissa ieri l'ha capito, e me l'ha detto. Nel tempo che avevo finito questo ragionamento Orisha è saltata in macchina, ci siamo messe tutte e tre a bere a canna una bottiglia di vino, e abbiamo sguinzagliato il bolide verso la magica fabbrica dei film. Ovviamente senza ammortizzatori.
Colleghi
Mi sono resa conto di aver speso tante ore e tante righe di testo per descrivere le tre meravigliose, fragili e complesse creature che abitano nel sottobosco, e di non aver detto quasi nulla delle persone con cui trascorro la maggior parte del mio tempo libero, cioè i miei colleghi. Uno dei motivi per cui non mi sono prodigata in descrizioni è che – con mia somma sorpresa - i miei coetanei che lavorano nella UN House non sono intellettualmente stimolanti come mi aspettavo. Forse è vero che fuori dall’Europa un certo livello culturale non è cosa da dare per scontata, nemmeno nella cosiddetta crème della crème che finisce a lavorare nelle organizzazioni internazionali. Ciononostante sono un gruppetto di persone carine, divertenti e soprattutto molto festaiole, grazie alle quali la mia agenda sociale del fine settimana ha sempre un aspetto decisamente accettabile.
Prima di tutto c’è Karen, un vulcano organizzativo e punto di riferimento comunicativo costante, data la sua indole gentile e la sua incrollabile disponibilità. E’ il tipo generoso che quando fa foto per tutti, che ti passa a prendere in macchina per andare a ballare e che per domani sera ha organizzato con non chalance un liming a casa sua con un centinaio di invitati. Sul suo profilo in facebook c’è scritto che adora i cani piccoli che possono stare in borsetta. Poi c’è Claire, molto chiacchierina e molto principessina, schiena diritta, tratti indiani, vita stretta e capelli sempre raccolti in uno chignon, ha un modo di fare sfiziosamente upper-class che non manca di strapparmi un sorriso. E’ capace di rinunciare ad un giorno in spiaggia perché ha prenotato il pedicure. Infine Rodrigo, il mexicanito moreno e bellissimo, gentile e galante, ventenne anagraficamente e psicologicamente, con cui c’è un rapporto carino da compagni di scrivania, soprattutto quando mi chiede lo spelling in inglese di parole che non sa e quando mi offre le caramelle rubate dalla scatola delle meraviglie nella stanza di fianco.
Intorno a loro tre circola un vortice di persone che sto gradualmente imparando a distinguere, amici di scuola e compagni di merende che puntualmente partecipano alle gite in spiaggia e alle serate danzanti. Tutti più o meno gentili, tutti più o meno simpatici, nessuno particolarmente intrigante. Ma forse venerdì prossimo andremo a ballare la soca, e forse sabato prossimo faremo un giro alle isole della costa ovest. E forse posso anche accontentarmi di ascoltare pettegolezzi durante la pausa pranzo, che sarà mai.
Prima di tutto c’è Karen, un vulcano organizzativo e punto di riferimento comunicativo costante, data la sua indole gentile e la sua incrollabile disponibilità. E’ il tipo generoso che quando fa foto per tutti, che ti passa a prendere in macchina per andare a ballare e che per domani sera ha organizzato con non chalance un liming a casa sua con un centinaio di invitati. Sul suo profilo in facebook c’è scritto che adora i cani piccoli che possono stare in borsetta. Poi c’è Claire, molto chiacchierina e molto principessina, schiena diritta, tratti indiani, vita stretta e capelli sempre raccolti in uno chignon, ha un modo di fare sfiziosamente upper-class che non manca di strapparmi un sorriso. E’ capace di rinunciare ad un giorno in spiaggia perché ha prenotato il pedicure. Infine Rodrigo, il mexicanito moreno e bellissimo, gentile e galante, ventenne anagraficamente e psicologicamente, con cui c’è un rapporto carino da compagni di scrivania, soprattutto quando mi chiede lo spelling in inglese di parole che non sa e quando mi offre le caramelle rubate dalla scatola delle meraviglie nella stanza di fianco.
Intorno a loro tre circola un vortice di persone che sto gradualmente imparando a distinguere, amici di scuola e compagni di merende che puntualmente partecipano alle gite in spiaggia e alle serate danzanti. Tutti più o meno gentili, tutti più o meno simpatici, nessuno particolarmente intrigante. Ma forse venerdì prossimo andremo a ballare la soca, e forse sabato prossimo faremo un giro alle isole della costa ovest. E forse posso anche accontentarmi di ascoltare pettegolezzi durante la pausa pranzo, che sarà mai.
mercoledì 26 marzo 2008
Jesus II
Ieri è stata la volta di Jesus a sconvolgermi emotivamente. Il terzo coinquilino schivo, quello che non si vede mai, che lavora sempre, che quando lo incrocio mi risponde appena. In realtà nelle ultime due settimane ci ero riuscita, ad avvicinarlo. Una sera che l’ho trovato di buon umore si era messo a parlare un po’, mi aveva fatto vedere le foto di sua figlia e della sua ragazza. E anche sabato scorso, ci siamo incrociati nel sottobosco e abbiamo fatto due chiacchiere al volo. Nulla di più, ma ero contenta che stesse cominciando ad aprirsi.
Poi ieri verso le nove di sera sento qualcuno che mi chiama, e vedo che lui è alla porta. Mi sembra stranissimo, mi chiedo di cosa abbia bisogno. Gli apro, lui mi tende la mano e mi dice con filo di voce, appena appena percettibile: “Am I being inpolite?”. “Certo che no, Jesus, vieni dentro, dimmi”. Ma non aveva nulla da dirmi, era solo venuto da me, come non aveva mai fatto prima. Puzzava di alcohol ed era venuto a trovarmi. Gli ho dato un bicchier d’acqua e lui ha cominciato a parlarmi.
E ora non ce la faccio, non ce la faccio a raccontare la serata. Non mi ricordo come lui abbia cominciato, ma l’unica cosa che traspariva chiara come il sole era che lui era disperato e stanco e mi stava chiedendo di non mandarlo via. Aveva bisogno di non essere solo, di non tornare nella stanza dove Mas lo odiava e addormentarsi nel proprio odore di rum e nel proprio mal di testa. E io ovviamente non lo mandavo via, ero così toccata dal fatto che lui fosse venuto e mi stesse davanti inerme e impaurito e mi dicesse che ero carina che era solo che non aveva amici. Dio mio mi uccide scriverlo, mi uccide ricordarlo. Ha aperto la porta sul retro e siamo andati fuori alla luce della luna e lui continuava a parlare e io gli dicevo che sì, che volevo essere sua amica, che volevo conoscerlo, che volevo esserci per lui. E in un paio di momenti mi è sembrato che stesse per piangere, dio mio ha quasi trent’anni e stava per piangere e mi vorrei uccidere per non aver avuto il coraggio di abbracciarlo.
Siamo stati insieme tutta la sera, abbiamo parlato tanto e poco perché lui non era lucido e non era in grado di ascoltarmi, e parla così difficile, dovevo chiedergli di ripetere. Ogni tanto mi prendeva la mano e mi piaceva il modo in cui mi toccava perché era delicatissimo. E ogni tanto mi sfiorava appena i capelli, lentamente, dolcemente, e non era nemmeno una carezza, non era niente, era solo vicinanza. E ogni tanto mi diceva che stava per morire e ci credeva davvero, e mi sembrava un bambino impaurito. Mi ha detto cose tristi che non posso scrivere. E ogni tanto si rasserenava e mi sorrideva e mi chiedeva Che cosa ti piace? Domani ti porto al giardino botanico.
Mi ha detto che quando non mi rispondeva non era perché non voleva, era perchè era intimidito. Quando gli ho chiesto di promettermi che per qualunque cosa avrebbe bussato alla mia porta lui mi ha detto no, non busserò mai alla tua porta, non lo farò mai. E io mi chiedo quale stato di bisogno lo abbia spinto a superare questa sua timidezza enorme e chiamare il mo nome stasera al posto che scomparire in camera sua. Continuava a chiedermi se io avessi paura di lui, me l’avrà chiesto dieci volte. No Jesus, non ho affatto paura di te. E alla fine lui ha detto una cosa lancinante. Hai ragione, Vivi. Forse sono io che ho paura di te.
Poi ieri verso le nove di sera sento qualcuno che mi chiama, e vedo che lui è alla porta. Mi sembra stranissimo, mi chiedo di cosa abbia bisogno. Gli apro, lui mi tende la mano e mi dice con filo di voce, appena appena percettibile: “Am I being inpolite?”. “Certo che no, Jesus, vieni dentro, dimmi”. Ma non aveva nulla da dirmi, era solo venuto da me, come non aveva mai fatto prima. Puzzava di alcohol ed era venuto a trovarmi. Gli ho dato un bicchier d’acqua e lui ha cominciato a parlarmi.
E ora non ce la faccio, non ce la faccio a raccontare la serata. Non mi ricordo come lui abbia cominciato, ma l’unica cosa che traspariva chiara come il sole era che lui era disperato e stanco e mi stava chiedendo di non mandarlo via. Aveva bisogno di non essere solo, di non tornare nella stanza dove Mas lo odiava e addormentarsi nel proprio odore di rum e nel proprio mal di testa. E io ovviamente non lo mandavo via, ero così toccata dal fatto che lui fosse venuto e mi stesse davanti inerme e impaurito e mi dicesse che ero carina che era solo che non aveva amici. Dio mio mi uccide scriverlo, mi uccide ricordarlo. Ha aperto la porta sul retro e siamo andati fuori alla luce della luna e lui continuava a parlare e io gli dicevo che sì, che volevo essere sua amica, che volevo conoscerlo, che volevo esserci per lui. E in un paio di momenti mi è sembrato che stesse per piangere, dio mio ha quasi trent’anni e stava per piangere e mi vorrei uccidere per non aver avuto il coraggio di abbracciarlo.
Siamo stati insieme tutta la sera, abbiamo parlato tanto e poco perché lui non era lucido e non era in grado di ascoltarmi, e parla così difficile, dovevo chiedergli di ripetere. Ogni tanto mi prendeva la mano e mi piaceva il modo in cui mi toccava perché era delicatissimo. E ogni tanto mi sfiorava appena i capelli, lentamente, dolcemente, e non era nemmeno una carezza, non era niente, era solo vicinanza. E ogni tanto mi diceva che stava per morire e ci credeva davvero, e mi sembrava un bambino impaurito. Mi ha detto cose tristi che non posso scrivere. E ogni tanto si rasserenava e mi sorrideva e mi chiedeva Che cosa ti piace? Domani ti porto al giardino botanico.
Mi ha detto che quando non mi rispondeva non era perché non voleva, era perchè era intimidito. Quando gli ho chiesto di promettermi che per qualunque cosa avrebbe bussato alla mia porta lui mi ha detto no, non busserò mai alla tua porta, non lo farò mai. E io mi chiedo quale stato di bisogno lo abbia spinto a superare questa sua timidezza enorme e chiamare il mo nome stasera al posto che scomparire in camera sua. Continuava a chiedermi se io avessi paura di lui, me l’avrà chiesto dieci volte. No Jesus, non ho affatto paura di te. E alla fine lui ha detto una cosa lancinante. Hai ragione, Vivi. Forse sono io che ho paura di te.
martedì 25 marzo 2008
Everybody fucks. Up. III
Lisa tesseva in continuazione le lodi di Orisha, dicendole che lei era dotata, che era un genio, che dovevano lavorare insieme. E’ venuto fuori che Lisa era lesbica, o forse bisex, e si vedeva che cercava di adottare un atteggiamento seducente, si e' perfino cambiata davanti a noi. Riflettendo su tutto questo io e Orisha ci siamo poi rese conto che tutti stavano pensando che noi fossimo una coppia lesbica. Io femminile e lei maschile. Io che la seguivo ovunque, lei che mi stava sempre dietro. Abbiamo riso a quest’idea, ma il giorno dopo abbiamo avuto la conferma che ci avevamo visto giusto.
Durante i due giorni mi sono chiesta spesso che cosa volesse lei esattamente da Orisha. Informazioni? Contatti? Soldi? Sesso? Stava cercando di sedurla? Ne era attratta veramente? Quando siamo partite ci ha detto se ne andrà da quella casa per essere più vicina a Port of Spain, anzi che verrà a vivere nella nostra zona. “Ragazze io starò in affitto in città ma continuerò anche a mantenere questa casa…” (con quali soldi, con quali soldi?) “Volete restarci voi, per un mesetto, in questa casa da sole?”. Noi decliniamo, intimamente inorridite, e lei si decide a fare l’ultimo test. “Pensate che buffo, ieri mia figlia mi ha chiesto se voi siete una coppia…”
La nostra ultima scoperta e' stata che di fianco al televisore in camera nostra c’erano delle videocassette porno, proprio in cima a tutto il resto. Nessuno si era preso la briga di nasconderle. E c'erano tubetti di vaselina sul comò. Tutto in quella casa sembrava rimandasse sempre e inequivocabilmente al sesso. Abbiamo messo insieme gli altri tasselli. Ragazze vistose. Porte senza chiusure. Il capitano in casa, che probabilmente portava altri marinai. Piano piano stava venendo fuori un disegno che ci rifiutavamo di voler riconoscere. “Dove siamo finite, Vivian? E’ un bordello, questo? Possibile che lei sia una prostituta? Possibile che lei gestisca le ragazze che bazzicavano in casa oggi? Possibile che il campo di azione della sua ONG sia un business di prostituzione diretto da lei stessa?”
La mattina dopo siamo letteralmente fuggite in spiaggia, con i cellulari spenti per non farci raggiungere. Guardando le onde, ho cercato di pensare a una frase che condensasse l’esperienza alluncinante di questi due giorni. Forse la migliore è quella che è stata detta la prima sera, quando eravamo ancora meravigliate e felici di passare un fine settimana al mare. Lisa stava dicendo che l’AIDS colpisce tutti, ricchi e poveri. Il Capitano ha commentato saggiamente: “Everbody fucks”. E lei, sarcastica. “Up”.
Durante i due giorni mi sono chiesta spesso che cosa volesse lei esattamente da Orisha. Informazioni? Contatti? Soldi? Sesso? Stava cercando di sedurla? Ne era attratta veramente? Quando siamo partite ci ha detto se ne andrà da quella casa per essere più vicina a Port of Spain, anzi che verrà a vivere nella nostra zona. “Ragazze io starò in affitto in città ma continuerò anche a mantenere questa casa…” (con quali soldi, con quali soldi?) “Volete restarci voi, per un mesetto, in questa casa da sole?”. Noi decliniamo, intimamente inorridite, e lei si decide a fare l’ultimo test. “Pensate che buffo, ieri mia figlia mi ha chiesto se voi siete una coppia…”
La nostra ultima scoperta e' stata che di fianco al televisore in camera nostra c’erano delle videocassette porno, proprio in cima a tutto il resto. Nessuno si era preso la briga di nasconderle. E c'erano tubetti di vaselina sul comò. Tutto in quella casa sembrava rimandasse sempre e inequivocabilmente al sesso. Abbiamo messo insieme gli altri tasselli. Ragazze vistose. Porte senza chiusure. Il capitano in casa, che probabilmente portava altri marinai. Piano piano stava venendo fuori un disegno che ci rifiutavamo di voler riconoscere. “Dove siamo finite, Vivian? E’ un bordello, questo? Possibile che lei sia una prostituta? Possibile che lei gestisca le ragazze che bazzicavano in casa oggi? Possibile che il campo di azione della sua ONG sia un business di prostituzione diretto da lei stessa?”
La mattina dopo siamo letteralmente fuggite in spiaggia, con i cellulari spenti per non farci raggiungere. Guardando le onde, ho cercato di pensare a una frase che condensasse l’esperienza alluncinante di questi due giorni. Forse la migliore è quella che è stata detta la prima sera, quando eravamo ancora meravigliate e felici di passare un fine settimana al mare. Lisa stava dicendo che l’AIDS colpisce tutti, ricchi e poveri. Il Capitano ha commentato saggiamente: “Everbody fucks”. E lei, sarcastica. “Up”.
Everybody fucks. Up. II
La domenica di Pasqua ci ha deluso con una pioggia insistente, che ha subito escluso l’ipotesi di andare in spiaggia. Abbiamo quindi passato l’intera giornata in casa, assistendo a molte strane cose e cercando di mettere insieme i pezzi del puzzle per capire in che diavolo di posto fossimo capitate.
Fin dalle undici la casa è stata riempita da un flusso infinito di gente, che veniva portando fumo e alcohol da consumare nel patio. All’inizio sono arrivate prevalentemente donne e ragazze, tutte vestite in modo abbastanza vistoso. Catene d’oro, cinture con borchie, vestiti succinti. Una aveva un bambino piccolo, lei non arrivava ai vent’anni. Una aveva la pancia gonfie da alcohol. Mi hanno offerto whisky, che ho rifiutato imbarazzata. Mi sentivo molto a disagio, non capivo chi fosse questa gente, non mi pareva normale questo raduno. Lisa parlava in continuazione di safe sex, di AIDS e del suo progetto, che in un modo o nell’altro gravita intorno all’educazione delle sex workers e che ha come target la clientela bianca.
Piu’ tardi sono arrivati i ragazzi. Uno aveva diciannove anni e faceva il pescatore, aveva i capelli cortissimi e un disegno di una ragnatela che copriva metà della sua testa, con al centro la S di Spiderman. Un altro coi rasta aveva l’aria più educata, viveva in città e veniva a Maracas solo in vacanza. Si è messo a cucinare per tutti, e mi ha chiamata ai fornelli per spiegarmi come si faceva a fare quello specifico piatto. Erano tutti gentili con me, ma nella maggior parte dei casi facevo moltissima fatica a capire quello che dicevano a causa del loro accento incomprensibile.
La cosa pazzesca era che ognuno portava qualcosa in quantita' industriale. Birre. Rum. Cibo. Qualcuno cucinava, qualcuno lavava i piatti, tutto era condiviso e Lisa in qualche moido era il centro magnetico di tutto. L’atmostfera non era festosa, c’era un che di depravato nell’aria che non riuscivamo a decifrare. Tutto affondava in un melmoso delirio tropicale, obnubilante e deleterio. C’era anche un sacco di marijuana. Rollavano in continuazione, fumavano una canna dopo l’altra, senza interruzione. Perfino Orisha era colpita dalla quantità di fumo, lei che è figlia di padre rastafari che quando era piccola la metteva al tavolo da lavoro a rollargli 12 canne all’ora.
La presenza di tutta questa gente in casa sollevava molte domande. Come poteva essere che Lisa fosse così popolare in così poco tempo? Come era possibile che tanta gente gravitasse intorno a casa sua senza che ci fosse un motivo? Che tutti portassero tanta roba a lei e al Capitano? “Non lo farebbero se non ci guadagnassero qualcosa”, mi diceva Orisha.
Fin dalle undici la casa è stata riempita da un flusso infinito di gente, che veniva portando fumo e alcohol da consumare nel patio. All’inizio sono arrivate prevalentemente donne e ragazze, tutte vestite in modo abbastanza vistoso. Catene d’oro, cinture con borchie, vestiti succinti. Una aveva un bambino piccolo, lei non arrivava ai vent’anni. Una aveva la pancia gonfie da alcohol. Mi hanno offerto whisky, che ho rifiutato imbarazzata. Mi sentivo molto a disagio, non capivo chi fosse questa gente, non mi pareva normale questo raduno. Lisa parlava in continuazione di safe sex, di AIDS e del suo progetto, che in un modo o nell’altro gravita intorno all’educazione delle sex workers e che ha come target la clientela bianca.
Piu’ tardi sono arrivati i ragazzi. Uno aveva diciannove anni e faceva il pescatore, aveva i capelli cortissimi e un disegno di una ragnatela che copriva metà della sua testa, con al centro la S di Spiderman. Un altro coi rasta aveva l’aria più educata, viveva in città e veniva a Maracas solo in vacanza. Si è messo a cucinare per tutti, e mi ha chiamata ai fornelli per spiegarmi come si faceva a fare quello specifico piatto. Erano tutti gentili con me, ma nella maggior parte dei casi facevo moltissima fatica a capire quello che dicevano a causa del loro accento incomprensibile.
La cosa pazzesca era che ognuno portava qualcosa in quantita' industriale. Birre. Rum. Cibo. Qualcuno cucinava, qualcuno lavava i piatti, tutto era condiviso e Lisa in qualche moido era il centro magnetico di tutto. L’atmostfera non era festosa, c’era un che di depravato nell’aria che non riuscivamo a decifrare. Tutto affondava in un melmoso delirio tropicale, obnubilante e deleterio. C’era anche un sacco di marijuana. Rollavano in continuazione, fumavano una canna dopo l’altra, senza interruzione. Perfino Orisha era colpita dalla quantità di fumo, lei che è figlia di padre rastafari che quando era piccola la metteva al tavolo da lavoro a rollargli 12 canne all’ora.
La presenza di tutta questa gente in casa sollevava molte domande. Come poteva essere che Lisa fosse così popolare in così poco tempo? Come era possibile che tanta gente gravitasse intorno a casa sua senza che ci fosse un motivo? Che tutti portassero tanta roba a lei e al Capitano? “Non lo farebbero se non ci guadagnassero qualcosa”, mi diceva Orisha.
Everybody fucks. Up. I
Il fine settimana pasquale e’ incominciato in modo leggermente insolito, ma mai ci saremmo aspettate che le cose sarebbero deteriorate a un tale grado di assuridita’ e perversione.
Tutto e’ cominciato quando Orisha è stata invitata a passare il weekend in una casa a due passi dalla splendida spiaggia di Maracas Bay. Il gentile invito le era arrivato da una certa Lisa, conosciuta solo 5 giorni prima nell’ambiente degli attivisti per la causa dell’HIV-AIDS. Nonostante la cosa paresse un po’ frettolosa, la buona Orisha ha pensato di non perdere l’occasione di passare due giorni in riva al mare, ha accettato l’invito e mi ha portata con se’. Quando siamo arrivate a Maracas sabato sera abbiamo trovato una casa era più grande e bella di quanto ci aspettassimo, con tanto spazio intorno, un gazebo-bar in giardino, un bel portico da cui osservare la luna seduti sulle sedie a sdraio. Quasi subito però, Orisha ed io abbiamo cominciato a notare alcuni strani dettagli, che ci hanno fatto pensare che in quella casa non fosse tutto esattamente come sembrava…
Innanzitutto la casa stessa. Sembrava presa in affitto da poco. Il tavolo era ancora avvolto nel cellophane. E nel cellophane era anche un mazzo di fiori finti in mezzo alla stanza. Colpiva la quasi totale assenza di oggetti personali in giro, come anche un aspetto generale di incuria e decadenza. Pile di piatti sporchi nel lavandino, decine di cicche di sigarette buttate a terra nel patio, letti disfatti. Ma la cosa più strana di tutte era l’assenza di chiusure. Le serrature delle porte erano state rotte apposta in modo che nessuno potesse chiudersi in camera, e tra la nostra stanza e il nostro bagno addirittura la porta era stata rimossa.
E inoltre c'era il Capitano. Un canadese sulla cinquantina che inizialmente si è definito un amico e un ospite, ma poco dopo è risultato essere stato in quella casa per un intero mese. Un capitano di navi da crociera, un marinaio giramondo che sapeva raccontare storie di mare, di atolli polinesiani e ghiacciai artici, ugualmente losco e sornione. All’inizio abbiamo congetturato che fossero amanti, o meglio che lei gli si offrisse in cambio di un aiuto a pagare la casa. Ma si è presto capito che probabilmente le cose erano un po’ più complesse.
Orisha me lo ha detto appena ci siamo trovate sole. “Sento strane vibrazioni in questa casa. Sento uno strano collegamento tra turismo e sesso. Non mi sentirei sicura in questo posto da sola”. Abbiamo terminato la serata ammazzandoci di cuscinate, ridendo come sceme e commentando i rumori strani fuori dalla finestra: “Stanno scavando la nostra tomba…”.
Tutto e’ cominciato quando Orisha è stata invitata a passare il weekend in una casa a due passi dalla splendida spiaggia di Maracas Bay. Il gentile invito le era arrivato da una certa Lisa, conosciuta solo 5 giorni prima nell’ambiente degli attivisti per la causa dell’HIV-AIDS. Nonostante la cosa paresse un po’ frettolosa, la buona Orisha ha pensato di non perdere l’occasione di passare due giorni in riva al mare, ha accettato l’invito e mi ha portata con se’. Quando siamo arrivate a Maracas sabato sera abbiamo trovato una casa era più grande e bella di quanto ci aspettassimo, con tanto spazio intorno, un gazebo-bar in giardino, un bel portico da cui osservare la luna seduti sulle sedie a sdraio. Quasi subito però, Orisha ed io abbiamo cominciato a notare alcuni strani dettagli, che ci hanno fatto pensare che in quella casa non fosse tutto esattamente come sembrava…
Innanzitutto la casa stessa. Sembrava presa in affitto da poco. Il tavolo era ancora avvolto nel cellophane. E nel cellophane era anche un mazzo di fiori finti in mezzo alla stanza. Colpiva la quasi totale assenza di oggetti personali in giro, come anche un aspetto generale di incuria e decadenza. Pile di piatti sporchi nel lavandino, decine di cicche di sigarette buttate a terra nel patio, letti disfatti. Ma la cosa più strana di tutte era l’assenza di chiusure. Le serrature delle porte erano state rotte apposta in modo che nessuno potesse chiudersi in camera, e tra la nostra stanza e il nostro bagno addirittura la porta era stata rimossa.
E inoltre c'era il Capitano. Un canadese sulla cinquantina che inizialmente si è definito un amico e un ospite, ma poco dopo è risultato essere stato in quella casa per un intero mese. Un capitano di navi da crociera, un marinaio giramondo che sapeva raccontare storie di mare, di atolli polinesiani e ghiacciai artici, ugualmente losco e sornione. All’inizio abbiamo congetturato che fossero amanti, o meglio che lei gli si offrisse in cambio di un aiuto a pagare la casa. Ma si è presto capito che probabilmente le cose erano un po’ più complesse.
Orisha me lo ha detto appena ci siamo trovate sole. “Sento strane vibrazioni in questa casa. Sento uno strano collegamento tra turismo e sesso. Non mi sentirei sicura in questo posto da sola”. Abbiamo terminato la serata ammazzandoci di cuscinate, ridendo come sceme e commentando i rumori strani fuori dalla finestra: “Stanno scavando la nostra tomba…”.
sabato 22 marzo 2008
Tartaruga
Ieri sera sono andata con i miei colleghi a vedere le tartarughe. Un pullman ci ha portato dall'altro lato dell'isola, sulla costa nord-ovest, dove soffia il vento forte e il mare e' sempre mosso. Nella stagione tra marzo e giugno tutte le notti vengono le tartarughe a deporre le uova. Sono tartarughe giganti, che vengono dal lontano Madagascar. Dato che e' inizio stagione noi ne abbiamo vista solo una, e dopo ben due ore di attesa. Ma sono state due ore assolutamente magiche, su quella spiaggia mozzafiato con la luna piena, il mare schiumoso, le palme alte dietro. La classica spiaggia da catolina, ma tutta impregnata di una luce blu, le stelle alte, il rumore forte delle onde. Un posto da sogno. L'atmosfera argentata ha anche creato un cima intimistico e contemplativo che difficilmente si manifesta in questa cultura tropicale. A poco a poco tutti hanno smesso di urlare e di ridere forte, ci siamo divisi in gruppi piu' piccoli, e io ho fatto una lunga chiacchierata di tutto e di niente, a bassa voce.
Poi la tartaruga e' arrivata. Era lunga piu' di un metro. Abbiamo dovuto aspettare che uscisse dall'acqua e che scegliesse il posto dove deporre le uova per non farla scappare. Poi lei si e' messa a scavare con le zampe di dietro, che sembrano delle grandi palette, e noi ci siamo potuti avvicinare. Scavava e scavava questo buco stretto e profondo, buttando sabbia dappertutto. Dovevamo stare in silenzio. La guida ci ha dato il permesso di fare foto solo dopo, durante la deposizione, perche' in quel momento la tartaruga entra in una specie di trans in cui non si accorge di nulla, lei arriccia il musino, gli occhi le cominciano a lacrimare. Io l'ho anche accarezzata sulla testa e sul collo. Non sapevo che la testa della tartaruga fosse dura come il guscio, mentre il collo e' fatto di pelle normale. All'inizio mi ha fatto un po' impressione, poi ho preso confidenza, mi faceva tenerezza. Dopo una mezzora lei ha cominciato a coprire la buca facendo un gran polevone con le zampe, e noi abbiamo dovuto lasciarla sola.
Era mezzanotte passata. Ci siamo lasciati il mare alle spalle, e ci siamo incamminati lentamente verso Port of Spain.
Poi la tartaruga e' arrivata. Era lunga piu' di un metro. Abbiamo dovuto aspettare che uscisse dall'acqua e che scegliesse il posto dove deporre le uova per non farla scappare. Poi lei si e' messa a scavare con le zampe di dietro, che sembrano delle grandi palette, e noi ci siamo potuti avvicinare. Scavava e scavava questo buco stretto e profondo, buttando sabbia dappertutto. Dovevamo stare in silenzio. La guida ci ha dato il permesso di fare foto solo dopo, durante la deposizione, perche' in quel momento la tartaruga entra in una specie di trans in cui non si accorge di nulla, lei arriccia il musino, gli occhi le cominciano a lacrimare. Io l'ho anche accarezzata sulla testa e sul collo. Non sapevo che la testa della tartaruga fosse dura come il guscio, mentre il collo e' fatto di pelle normale. All'inizio mi ha fatto un po' impressione, poi ho preso confidenza, mi faceva tenerezza. Dopo una mezzora lei ha cominciato a coprire la buca facendo un gran polevone con le zampe, e noi abbiamo dovuto lasciarla sola.
Era mezzanotte passata. Ci siamo lasciati il mare alle spalle, e ci siamo incamminati lentamente verso Port of Spain.
Lotta
Ieri sera Mas e Jesus hanno fatto una rissa. Io non c'ero, mi ha raccontato tutto Orisha stamattina, dicendo che non e' la prima volta. E' stata lei a doverli separare e a chiamare Gregoire a Tobago per chiedergli di calmarli per telefono, dato che lui e' l'unico al mondo ad avere autorita' morale su di loro. Ma questa e' stata la conclusione. Prima c'e' stato Mas che si e' arrabbiato con Jesus perche' aveva lasciato il bagno sporco dopo che lui l'aveva pulito alla perfezione. Credo che l'avesse pulito alla perfezione perche' oggi e' il suo compleanno, e voleva prepararsi un risveglio in un bagno decente. Lui tiene a queste cose. Jesus era ubriaco. Non l'ho mai visto ubriaco, ma so che e' alcolizzato. Deve averlo mandato a farsi fottere. Non si piacciono, e in piu' Jesus e' il superiore di Mas sul lavoro.
Mas gli ha dato uno schiaffo che lo ha fatto sanguinare dal labbro, e poi ha impugnato una mazza da hockey. C'era li' un amico di Jesus che si e' messo in mezzo come se fossero fatti suoi e ha cominciato a minacciare di morte Mas. Mas ha perso ogni controllo, ha cominciato a diventare violento, era fuori di testa. Jesus che pur essendo ubriaco e' un tipo tranquillo e' andato a chiamare amici di Mas nel quartiere, per calmarlo. Loro al posto che calmarlo si sono messi a difenderlo. Urlavano tutti. I vicini stavano a guardare. Jesus sanguinava sul marciapiede. Mas era trattentuto all'interno del cancello. Dopo un'ora Orisha e' riuscita a calmare le acque a sufficienza perche' Mas riuscisse a focalizzarsi sulla voce di Gregoire al telefono. Nel frattempo io ero con i miei colleghi a guardare le tartarughe.
Mas gli ha dato uno schiaffo che lo ha fatto sanguinare dal labbro, e poi ha impugnato una mazza da hockey. C'era li' un amico di Jesus che si e' messo in mezzo come se fossero fatti suoi e ha cominciato a minacciare di morte Mas. Mas ha perso ogni controllo, ha cominciato a diventare violento, era fuori di testa. Jesus che pur essendo ubriaco e' un tipo tranquillo e' andato a chiamare amici di Mas nel quartiere, per calmarlo. Loro al posto che calmarlo si sono messi a difenderlo. Urlavano tutti. I vicini stavano a guardare. Jesus sanguinava sul marciapiede. Mas era trattentuto all'interno del cancello. Dopo un'ora Orisha e' riuscita a calmare le acque a sufficienza perche' Mas riuscisse a focalizzarsi sulla voce di Gregoire al telefono. Nel frattempo io ero con i miei colleghi a guardare le tartarughe.
giovedì 20 marzo 2008
Donne
Per vivacizzare un po' la mia vita ormai routinaria il destino ieri mi ha fatto capitare una cosa insolita. Un approccio lesbico. Non mi era mai successo... Chiaro che ho avuto il classico microsecondo in cui mi sono chiesta "forse sembro lesbica?". L'ho spazzato subito via perche' so che non c'entra niente. Molte mie amiche femminilissime hanno avuto la stessa esperienza. Poi ci ho riflettuto un po'. Lei era gentilissima, appropriatissima. Ricercatrice nell'ufficio del Primo Ministro. Un approccio con una sensibilita' femminile, fatto di sfumature sottili. E io le potevo interpretare in modo molto immediato perche' seguivano gli stessi codici che avrei usato io, erano costruite sulla mia stessa mappa mentale. Quanto siamo simili, tutte noi donne? E al contrario, quanto sono incommensurabilmente, meravigliosamente insondabili gli uomini?
mercoledì 19 marzo 2008
Savannah
Uno dei piccoli piaceri che mi offre la vita a Trinidad è passeggiare intorno alla Savannah. La Savannah (che si pronuncia Savana, stile Re Leone) è un enorme parco cittadino, una cosa sterminata, che si estende in tutta Port of Spain nord. E’ assolutamente piatto, con qualche albero tropicale che lo punteggia qua e là senza ordine apparente, saltuariamente carico di fiori, più spesso semplicemente maestoso e contorto, sagoma nera contro il sole che scende. La piattezza della Savannah è contrastata dall’arco le colline tutte intorno a Port of Spain, che circondano immediatamente il parco, così che la Savannah viene a sembrare quasi un lago di acqua verde e piatta incuneato tra i monti.
La Savannah è praticamente un’immensa palestra cittadina. Sempre piena di ragazzi che giocano a calcio, a cricket (eredità britannica!), qualche volta a rugby. Lo spazio è così abbondante che decine di squadre possono starsene sparpagliate ad allenarsi senza darsi nessun fastidio. Intorno al parco c’è un sacco di gente che passeggia o corre, a tutte le ore del giorno. Una di quelle sono io, quando voglio prendermi un’oretta di tempo per pensare alla giornata che sta per finire. Allora col mio i-pod cammino spedita lungo i cinque chilometri del perimetro del parco. Passando di fianco a centinaia di persone che si allenano, a gruppi di vecchietti sulle panchine, a venditori di acqua di cocco, che si beve con una cannuccia direttamente dal frutto, e ai palazzi sontuosi della vecchia Port of Spain, tra cui l’opulenta residenza del Primo Ministro. Questo giro meditativo mi ricorda in qualche modo le mie lunghe passeggiate ginevrine sul lago Leman. Solo che lì l’unico modo per non morire assiderati era camminare in frettissima, stretta in cappello, cappotto e stivali al ginocchio. Qui al contrario, il caldo rallenta tutto, scioglie anche i pensieri. Prendo il tempo per canticchiare fra me e me, e osservare uno ad uno i dettagli di questa misteriosa distesa pacifica e lucida, accarezzata dai raggi obliqui dei gialli tramonti equatoriali.
La Savannah è praticamente un’immensa palestra cittadina. Sempre piena di ragazzi che giocano a calcio, a cricket (eredità britannica!), qualche volta a rugby. Lo spazio è così abbondante che decine di squadre possono starsene sparpagliate ad allenarsi senza darsi nessun fastidio. Intorno al parco c’è un sacco di gente che passeggia o corre, a tutte le ore del giorno. Una di quelle sono io, quando voglio prendermi un’oretta di tempo per pensare alla giornata che sta per finire. Allora col mio i-pod cammino spedita lungo i cinque chilometri del perimetro del parco. Passando di fianco a centinaia di persone che si allenano, a gruppi di vecchietti sulle panchine, a venditori di acqua di cocco, che si beve con una cannuccia direttamente dal frutto, e ai palazzi sontuosi della vecchia Port of Spain, tra cui l’opulenta residenza del Primo Ministro. Questo giro meditativo mi ricorda in qualche modo le mie lunghe passeggiate ginevrine sul lago Leman. Solo che lì l’unico modo per non morire assiderati era camminare in frettissima, stretta in cappello, cappotto e stivali al ginocchio. Qui al contrario, il caldo rallenta tutto, scioglie anche i pensieri. Prendo il tempo per canticchiare fra me e me, e osservare uno ad uno i dettagli di questa misteriosa distesa pacifica e lucida, accarezzata dai raggi obliqui dei gialli tramonti equatoriali.
Ore
Tra le innumerevoli cose diverse in questa parte del mondo, ci sono gli orari. A causa di una misteriosa combinazione di fattori è praticamente impossibile svegliarsi dopo le otto, a prescindere dall’ora in cui si è andati a dormire la sera prima. Sara' la luce impietosa, saranno i galli nel cortile dei vicini, sara' una certa incorruttibile tendenza generale che fa scorrere tutto e tutti secondo questo stesso preciso ritmo. Perfino io che ho la pressione bassissima mi alzo senza il minimo giramento di testa poco prima delle sette di mattina, sempre. In ufficio si comincia alle otto, pranzo alle dodici. La sera si mangia qualcosa verso le sette. Si va a nanna alle undici e mezza, in media, a se si è appena un po’ stanchi anche alle dieci. La cosa strana è che mi sono calata in questo nuovo ritmo vitale in modo talmente naturale che non mi sembra di aver mai fatto altrimenti prima d’ora. Stranissimo.
lunedì 17 marzo 2008
Downtown by night
Venerdì sera. Downtown di Port of Spain. Ghetto da evitare categoricamente, in cui per un motivo o per l’altro mi sono trovata a passare la serata. E’ talmente difficile da descrivere che tanto varrebbe lasciar fare all’immaginazione. Proverò e fallirò, prima di andare a dormire.
La cosa fondamentale sono i suoni. Almeno 3 o 4 fonti incrociate di musica sovrapposta, che creano un casino di fondo non necessariamente assordante ma certamente destabilizzante. Una è la discoteca all’angolo, un edificio dall’aria losca in cui chissà che succede. Un altro è il bar dall’altra parte della strada. Poi le fonti mobili. Tizi che vanno in giro a vendere musica pirata, trasportando carrelli con dentro altoparlanti a tutto volume. E in più le macchine, ovviamente, che emettono musica altissima mentre stanno incolonnate lungo i fianchi di Independence Square, che a dispetto del nome è un enorme viale con al centro un’area pedonale. Musica caraibica, musica techno, musica in ogni caso con un elemento di beat molto ben definito che scandisce il tempo della notte.
Poi le luci, tantissime. File di 4 lampioni che tappezzano il viale da cima a fondo, a loro volta avvolti da spirali di lucine stile albero di Natale. Luci delle insegne di negozi, fast food e centri commerciali aperti 24/7 ai due lati della strada, enormi, colorate e onnipresenti. Luce gratuita di un maxischermo in cima al KFC su cui scorre una pubblicità isterica in multicolor. E infine gli odori, forti, pregnanti. Odori di escrementi umani, di pattumiera, di frutta marcia lasciata per terra dal mercato. Odori di birra e di fumo, di sporco e di fogna. Saltuariamente intervallati da un inverosimile, delizioso profumo di agrumi proveniente dalle montagne di limoni sbucciati sulle bancarelle di frutta sui marciapiedi.
Traffico di macchine, traffico di persone a piedi, traffico di commercianti abusivi di migliaia di CD di film pirata, magliette giamaicane e accessori per capelli negri. Pantaloni larghi, magliette sudate e scarpe da ginnastica. Berretti da baseball, canottiere a costine e catene d’oro. C’è chi va in giro a torso nudo. C’è chi va in giro a piedi nudi. C’è chi porta sacchi pesantissimi dal contenuto misterioso sulle spalle, coi muscoli contratti che si staccano dai corpi rugosi. Moltissime persone che bevono, parlano, si spostano. Tutto ha un’aria pericolosa e precaria, e penso che se non fossi con Orisha non me ne starei lì in mezzo per nulla al mondo. A un certo punto scoppia una rissa, due si mettono a litigare in un angolo, la gente accorre morbosamente a vedere, forse vogliono il sangue. I barboni indifferenti si aggirano come spettri a raccogliere bottiglie vuote sul ciglio del marciapiede, che se le riportano ai negozi ricevono il 10%. Donne grasse e svogliate si siedono a fumare. Giovani affamati escono dai fast food con l’insegna gialla e addentano pollo fritto da scatole di cartone. Vento caldo, clacson, sporcizia. La musica che copre tutte le parole.
Andiamo a una bancarella e ci prendiamo una doubles, una specie di doppia frittellina con salsa al curry piccante e legumi, che è assolutamente impossibile mangiare senza immergerci le dita e le unghie, e al diavolo le mani sporche. Ci prendiamo una birra in uno dei localetti cinesi che passano le bibite attraverso le sbarre. Un sordomuto si avvicina a noi e comincia a mimarci una scena per spiegarci che è stato derubato, ci sta chiedendo aiuto. La musica schiaccia perfino la mia pietà, penso solo che è grottesco per come si agita e per i suoni gutturali che accompagnano i suoi gesti. Lui se ne va, sconsolato e deforme.
E la vita della piazza continua a fluire, col suo beat elettrico e fremente. Donne ubriache che strillano, senzatetto luridi che non aspettano nulla, un bambino nascosto sotto una bancarella che cerca di dormire. Pazzi che parlano da soli, gang di ragazzi che si raggruppano, barboni che continuano nella loro lenta raccolta di vetri. Qualcuno che balla per strada, in piedi sopra a degli altoparlanti giganti. Ladri che fregano portafogli, gente che compra frutta, marijuana e pane speziato, taxi che rilasciano persone per tre dollari la corsa e poi schizzano via. L’aria è piena di energia, tutta traboccante di vita, di umori, di odori. Tutto è denso e ronzante, tutto è carnalmente pulsante. Il baccanale sonoro porta via tutto, come un fiume potentissimo. Le birre si consumano, la piazza si riempie di immondizia, le macchine scorrono infinite ai due lati del viale... E la notte continua, gonfia di dettagli e priva di eventi, nella fatiscente, ributtante, elettrizzante commedia umana di downtown.
La cosa fondamentale sono i suoni. Almeno 3 o 4 fonti incrociate di musica sovrapposta, che creano un casino di fondo non necessariamente assordante ma certamente destabilizzante. Una è la discoteca all’angolo, un edificio dall’aria losca in cui chissà che succede. Un altro è il bar dall’altra parte della strada. Poi le fonti mobili. Tizi che vanno in giro a vendere musica pirata, trasportando carrelli con dentro altoparlanti a tutto volume. E in più le macchine, ovviamente, che emettono musica altissima mentre stanno incolonnate lungo i fianchi di Independence Square, che a dispetto del nome è un enorme viale con al centro un’area pedonale. Musica caraibica, musica techno, musica in ogni caso con un elemento di beat molto ben definito che scandisce il tempo della notte.
Poi le luci, tantissime. File di 4 lampioni che tappezzano il viale da cima a fondo, a loro volta avvolti da spirali di lucine stile albero di Natale. Luci delle insegne di negozi, fast food e centri commerciali aperti 24/7 ai due lati della strada, enormi, colorate e onnipresenti. Luce gratuita di un maxischermo in cima al KFC su cui scorre una pubblicità isterica in multicolor. E infine gli odori, forti, pregnanti. Odori di escrementi umani, di pattumiera, di frutta marcia lasciata per terra dal mercato. Odori di birra e di fumo, di sporco e di fogna. Saltuariamente intervallati da un inverosimile, delizioso profumo di agrumi proveniente dalle montagne di limoni sbucciati sulle bancarelle di frutta sui marciapiedi.
Traffico di macchine, traffico di persone a piedi, traffico di commercianti abusivi di migliaia di CD di film pirata, magliette giamaicane e accessori per capelli negri. Pantaloni larghi, magliette sudate e scarpe da ginnastica. Berretti da baseball, canottiere a costine e catene d’oro. C’è chi va in giro a torso nudo. C’è chi va in giro a piedi nudi. C’è chi porta sacchi pesantissimi dal contenuto misterioso sulle spalle, coi muscoli contratti che si staccano dai corpi rugosi. Moltissime persone che bevono, parlano, si spostano. Tutto ha un’aria pericolosa e precaria, e penso che se non fossi con Orisha non me ne starei lì in mezzo per nulla al mondo. A un certo punto scoppia una rissa, due si mettono a litigare in un angolo, la gente accorre morbosamente a vedere, forse vogliono il sangue. I barboni indifferenti si aggirano come spettri a raccogliere bottiglie vuote sul ciglio del marciapiede, che se le riportano ai negozi ricevono il 10%. Donne grasse e svogliate si siedono a fumare. Giovani affamati escono dai fast food con l’insegna gialla e addentano pollo fritto da scatole di cartone. Vento caldo, clacson, sporcizia. La musica che copre tutte le parole.
Andiamo a una bancarella e ci prendiamo una doubles, una specie di doppia frittellina con salsa al curry piccante e legumi, che è assolutamente impossibile mangiare senza immergerci le dita e le unghie, e al diavolo le mani sporche. Ci prendiamo una birra in uno dei localetti cinesi che passano le bibite attraverso le sbarre. Un sordomuto si avvicina a noi e comincia a mimarci una scena per spiegarci che è stato derubato, ci sta chiedendo aiuto. La musica schiaccia perfino la mia pietà, penso solo che è grottesco per come si agita e per i suoni gutturali che accompagnano i suoi gesti. Lui se ne va, sconsolato e deforme.
E la vita della piazza continua a fluire, col suo beat elettrico e fremente. Donne ubriache che strillano, senzatetto luridi che non aspettano nulla, un bambino nascosto sotto una bancarella che cerca di dormire. Pazzi che parlano da soli, gang di ragazzi che si raggruppano, barboni che continuano nella loro lenta raccolta di vetri. Qualcuno che balla per strada, in piedi sopra a degli altoparlanti giganti. Ladri che fregano portafogli, gente che compra frutta, marijuana e pane speziato, taxi che rilasciano persone per tre dollari la corsa e poi schizzano via. L’aria è piena di energia, tutta traboccante di vita, di umori, di odori. Tutto è denso e ronzante, tutto è carnalmente pulsante. Il baccanale sonoro porta via tutto, come un fiume potentissimo. Le birre si consumano, la piazza si riempie di immondizia, le macchine scorrono infinite ai due lati del viale... E la notte continua, gonfia di dettagli e priva di eventi, nella fatiscente, ributtante, elettrizzante commedia umana di downtown.
venerdì 14 marzo 2008
Cosa ci faccio qui
Il mio ruolo ufficiale qui, per esteso e in tutta la sua cripticita', e' "UNV Intern in Monitornig". UNV sta per UN Volunteer, cioe' partecipante ad un programma ONU che manda professionisti in paesi in via di sviluppo per un periodo limitato di tempo, coprendo solo le spese essenziali. Intern perche' io non sono una professionista, ma faccio parte di quel pool di giovani di meno di 26 anni che sono risultati idonei a partecipare al programma.
Ora, la parte interessante della definizione e' il Monitoring, che vorrebbe specificare la mia funzione. Monitoring significa misurare i risultati concreti di un progetto o un programma. In un esempio di semplificazione estrema, in un progetto sul salvataggio di tartarughe in via di estinzione il responsabile del monitoring contera' le tartarughe prima, durante, alla fine e ad intervalli regolari dalla fine del progetto. In questo modo e' possibile dire se il progetto e' stato un successo o un fallimento.
Ovviamente le cose sono piu' complicate di cosi', e i progetti possono essere tecnicamente anche molto elaborati. Per esempio mi e' stato affibbiato il monitoring del progetto sulla ristrutturazione dell'ufficio centrale di statistica di Trinidad e Tobago, che implica moltissimi elementi, dalla ristrutturazione dell'edificio a quella del sistema IT; dalla legge che stabilisce l'autonomia del centro rispetto al Governo alla diffusione dei dati; dalla soddisfazione del personale alla trasparenza dell'istituzione eccetera eccetera.
Al di la' dell'aspetto tecnico, questo progetto e' interessantissimo perche' senza un buon centro di statistica non e' possibile avere molti dati importanti, tipo la mortalita' infantile, la criminalita' tra gli adolescenti, l'accesso all'educazione, la mortalita' sul lavoro eccetera. Dato che questo paese i soldi per migliorare le cose ce li ha, la prima cosa da fare e' avere un centro che raccolga informazioni per poter a seguito formulare politiche basate su dati reali.
La cosa un po' inquietante e' che tutto il mio entusiasmo non cancella il fatto che io non abbia mai fatto nulla del genere. Qui non c'e' un professionista in Monitoring a cui io possa fare la stagista. Non c'e' mai stato nessuno con questa funzione, quindi dovro' fare tutto io, inventando di sana pianta se necessario. Marisa e' stata molto chiara. "Eu gosto dos resultados", a me piacciono i risultati. Fai una bozza di monitoring basata sul report, chiama i tizi dell'ufficio di statistica, mettiti d'accordo con loro sugli indicatori e comincia a lavorare.
Lunedi' ho il primo incontro. Proviamoci.
Ora, la parte interessante della definizione e' il Monitoring, che vorrebbe specificare la mia funzione. Monitoring significa misurare i risultati concreti di un progetto o un programma. In un esempio di semplificazione estrema, in un progetto sul salvataggio di tartarughe in via di estinzione il responsabile del monitoring contera' le tartarughe prima, durante, alla fine e ad intervalli regolari dalla fine del progetto. In questo modo e' possibile dire se il progetto e' stato un successo o un fallimento.
Ovviamente le cose sono piu' complicate di cosi', e i progetti possono essere tecnicamente anche molto elaborati. Per esempio mi e' stato affibbiato il monitoring del progetto sulla ristrutturazione dell'ufficio centrale di statistica di Trinidad e Tobago, che implica moltissimi elementi, dalla ristrutturazione dell'edificio a quella del sistema IT; dalla legge che stabilisce l'autonomia del centro rispetto al Governo alla diffusione dei dati; dalla soddisfazione del personale alla trasparenza dell'istituzione eccetera eccetera.
Al di la' dell'aspetto tecnico, questo progetto e' interessantissimo perche' senza un buon centro di statistica non e' possibile avere molti dati importanti, tipo la mortalita' infantile, la criminalita' tra gli adolescenti, l'accesso all'educazione, la mortalita' sul lavoro eccetera. Dato che questo paese i soldi per migliorare le cose ce li ha, la prima cosa da fare e' avere un centro che raccolga informazioni per poter a seguito formulare politiche basate su dati reali.
La cosa un po' inquietante e' che tutto il mio entusiasmo non cancella il fatto che io non abbia mai fatto nulla del genere. Qui non c'e' un professionista in Monitoring a cui io possa fare la stagista. Non c'e' mai stato nessuno con questa funzione, quindi dovro' fare tutto io, inventando di sana pianta se necessario. Marisa e' stata molto chiara. "Eu gosto dos resultados", a me piacciono i risultati. Fai una bozza di monitoring basata sul report, chiama i tizi dell'ufficio di statistica, mettiti d'accordo con loro sugli indicatori e comincia a lavorare.
Lunedi' ho il primo incontro. Proviamoci.
La bise
E' esattamente un mese che sono arrivata in questo paese, e stamattina per la prima volta mi sono resa conto che c'e' una cosa su tutte che mi manca da morire. Piu' del caffe', piu' della mia lingua, piu' di internet in casa. E' una cosa che non avevo mai considerato importante, e invece si vede che faceva talmente parte del mio quotidiano che non ne posso fare a meno. E' la bise, i due bacini quando ci si incontra e quando ci si saluta. Questo micro-gesto di affetto, la creazione di un contatto epiteliale, la demarcazione di uno spazio di interazione piu' prossimo, che poi influenza tutto il rapporto fisico con l'altro. E' strano pensare che in un paese caraibico e rovente avrei sviluppato la stessa sensazione che avevo avuto dopo sue mesi di vita a Londra: la mancanza di contatto fisico con le persone. E non e' solo una questione di contatto, ma anche di rituale. Quando si termina una serata o un incontro, magari un incontro in cui si e' parlato a lungo, ci si si e' dati qualcosa, c'e' stato un flusso di energia positiva, mi viene naturale salutare con i due bacini. Sigillano il momento, chiudono qualcosa, riconoscono l'evento. Mi sento sempre male quando dopo qualche ora passata con qualcuno dico "Va bene io vado" e mi sento solo rispondere solo con un "Ciao" buttato li' senza nemmeno guardarmi. Lo so che non lo fanno per essere freddi o maleducati, ho capito che qui e' cosi'. Ma quanto e' stato bello quando la stagista del'UNICEF iraniano-svedese l'altro giorno mi ha salutata con abbraccio? "Voi abbracciate tanto in Italia, vero? Anche in Iran!". Giuro, mi ha quasi commossa.
Wilma II
Wilma e' pazzesca, altro che settantenne. La meta' delle volte che entro in casa lei non c'e'. O e' fuori con gli amici, o dai suoi figli, o a accompagnare le nipotine a ginnastica, chi piu' ne ha piu' ne metta. Quando c'e', sta sempre facendo qualcosa. La vedo tutta industriosa in cucina, che si prepara le sue zuppe, le sue insalate, e poi le stipa tutte ordinate nel frigo in barattolini con su scritto a pennarello "zuppa" e "insalata". Oppure la trovo impegnata a etichettare la casa. "Riempimi" sul tappo delle bottiglie di acqua, "spegnimi" sui rubinetti. Infine quando non cucina e non etichetta se ne sta in camera sua a guardare la tele. Finalmente una cosa da nonna!, si penserebbe. Neache per idea. Niente telenovele, niente quizshow. Guarda solo BBC World, il miglior canale di notizie del mondo.
L'altro giorno stavo uscendo dalla doccia e mi ha bloccata li' in mezzo al corridoio per chiedermi con un diavolo per capello: "Lo sai cosa ha fatto Mugabe questa volta?". Non riuscivo a crederci, sa pure quello che succede in Zimbabwe. Respect.
L'altro giorno stavo uscendo dalla doccia e mi ha bloccata li' in mezzo al corridoio per chiedermi con un diavolo per capello: "Lo sai cosa ha fatto Mugabe questa volta?". Non riuscivo a crederci, sa pure quello che succede in Zimbabwe. Respect.
giovedì 13 marzo 2008
Fumo
Ieri sera nel buio del sottobosco mi e' arrivato un segnale. Era una frase qualunque che non aveva nulla a che vedere con me, un frammento di una conversazione tra Mas e Orisha su una persona che non conosco nanche. Chissa' come pero' questa frase mi trasmette un'informazione preziosa, mi rivela un dettaglio importantissimo a cui non avevo affatto pensato. Mi spalanca gli occhi.
- Vivi, ti stai comportando da ingenua. Non dimenticare che questa e' pur sempre una giungla. -
- Vivi, ti stai comportando da ingenua. Non dimenticare che questa e' pur sempre una giungla. -
Folletto
Il Sottobosco della casa di Wilma è davvero il mondo dell’assurdo. Oltre ai tre affascinanti e misteriosissimi coinquilini, questo spazio indecifrabile accoglie saltuariamente anche un ulteriore, curioso ometto. Si chiama Phil, è un vecchino piccolo piccolo dai modi gentili, ed è il proprietario della chiavetta per la quarta porticina gialla che resta sempre chiusa. Phil il folletto entra nel Sottobosco la domenica pomeriggio, con una vecchissima bicicletta arrugginita a cui è applicata una grande cassa squadrata sul davanti. Apre saltellando la sua porticina e comincia ad armeggiare con delle pozioni magiche di tutti i colori, le versa tra un’ampolla e l’altra, le combina e le ripartisce. Le ha preparate tutte lui stesso, mi assicura. Sono sciroppi fatti con la frutta del suo orto. Mi sorride. Vuoi assaggiare? E senza aspettare la mia risposta prende un bicchiere, lo affonda nella cassa davanti alla bicicletta, lo tira fuori pieno di ghiaccio tritato. Lo colora con un po’ di sciroppo rosa, dà una spruzzata di rum, ci infila una cannuccia e me lo porge. E’ un vecchio amico di Wilma. Un venditore di granite ambulante.
mercoledì 12 marzo 2008
Orisha parla II
Domenica mi sembra di aver finalmente conquistato Orisha, di aver sciolto un po' della sua ruvida scorza. Sono scesa di mattina nella cucina-gabbia, mentre lei preparava qualche intruglio indefinito di frutti strani (che tra l’altro si è rivelato buono). Le ho fatto un po’ compagnia in silenzio, e poi mi sono messa a leggere sotto una pianta del “giardino”. Dopo un po’ che ero lì per i fatti miei lei è venuta lì a sedersi di fianco a me e abbiamo cominciato a chiacchierare del più e del meno, nella brezza del pomeriggio. Più tardi, quando sono salita nella mia cucina dicendole che mi aveva ispirata a cucinare, lei inizialmente mi ha fatto il verso, sfottendo al tempo stesso il mio accento e la mia mielosità. “Iu inspaird mi!”. Poi però è salita in cucina con me e si è messa a ripescare le carote nella mia zuppa dicendo che non le avevo tagliate bene. Era la prima volta che era lei a cercare me, che era lei a venire nel mio territorio. E ancora più tardi è tornata a chiedermi uno shampoo per i suoi rasta, e quando le ho mostrato quello per capelli biondi ci siamo messe a ridere. Mi continuava a punzecchiare, ma senza cattiveria: si divertiva a vedermi sbuffare. Alla fine andandosene mi ha fatto un regalo inaspettato. “Vieni giù dopo cena, ti leggerò le mie poesie”. Era tanto che glielo chiedevo.
Quindi verso le dieci ci siamo improvvisate in questa speciale session poetica, in cui lei mi ha letto prima i versi dei suoi scrittori preferiti e poi qualcosa di suo. Recitava ad alta voce come un’attrice, all’inizio timidamente, poi con più sicurezza. Devo dire che erano bellissimi, anche se difficili: la poesia in inglese mi è ancora totalmente inaccessibile. Ma la cosa più bella era vedere lei che si apriva, si lasciava osservare, e poi mi chiedeva: “Ti piace? E perché ti piace? Dimmi cosa ti fa venire in mente, dimmi quello che ti evoca”.
Quindi verso le dieci ci siamo improvvisate in questa speciale session poetica, in cui lei mi ha letto prima i versi dei suoi scrittori preferiti e poi qualcosa di suo. Recitava ad alta voce come un’attrice, all’inizio timidamente, poi con più sicurezza. Devo dire che erano bellissimi, anche se difficili: la poesia in inglese mi è ancora totalmente inaccessibile. Ma la cosa più bella era vedere lei che si apriva, si lasciava osservare, e poi mi chiedeva: “Ti piace? E perché ti piace? Dimmi cosa ti fa venire in mente, dimmi quello che ti evoca”.
Jesus
Ieri scendendo ad aspettare il mio taxi incrocio Jesus che rientra. Jesus è l’inquilino che conosco meno, non lo vedo quasi mai. Quelle due volte che ci siamo parlati è stato gentilissimo, mi ha chiesto come mi trovo, mi ha pure invitata per un liming con amici, ma in realtà non ho ancora avuto il tempo di scoprire chi si nasconda dietro quell’aspetto di ragazzo rasta, magrissimo, emaciato, con una vaga aria da gatto randagio. Wilma mi ha accennato al suo passato da orfano e al suo presente alcolizzato. Wilma gli ha detto mille volte che dovrebbe bere succhi di frutta, ma lui vuole solo birra.
Lo saluto, gli chiedo come sta, lui mi guarda lentamente e risponde che è stata una giornata molto lunga. E io sento provenire da parte sua una carica di stanchezza profondissima, uno sfinimento indicibile. E’ tutto il giorno che lavora - lui lavora tutti i giorni, - lavora sette giorni su sette. Gli chiedo perchè e risponde che ha bisogno di soldi, e poi comincia a parlarmi velocissimo in un inglese biascicato, gergale e smozzicato con gli occhi semichiusi per la stanchezza. Dallo scorrere indistinto del suo monologo colgo che oggi ha avuto problemi col capo, che hanno minacciato di non pagarlo, anzi forse non lo pagano proprio, perchè gli dicono che non lavora abbastanza, che l’hanno beccato mentre dormiva ma in realtà è successo solo una volta e lui sono quattro anni che si spacca la schiena in quel posto. Che si ammazza giorno e notte per questi 40 TT all’ora (circa 6.5 dollari USA). “E’ così che funziona, capisci?”, mi diceva con quest’aria rotta, senza sapere perché stava raccontando queste cose proprio a me, nemmeno mi conosce.
Io per l’ennesima volta in tre giorni sento che non so che cosa dire, gli dico che è ingiusto, che mi dispiace, che deve riposarsi. Cerco di fargli capire almeno con gli occhi che me ne frega, di quello che mi ha detto. A quel punto lui si ricorda che è stanco, si allontana e mi lancia un “passa una buona serata” da dietro le spalle. E in questo augurio percepisco un’incontrollata sfumatura di risentimento, una frustrazione che prende la forma di un’accusa involontaria nei miei confronti. Come è possibile che abbiamo la stessa età e tu sia stata tutto il giorno seduta in un bell’ufficio e ora te ne esci coi tuoi amici, mentre io mi sono fatto sfruttare tutto il giorno, domattina ricomincio e speriamo che mi paghino alla fine? Cosa abbiamo fatto di così diverso per meritarci due sorti così impari? Io mi sono sentita un verme, non avevo più voglia di uscire, di andare alla mia cena. Mi sembrava una vigliaccata, dopo aver visto quanto era stanco lui. Faccio un respiro, gli chiedo se poteva chiamarmi Mas, per favore.
Mas esce dalla stanzetta, avvolto nel suo asciugamano striminzito, viene verso di me trascinando i piedi. Ha un’aria assente, non mi sorride nemmeno, è malato. Volevo controllare se stavi bene, ti ho sentito tossire tantissimo. Yes, last night was miserabile. Salgo a prendergli un’aspirina, gliela metto in un bicchiere, poi decido di portargli tutto il mio pacchetto, quello che mia madre aveva insistito che prendessi su all’ultimo momento. Bevi questa e poi prendine tre al giorno. Mas manda giù al volo e mi restituisce il bicchiere, biascicando un ringraziamento distratto. Jesus è lì di fianco che osservava nel buio tutta quest’operazione. Io non lo guardo, me ne vado in silenzio, e in cuor mio spero solo che mi odi un po’ di meno.
Lo saluto, gli chiedo come sta, lui mi guarda lentamente e risponde che è stata una giornata molto lunga. E io sento provenire da parte sua una carica di stanchezza profondissima, uno sfinimento indicibile. E’ tutto il giorno che lavora - lui lavora tutti i giorni, - lavora sette giorni su sette. Gli chiedo perchè e risponde che ha bisogno di soldi, e poi comincia a parlarmi velocissimo in un inglese biascicato, gergale e smozzicato con gli occhi semichiusi per la stanchezza. Dallo scorrere indistinto del suo monologo colgo che oggi ha avuto problemi col capo, che hanno minacciato di non pagarlo, anzi forse non lo pagano proprio, perchè gli dicono che non lavora abbastanza, che l’hanno beccato mentre dormiva ma in realtà è successo solo una volta e lui sono quattro anni che si spacca la schiena in quel posto. Che si ammazza giorno e notte per questi 40 TT all’ora (circa 6.5 dollari USA). “E’ così che funziona, capisci?”, mi diceva con quest’aria rotta, senza sapere perché stava raccontando queste cose proprio a me, nemmeno mi conosce.
Io per l’ennesima volta in tre giorni sento che non so che cosa dire, gli dico che è ingiusto, che mi dispiace, che deve riposarsi. Cerco di fargli capire almeno con gli occhi che me ne frega, di quello che mi ha detto. A quel punto lui si ricorda che è stanco, si allontana e mi lancia un “passa una buona serata” da dietro le spalle. E in questo augurio percepisco un’incontrollata sfumatura di risentimento, una frustrazione che prende la forma di un’accusa involontaria nei miei confronti. Come è possibile che abbiamo la stessa età e tu sia stata tutto il giorno seduta in un bell’ufficio e ora te ne esci coi tuoi amici, mentre io mi sono fatto sfruttare tutto il giorno, domattina ricomincio e speriamo che mi paghino alla fine? Cosa abbiamo fatto di così diverso per meritarci due sorti così impari? Io mi sono sentita un verme, non avevo più voglia di uscire, di andare alla mia cena. Mi sembrava una vigliaccata, dopo aver visto quanto era stanco lui. Faccio un respiro, gli chiedo se poteva chiamarmi Mas, per favore.
Mas esce dalla stanzetta, avvolto nel suo asciugamano striminzito, viene verso di me trascinando i piedi. Ha un’aria assente, non mi sorride nemmeno, è malato. Volevo controllare se stavi bene, ti ho sentito tossire tantissimo. Yes, last night was miserabile. Salgo a prendergli un’aspirina, gliela metto in un bicchiere, poi decido di portargli tutto il mio pacchetto, quello che mia madre aveva insistito che prendessi su all’ultimo momento. Bevi questa e poi prendine tre al giorno. Mas manda giù al volo e mi restituisce il bicchiere, biascicando un ringraziamento distratto. Jesus è lì di fianco che osservava nel buio tutta quest’operazione. Io non lo guardo, me ne vado in silenzio, e in cuor mio spero solo che mi odi un po’ di meno.
martedì 11 marzo 2008
Occhi
Ieri ho finalmente conosciuto Gregoire, il celeberrimo figlio di Wilma. Quello che tutta la citta' conosce, stile "dove abiti?" "abito dalla madre di Greogoire", "ah, capito". Quello che ha studiato in Canada, che ci ha lavorato nella societa' civile con i giovani, che e' tornato a Trinidad per fare l'outreach del YMCA e ora ha una posizione in un qualche ministero. Quello amico di tutti gli artisti del cinema nella fabbrica. Quello che ha tirato Mas e Jesus fuori dalla strada e li ha messi in casa di sua madre.
Ero stata avvisata. Guarda che Gregoire e' attraente. Ma per attraente non avevo capito che intendessero l'uomo-piu'-bello-del-mondo. Arrivo a casa e lui e' a prendere la figlia dalla nonna. Si gira, mi guarda, e io vedo questa reincarnazione di Apollo in versione caraibica, con rasta nel cappellino morbido combinati ad un aria da da gentleman che ha visto il mondo. Alto, bel sorriso, carnagione sul mulatto, e - cosa non solo attraente ma sopratuttio fenomenale e inaspettata - due occhi azzurro-verdi stranissimi, che non sembrano nemmeno umani. Io mi dico. "Vivi, focus. E' una persona normale". Ma Wilma ha deciso di essere odiosa, e dice al figlio "Credo che in questo momento a lei stiano piacendo i tuoi occhi". Lui sorride e dice a me "Credo che in questo momento lei ti abbia messa in imbarazzo". Io non so cosa rispondere e penso: "Vorrei che questo momento finisse molto, molto presto!".
Ero stata avvisata. Guarda che Gregoire e' attraente. Ma per attraente non avevo capito che intendessero l'uomo-piu'-bello-del-mondo. Arrivo a casa e lui e' a prendere la figlia dalla nonna. Si gira, mi guarda, e io vedo questa reincarnazione di Apollo in versione caraibica, con rasta nel cappellino morbido combinati ad un aria da da gentleman che ha visto il mondo. Alto, bel sorriso, carnagione sul mulatto, e - cosa non solo attraente ma sopratuttio fenomenale e inaspettata - due occhi azzurro-verdi stranissimi, che non sembrano nemmeno umani. Io mi dico. "Vivi, focus. E' una persona normale". Ma Wilma ha deciso di essere odiosa, e dice al figlio "Credo che in questo momento a lei stiano piacendo i tuoi occhi". Lui sorride e dice a me "Credo che in questo momento lei ti abbia messa in imbarazzo". Io non so cosa rispondere e penso: "Vorrei che questo momento finisse molto, molto presto!".
La langue diplomatique
Nelle Nazioni Unite esiste una parola taboo, che non si puo’ mai pronunciare, che provoca fastidi, arriciate di naso, pruriti, eritemi e rossori. E’ la parola “problem”. Perche’ e’ troppo “confrontational”. Perche’ non e’ “diplomatic”. Perche’ all’ONU bisogna vedere le cose in modo diverso, all’americana, in modo positivo. E’ cosi’ che si manda avanti il mondo. E cosi’ ho scoperto che secondo qualche misterioso accordo non detto e non scritto il vecchio “problem” e’ stato sostituito dalla ben piu’ attraente e luminosa “challenge”. La logica sottesa e’ evidente. Non guardiamo all’ostacolo ma a quello che c’e’ al di la’. L’ostacolo non e’ un blocco ma un indovinello da risolvere, un drago contro cui lottare valorosamente, un impresa da vincere insieme, e alla fine saremo tutto ancora piu’ uniti e piu’ orgogliosi.
Tutto molto bello, ma facilmente sfocia nel ridicolo. L’altro giorno uno e’ arrivato a una riunione dicendo: “Scusate il ritardo, I had some challenges to get here”.
Tutto molto bello, ma facilmente sfocia nel ridicolo. L’altro giorno uno e’ arrivato a una riunione dicendo: “Scusate il ritardo, I had some challenges to get here”.
lunedì 10 marzo 2008
Aperitivo femminile
Quando Marisa ha letto il mio CV e ha visto che avevo lavorato sul gender ha colto l'occasione per invitarmi ad un drink con delle sue amiche che vogliono organizzare qualcosa per le donne di Trinidad. Ero un po' in soggezione all'idea di andare a bere qualcosa con il mega-boss ONU, ma lei e' talmente friendly che mi ha messa subito a mio agio, e poi si vede che e' contenta di parlare un po' in portoghese con qualcuno, ogni tanto. E questo aperitivo si e' rivelato - davvero - una delle esperienze piu' interessanti che abbia mai fatto (!!!). Le sue tre amiche erano donne assolutamente fuori dal comune. La prima era una storica attivista di ferro sui diritti delle donne, di una sessantina d'anni, di allure internazionlale; la seconda, un po' piu' dolce a ugualmente impegnata, e' la leader di un progetto di educazione di donne che si vogliono candidare in Parlamento; l'ultima invece era una giovane bella e trentenne, dall'accento newyorkese che sembrava uscitra da sex and the city, che dirige alcune delle riviste patinate piu' glamourous dei Caraibi. Ha vissuto a Milano, sofisticata, proveniente da una famiglia altolocata, vuole usare i suoi ganci con l'editoria e con il jetset per promuovere la condizione delle donne nell'isola, specie nell'imprenditoria. Quindi intorno ai bicchieri di vino bianco si sono raccolti questi due mondi apparentemente opposti del business e dell'attivismo, che si cimentavano in una coalizione eccezionale per un progetto comune. In tutto questo Marisa dava il suo supporto di guida politica e di stragtegia, usava le sue doti di boss esecutivo, frenava la conversazione appena si cominciava a divagare e riportava tutte all'agenda. In un paio d'ore sono venute fuori mille idee, tra cui l'organizzazione di un pranzo con 2 ministre donne, assieme ad altre donne in vista di Trinidad, per fare lobbying per l'adozione rapida della women policy che e' in stagnazione sulle scrivanie del governo da ormai 4 anni. Fantastico. Io ascoltavo e interagivo, certo non potevo contribuire un gran che, ma e' stato assolutamente esaltante e ispirante. E intanto ho sommessamente proposto che nell'evento sui diritti umani che l'ONU mettera' in piadi in Autunno ci potrebbe essere una sezione dedicata alle donne in cui queste tre meravigliose esponenti potrebbero intervenire. Chissa'.
Boss
Settimana scorsa ho avuto una bella lezione su ciò che significa essere un capo. Stavamo facendo la riunione del giovedì, e Marisa, la resident coordinator di tutto il sistema ONU di Trinidad e Tobago, ci diceva che l’UNDP deve migliorare la strategia di comunicazione. “Nessuno sa cosa stiamo facendo qui, quando vado a parlare con i ministri devo ogni volta lottare per dimostrare che l’ONU può offrire del valore aggiunto al loro lavoro. Dobbiamo produrre brochure, cd, questo e quello”. Nel mezzo della discussione collettiva su questo argomento, alzo la mano e raccolgo il coraggio per fare il mio primo intervento in una riunione con tutti. “Secondo me ancora più che brochures e CD dovremmo rivedere il sito internet, è la prima cosa che la gente guarda e non c’è scritto quasi niente”. Boom. E’ scoppiata la bomba. Nella mia ingenuità catastrofica non avevo pensato che in questo modo stavo dando dell’incompetente a Jane, la communication officer seduta due sedie più in là. Marisa inizialmente ha ripreso il mio commento dicendo praticamente che era d’accordo. Jane agguerrita ha detto che non sapeva quando io avessi controllato il sito, che comunque negli ultimi sei mesi nel ranking UNDP il sito di Trinidad era salito da un voto 3 a un voto 8. Io non lo sapevo nemmeno che esistessero questi voti, ho capito di aver fatto una gaffe enorme e non ho osato controbattere. Ma è qui che è venuta fuori l’abilità diplomatica di Marisa. Prima ha lasciato sbollire la cosa, portando la discussione verso altri lidi. Poi dopo circa un quarto d’ora si è rivolta a me e con ponderazione ha detto che in effetti non poteva che dare ragione a Jane, che il sito era migliorato tantissimo e le rendeva merito per questo. Grazie Jane, plauso generale. Io capivo la sua mossa. Marisa non poteva certo andare contro ad una sua officer storica per dare ragione all’ultima ragazzina arrivata dall’Italia. Però poi non ha rinunciato a un bel colpo di coda. “In ogni caso, se vogliamo essere un po’ self-provocative, possiamo dirci che lo standard dei siti UNDP è sempre stato più basso di quello di altre organizzazioni come UNICEF o World Bank”. Voilà, aveva dato ragione anche a me.
The condom crew
Ieri Orisha mi ha portata al training che stava preparando da tutta la settimana, e finalmente ho scoperto di cosa si occupa. Era un corso di mezza giornata per venditori di preservativi. Gli spiegavano la loro missione, quella di identificare punti vendita che non fossero farmacie e supermercati, in giro per la città e per tutta l’isola, e convincere il proprietario a vendere preservativi. Gli avrebbero venduto il primo stock, per il resto li avrebbero messi in contatto con i produttori. I Carabi sono la seconda regione al mondo dopo l’Africa Sub-Sahariana in cui l’AIDS è più diffuso, e c’è un nucleo di ONG che si sta occupando di questo problema. Una delle soluzioni è creare una fittissima rete di distribuzione di preservativi, cambiare gradualmente la mentalità conservatrice del paese, e fare in modo che i ragazzi li usino, sempre. Il training è stato carino, gestito da una ONG chiamata PSI, basata negli Stati Uniti. Tre o quattro ragazzi in gamba e professionali hanno parlato del problema, delle strategie di vendita, del prodotto. Ci hanno dato in mano i preservativi, da uomo e da donna, ce li hanno fatti aprire, riempire d’acqua, infilare su un dildo.
Orisha e suoi amici con la loro piccola organizzazione chiamata Condom Crew faranno il management della squadra di venditori di Trinidad, mentre PSI si occupa di supervisionare la regione caraibica in generale. Credo che in un modo o nell’altro verrò coinvolta anche io, nella raccolta dati, nell’amministrazione. Sarà bello affiancare il lavoro all’ONU, organismo enorme e ipertrofico, con quello di una minuscola ONG che agisce per un microprogetto sul terreno, rendermi conto di come lavorano i due estremi dello spettro del settore dello sviluppo, in una società così piccola in cui i risultati di ogni azione sono visibili immediatamente. E soprattutto sarà bello immergermi in una missione concreta, vera, portata avanti da ragazzi entusiasti, istruiti, con obiettivi chiari e un ideale pragmatico che hanno trasformato in uno stile di vita.
Orisha e suoi amici con la loro piccola organizzazione chiamata Condom Crew faranno il management della squadra di venditori di Trinidad, mentre PSI si occupa di supervisionare la regione caraibica in generale. Credo che in un modo o nell’altro verrò coinvolta anche io, nella raccolta dati, nell’amministrazione. Sarà bello affiancare il lavoro all’ONU, organismo enorme e ipertrofico, con quello di una minuscola ONG che agisce per un microprogetto sul terreno, rendermi conto di come lavorano i due estremi dello spettro del settore dello sviluppo, in una società così piccola in cui i risultati di ogni azione sono visibili immediatamente. E soprattutto sarà bello immergermi in una missione concreta, vera, portata avanti da ragazzi entusiasti, istruiti, con obiettivi chiari e un ideale pragmatico che hanno trasformato in uno stile di vita.
Mas III
Sto cercando di prendere Mas nell’unico modo che merita. Con una dolcezza infinita. Voglio che con me si senta bene. Abbiamo fatto quattro chiacchiere, qualche volta, la sera. Lui vedeva la luce accesa in camera mia e mi chiamava da sotto: “How are you my friend?”. Io scendevo e parlavamo un pochino, una decina di minuti, mi chiedeva del’Italia, mi prestava CD. L’altro ieri sono capitata senza preavviso nella discoteca dove lavora, l’ho incrociato mentre portava bicchieri, e mi ha fatto un sorriso enorme. “Hold on, hold on, my dear!”. Ed è schizzato a salutarmi. Da parte sua percepisco un’affettuosità limpida, pulita, un modo semplicissimo di trattarmi bene.
Poi ieri sera ho visto una sua chiamata persa, pensavo volesse sapere se alla fine volevo andare allo Zen, magari poteva mettermi in lista. L’ho richiamato, “Sì guarda che veniamo”. E lui mi risponde con una voce tristissima. “Ok”. Che strano, mi dico, pensavo sarebbe stato contento. “Mas va tutto bene?” Silenzio. “Sort of”. “Cosa vuol dire sort of, è successo qualcosa?” “No Vivi, parliamone domani.” Silenzio. “Ma… hai provato a chiamarmi prima?”. “Sì.” Silenzio. “Mas sei sicuro di stare bene?” “Sort of... Parliamone domani, a dopo”.
Sono arrivata alla discoteca preoccupatissima, ovviamente. Lui era all’ingresso, credo che ci stesse aspettando. Ha fatto offrire l’aperitivo alle ragazze, mi e' venuto incontro mentre i miei occhi si abituavano al buio. “Che cosa c’è che non va Mas?”. Lui prova a dirmi qualcosa. “Today … birthday”. “Che cosa hai detto? Non sento, la musica è troppo alta”. “Today is my … birthday”. “Mas non ho capito bene”. Lui mi fa segno che fa niente, domani. E’ in quel momento che capisco che non può essere che una cosa. Il compleanno di suo fratello.
Tutta la serata non ho pensato ad altro. Pensavo al fratello, morto così giovane con una coltellata. A lui, che non aveva bisogno di questo ulteriore dolore in questa sua esistenza così difficile. E pensavo pure alla chiamata persa, al fatto che lo conoscevo da 3 settimane e ci avevo parlato 4 volte in tutto e lui stava chiamando me. Ma davvero non ha nessuno al mondo questo ragazzo?
L’ho rivisto stamattina, usciva dalla doccia, a piedi nudi nel sole accecante di quel guazzabuglio che è la loro casa. Due chiacchiere al volo, mi chiede della serata, bella la musica, vero? e' il dj dance piu' famoso di Treinidad. Poi scivola in camera sua e ne esce con un ritaglio di giornale che mi mette in mano. Una foto in bianco e nero di un ragazzo, un nome e un cognome, una data di nascita del 9 marzo, una data di morte del 2007. “Sai chi è?”, mi chiede. Inutile mentire, la storia la sapevo. “E’ tuo fratello”. “Oggi avrebbe avuto 25 anni”. Lo dice e gli trema la voce, gli leggo delle lacrime negli occhi, solo un secondo e poi basta, torna quello di sempre. Mette la musica alta, si sbuccia un’arancia, si soffia il naso nell’asciugamano, io penso che è troppo selvaggio. Alto, magro, tutto nervi e muscoli, vive in un buco che odora di chiuso con la tv accesa. Io sto malissimo, cerco di farmi venire in mente un modo qualunque per fare qualcosa per lui. “Mas, ho ancora mezzo barattolo di gelato, lo vuoi?”. Lo voleva.
Poi ieri sera ho visto una sua chiamata persa, pensavo volesse sapere se alla fine volevo andare allo Zen, magari poteva mettermi in lista. L’ho richiamato, “Sì guarda che veniamo”. E lui mi risponde con una voce tristissima. “Ok”. Che strano, mi dico, pensavo sarebbe stato contento. “Mas va tutto bene?” Silenzio. “Sort of”. “Cosa vuol dire sort of, è successo qualcosa?” “No Vivi, parliamone domani.” Silenzio. “Ma… hai provato a chiamarmi prima?”. “Sì.” Silenzio. “Mas sei sicuro di stare bene?” “Sort of... Parliamone domani, a dopo”.
Sono arrivata alla discoteca preoccupatissima, ovviamente. Lui era all’ingresso, credo che ci stesse aspettando. Ha fatto offrire l’aperitivo alle ragazze, mi e' venuto incontro mentre i miei occhi si abituavano al buio. “Che cosa c’è che non va Mas?”. Lui prova a dirmi qualcosa. “Today … birthday”. “Che cosa hai detto? Non sento, la musica è troppo alta”. “Today is my … birthday”. “Mas non ho capito bene”. Lui mi fa segno che fa niente, domani. E’ in quel momento che capisco che non può essere che una cosa. Il compleanno di suo fratello.
Tutta la serata non ho pensato ad altro. Pensavo al fratello, morto così giovane con una coltellata. A lui, che non aveva bisogno di questo ulteriore dolore in questa sua esistenza così difficile. E pensavo pure alla chiamata persa, al fatto che lo conoscevo da 3 settimane e ci avevo parlato 4 volte in tutto e lui stava chiamando me. Ma davvero non ha nessuno al mondo questo ragazzo?
L’ho rivisto stamattina, usciva dalla doccia, a piedi nudi nel sole accecante di quel guazzabuglio che è la loro casa. Due chiacchiere al volo, mi chiede della serata, bella la musica, vero? e' il dj dance piu' famoso di Treinidad. Poi scivola in camera sua e ne esce con un ritaglio di giornale che mi mette in mano. Una foto in bianco e nero di un ragazzo, un nome e un cognome, una data di nascita del 9 marzo, una data di morte del 2007. “Sai chi è?”, mi chiede. Inutile mentire, la storia la sapevo. “E’ tuo fratello”. “Oggi avrebbe avuto 25 anni”. Lo dice e gli trema la voce, gli leggo delle lacrime negli occhi, solo un secondo e poi basta, torna quello di sempre. Mette la musica alta, si sbuccia un’arancia, si soffia il naso nell’asciugamano, io penso che è troppo selvaggio. Alto, magro, tutto nervi e muscoli, vive in un buco che odora di chiuso con la tv accesa. Io sto malissimo, cerco di farmi venire in mente un modo qualunque per fare qualcosa per lui. “Mas, ho ancora mezzo barattolo di gelato, lo vuoi?”. Lo voleva.
Individualismo
Clarissa me l’aveva detto subito, e io non avevo capito. Qui c’è una mentalità estremamente individualista, e bisogna saperla affrontare con le armi adeguate. Nessuno ti invita qua e là solo perché sei nuova, nessuno si mette a pensare che hai bisogno di una mano per socializzare visto che non conosci nessuno. Quindi la prima cosa da fare è mettere da parte ogni tipo di timidezza e inibizione, ogni paura di disturbare, e sgomitare per inserirsi. Un esempio su tanti, stasera. Ho chiamato Claire, la ragazza che lavora al piano di sotto, per sapere se ancora intendevano andare a ballare. Lei mi ha detto che avrebbe incontrato gli altri e mi avrebbe fatto sapere. Come incontrato gli altri? Mi sono chiesta. Allora mi incontro anche io, e poi decidiamo insieme. Ma lei ha detto così, vedo gli altri e ti dico, senza assolutamente pensare di invitarmi al posto dove si sarebbero trovati ad inizio serata! Ci sono rimasta malissimo, mi sono sentita veramente esclusa. Solo per coincidenza mi sono ricordata che ieri Clarissa aveva accennato ad una certa festa di una collega che io non conoscevo bene, estesa a tutto l’ufficio, e ho pensato che probabilmente stessero andando là. Ma come era possibile che Claire non mi abbia detto di andarci con loro?
Se fossi stata in Italia, certamente non mi sarei più fatta sentire, e se poi mi avessero chiamata per andare a ballare avrei detto “no grazie, sto facendo altro, e tra l’altro mi sto divertendo un casino”. Clarissa mi ha ricordato la lezione, questa non è l’Italia, qui la gente ragiona in modo diverso. Il fatto che non ti abbia invitata non vuol dire che ti voglia tagliare fuori, è solo che non sono problemi suoi quello che fai tu nella prima parte della serata. Non aspettarti inviti, invitati da sola, qui è così. Mi ha incoraggiata a richiamare Claire, dirle che alla famosa festa ci dovevo andare anche io, che avevo previsto di recarmici in macchina con Clarissa stessa ma che lei alla fine aveva deciso di non andarci. Quindi chiederle che mi passasse a prendere lei. Dammi retta, mi ha detto. Mi è costato tantissimo, ma qui le regole del gioco sono diverse, e prima imparo a giocare meglio è. L’ho chiamata, Claire mi ha detto ma certo, mi passa a prendere tra mezz’ora. Grazie, Clarisssa.
Se fossi stata in Italia, certamente non mi sarei più fatta sentire, e se poi mi avessero chiamata per andare a ballare avrei detto “no grazie, sto facendo altro, e tra l’altro mi sto divertendo un casino”. Clarissa mi ha ricordato la lezione, questa non è l’Italia, qui la gente ragiona in modo diverso. Il fatto che non ti abbia invitata non vuol dire che ti voglia tagliare fuori, è solo che non sono problemi suoi quello che fai tu nella prima parte della serata. Non aspettarti inviti, invitati da sola, qui è così. Mi ha incoraggiata a richiamare Claire, dirle che alla famosa festa ci dovevo andare anche io, che avevo previsto di recarmici in macchina con Clarissa stessa ma che lei alla fine aveva deciso di non andarci. Quindi chiederle che mi passasse a prendere lei. Dammi retta, mi ha detto. Mi è costato tantissimo, ma qui le regole del gioco sono diverse, e prima imparo a giocare meglio è. L’ho chiamata, Claire mi ha detto ma certo, mi passa a prendere tra mezz’ora. Grazie, Clarisssa.
Primo liming
In questo paese esiste un verbo utlissimo, che quando si comincia ad impiegare ci si chiede come possa non esistere né nell’inglese ufficiale né nelle maggiori lingue europee. E’ il verbo “to lime”, che significa uscire a bere qualcosa, e passare la serata chiacchierando.
Il mio primo liming a Trinidad è stato bello. Orisha mi ha portata in un posto carino, una specie di minuscolo centro culturale messo su in una casa privata di Woodbrook. E’ impossibile da trovare per chi non lo conosce, non è altro che una casuccia come altre con un piccolo cortile che dà sulla strada senza troppo preamboli, ma in cui quasi tutti i giorni succede qualcosa di interessante. L’altro giorno c’era una micro-mostra di bozzetti di costumi di Carnevale, con foto e modellini che documentavano le varie fasi della loro costruzione. Alcuni erano davvero belli, architetture di legno, tessuti e carta colorata talmente grandi che chi le indossa le deve trasportare su ruote. I temi erano vari, da quelli più classici e naturalistici di fiori e frutta, a quelli astratti, a quelli di sapore futurista, con grandi ruote dentatate ed elastici… C’erano delle belle luci, un’atmosfera rilassata da serata di metà settimana, delle tende sotto cui riparasi a sorseggiare la propria birra e chiacchierare mentre cadevano quattro gocce di pioggia. Erano presenti anche i designers, degli artisti tutt’al più rasta che sono stati applauditi dalla piccola delegazione dell’intelligentisia isolana che bazzica regolarmente l’ambiente. Questa comprende anche una manciata di europei e di americani ormai naturalizzati trinidini, come quel signore californiano con cui ho chiacchierato un po’ di Barak e Hillary, proprietario della principale ditta di produzione di vestiti di Carnevale di Trinidad.
Al centro abbiamo incontrato due amici di Orisha, un ragazzo e una ragazza, lui di New York e lei del Maine, con cui ci siamo incamminati verso un baretto chiamato Sweet Lime. Tra una battuta e l’altra, ho avuto un quarto d’ora di conversazione interessantissima con il tipo. Avrà avuto 27-28 anni, tratti somatici marcatamente messicani e accento East Coast. Era stato un fotografo di moda che essendosi stufato di frivolezza ad un certo punto aveva deciso di mettersi a fotografare “altro”. Era quindi partito per il Messico ed era riuscito in qualche modo ad addentrarsi nel territorio controllato dagli Zapatisti del generale Marcos. Si è guadagnato la loro fiducia, aveva accettato di essere bendato e portato in macchina in un loro accampamento nei boschi, e ci era rimasto per qualche tempo a fotografare la vita dei ribelli. Ora si trovava a Trinidad, dove era entrato in contatto con YMCA e dopo aver chiesto se poteva fotografare la vita dei bambini era stato coinvolto in un progetto educativo e si era ritrovato a dare lezioni di fotografia ai piccoli. Lunedì sarebbe partito per il Perù, a fare non so più che.
Ero stanca e avevo mal di testa, si stava facendo tardi e in più quella giornata era iniziata particolarmente presto, con una colazione-conferenza alle 7:30 di mattina. Me ne stavo silenziosa a lasciare che la serata si esaurisse, quando un pensiero molto lucido ha cominciato a prendere forma. Se avessi incontrato una persona così a Milano sarebbe probabilmente stato l’incontro del mese. In questa situazione, sentirsi raccontare di servizi fotografici sui guerriglieri della foresta messicana rientrava tutto sommato nell’ordine naturale delle cose.
Il mio primo liming a Trinidad è stato bello. Orisha mi ha portata in un posto carino, una specie di minuscolo centro culturale messo su in una casa privata di Woodbrook. E’ impossibile da trovare per chi non lo conosce, non è altro che una casuccia come altre con un piccolo cortile che dà sulla strada senza troppo preamboli, ma in cui quasi tutti i giorni succede qualcosa di interessante. L’altro giorno c’era una micro-mostra di bozzetti di costumi di Carnevale, con foto e modellini che documentavano le varie fasi della loro costruzione. Alcuni erano davvero belli, architetture di legno, tessuti e carta colorata talmente grandi che chi le indossa le deve trasportare su ruote. I temi erano vari, da quelli più classici e naturalistici di fiori e frutta, a quelli astratti, a quelli di sapore futurista, con grandi ruote dentatate ed elastici… C’erano delle belle luci, un’atmosfera rilassata da serata di metà settimana, delle tende sotto cui riparasi a sorseggiare la propria birra e chiacchierare mentre cadevano quattro gocce di pioggia. Erano presenti anche i designers, degli artisti tutt’al più rasta che sono stati applauditi dalla piccola delegazione dell’intelligentisia isolana che bazzica regolarmente l’ambiente. Questa comprende anche una manciata di europei e di americani ormai naturalizzati trinidini, come quel signore californiano con cui ho chiacchierato un po’ di Barak e Hillary, proprietario della principale ditta di produzione di vestiti di Carnevale di Trinidad.
Al centro abbiamo incontrato due amici di Orisha, un ragazzo e una ragazza, lui di New York e lei del Maine, con cui ci siamo incamminati verso un baretto chiamato Sweet Lime. Tra una battuta e l’altra, ho avuto un quarto d’ora di conversazione interessantissima con il tipo. Avrà avuto 27-28 anni, tratti somatici marcatamente messicani e accento East Coast. Era stato un fotografo di moda che essendosi stufato di frivolezza ad un certo punto aveva deciso di mettersi a fotografare “altro”. Era quindi partito per il Messico ed era riuscito in qualche modo ad addentrarsi nel territorio controllato dagli Zapatisti del generale Marcos. Si è guadagnato la loro fiducia, aveva accettato di essere bendato e portato in macchina in un loro accampamento nei boschi, e ci era rimasto per qualche tempo a fotografare la vita dei ribelli. Ora si trovava a Trinidad, dove era entrato in contatto con YMCA e dopo aver chiesto se poteva fotografare la vita dei bambini era stato coinvolto in un progetto educativo e si era ritrovato a dare lezioni di fotografia ai piccoli. Lunedì sarebbe partito per il Perù, a fare non so più che.
Ero stanca e avevo mal di testa, si stava facendo tardi e in più quella giornata era iniziata particolarmente presto, con una colazione-conferenza alle 7:30 di mattina. Me ne stavo silenziosa a lasciare che la serata si esaurisse, quando un pensiero molto lucido ha cominciato a prendere forma. Se avessi incontrato una persona così a Milano sarebbe probabilmente stato l’incontro del mese. In questa situazione, sentirsi raccontare di servizi fotografici sui guerriglieri della foresta messicana rientrava tutto sommato nell’ordine naturale delle cose.
venerdì 7 marzo 2008
Cursing
L'altra sera ero in macchina con Orisha e il suo amico Gliss, fermi ad aspettare un terzo uomo che era andato ad un Chimico locale a prendersi dei pallini di mais fritti da intingolare nel curry - l'equivalente dei nostri panini luridi di mezzanotte. Dal silenzio, Gliss se ne esce con una domanda stranissima. Vivian tu dici parolacce? Io penso stia scherzando. No, mai, non so nemmeno cosa significhino. Orisha mi smentisce. Non e' vero, una volta l'ho sentita dire fuck. Ma sono impazziti?
Poi ho capito, come al solito con un ritardo di qualche giorno, incidentalmente. Qui dire parolacce in pubblico e' ancora un crimine. Pazzesco, se si pensa al livello di criminalita' vera, concreta, nuda e cruda che circola in questo paese.
Venerdi' ero in questo baretto, un localino d'angolo, solo un gran bancone e sbarre di ferro tutte intorno a proteggerlo da eventuali assalti. Ci passavo le birre tra una sbarra e l'altra. Un posto tranquillo, tre o quattro persone dentro, fumo, scazzo. Serata liscia, camerieri stanchi, pavimento sporco. E appeso al muro tra manifesti veri un caretllino bianco, paradossale e moralista. "Per favore niente parolacce".
Poi ho capito, come al solito con un ritardo di qualche giorno, incidentalmente. Qui dire parolacce in pubblico e' ancora un crimine. Pazzesco, se si pensa al livello di criminalita' vera, concreta, nuda e cruda che circola in questo paese.
Venerdi' ero in questo baretto, un localino d'angolo, solo un gran bancone e sbarre di ferro tutte intorno a proteggerlo da eventuali assalti. Ci passavo le birre tra una sbarra e l'altra. Un posto tranquillo, tre o quattro persone dentro, fumo, scazzo. Serata liscia, camerieri stanchi, pavimento sporco. E appeso al muro tra manifesti veri un caretllino bianco, paradossale e moralista. "Per favore niente parolacce".
Cinema
Sono appena tornata da un’esperienza assolutamente surreale.
E’ cominciata in modo semplice. Mi chiama Clarissa, ti va di venire a vedere un film? Ti passo a prendere alle 7:30 - Guarda che devo ritirare soldi - Non ti preoccupare, è tutto gratis. E io che pensavo: strano, da quando in qua i cinema sono gratis?
E infatti il posto dove Clarissa mi stava portano a vedere il film non era propriamente un cinema, anzi non lo era affatto. Era qualcosa di completamente diverso, che mai mi sarei aspettata di trovare in un’isola del nuovo mondo come Trinidad. Non potevo credere ai miei occhi.
Si trattava di un capannone industriale di un’area dimessa al di fuori di Port of Spain, trasformato da un gruppo di artisti in un centro culturale alternativo e all’avanguardia. Una volta entrata, questo posto si è rivelato irripetibile e meraviglioso, sconcertante direi. Una ex fabbrica sterminata, piena di spazi vuoti, poche luci al neon e avanzi di materiale pittorico addossato alle pareti. Di colpo, mi sembrava di essere stata teletrasportata a New York o Berlino Est.
Come noi, la crème de la crème della cultura underground di Trinidad si avviava verso il centro pulsante di arte viva che era la sala cinema. Ragazzi che camminavano tra quelle mura come gatti, disinvolti e silenziosi, tutt’uno con il buio dei corridoi. Seguiamo la musica per arrivare alla sala della proiezione, un’enorme stanza con un tetto sperticato, un telo per proiettare la pellicola e una cinquantina di enormi sedie da giardino dove si poteva stare comodamente accoccolati con le braccia intorno alle ginocchia. In un angolo un frigorifero pieno di birre, da cui si poteva pescare una bottiglia da tenere sul bracciolo, e qualche elemento di modernariato sparso in giro, senza pretenziosità. E incredibilmente, paradossalmente, un flusso di immagini di un film d’essay spagnolo del 1973 che scorreva lentissimo davanti a noi. Colori di panna, colori dolci di terra Europea, luce soffusa che ai tropici non esiste, spalmata su quel telo inerte. E il pubblico rasta che osservava annuendo. Fantastico. Surreale e fantastico.
Il centro culturale è gestito da un paio di ragazzi, tra cui uno è il figlio di Lovelace, premio Nobel della letteratura trinidino. Era lì stasera, Clarissa me l’ha presentato, un tipo afro campione di surf, dal corpo scultoreo e fare drageur. Mi raccontavano che sono decenni che proiettano film dei loro archivi personali ogni giovedì. Ci veniva pure Gregoire, il figlio di Wilma, illo tempore. Ma non solo, era anche uno spazio in cui ospitavano artisti stranieri, in trasferta da Caracas e L’Havana, e producevano tutti insieme in un tripudio di cultura e di ganja. Ora non ci sono più fondi, ma qualche artista rimane, tra cui lui, che porgendoci due birre ci ha condotte oltre le porte segrete del suo studio, praticamente nella stanza accanto.
E che studio. Un locale-loft bianco pieno di tele in disordine, colori sgargianti, tubetti di pittura strizzati, tavolozze tutte macchiate abbandonate su sedie di paglia. Il posto stesso sembrava un’opera d’arte, sembrava l’idea platonica di studio di pittura, così caoticamente elegante. Entrando praticamente si inciampava in una trentina di casse di plastica da 12 bottiglie di acqua, che però al posto dell’acqua contenevano migliaia di vinili vecchi. Ho appena comprato questa intera collezione di dischi, non li ho ancora ascoltati tutti, ci so lavorando, ci dice. Gli chiedo dei suoi quadri, questo è finito? Questo come diventerà? Bella questa doppia figura a sinistra, tutta contorta. Lui sorride, spiega che dipinge quasi solo temi inerenti al Carnevale, lascia che osserviamo il suo mucchio di libri, di pennelli, il giradischi. Poi come se niente fosse ci prende in braccio entrambe e ci invita a venire, domani, che riapre la stagione del roof.
Il roof, l’ultimo pian della grande discoteca Zen, quella dove lavorano i miei coinquilini. Ultimo piano che però non ha nulla a che fare con la discoteca, è uno spazio espositivo dove si fanno eventi, il primo venerdì di ogni mese, sempre lanciati da loro. Con musica soca, o house, o steel pan, e luci soffuse, mi dicono. L’invito di per sé è stato meraviglioso. Venite, vi aspetto. E’ una serata di fund raising per un gruppo surfisti. Io e Clarissa ci guardiamo ammiccando. Come negarglielo, il nostro supporto, ai poveri surfisti?
E’ cominciata in modo semplice. Mi chiama Clarissa, ti va di venire a vedere un film? Ti passo a prendere alle 7:30 - Guarda che devo ritirare soldi - Non ti preoccupare, è tutto gratis. E io che pensavo: strano, da quando in qua i cinema sono gratis?
E infatti il posto dove Clarissa mi stava portano a vedere il film non era propriamente un cinema, anzi non lo era affatto. Era qualcosa di completamente diverso, che mai mi sarei aspettata di trovare in un’isola del nuovo mondo come Trinidad. Non potevo credere ai miei occhi.
Si trattava di un capannone industriale di un’area dimessa al di fuori di Port of Spain, trasformato da un gruppo di artisti in un centro culturale alternativo e all’avanguardia. Una volta entrata, questo posto si è rivelato irripetibile e meraviglioso, sconcertante direi. Una ex fabbrica sterminata, piena di spazi vuoti, poche luci al neon e avanzi di materiale pittorico addossato alle pareti. Di colpo, mi sembrava di essere stata teletrasportata a New York o Berlino Est.
Come noi, la crème de la crème della cultura underground di Trinidad si avviava verso il centro pulsante di arte viva che era la sala cinema. Ragazzi che camminavano tra quelle mura come gatti, disinvolti e silenziosi, tutt’uno con il buio dei corridoi. Seguiamo la musica per arrivare alla sala della proiezione, un’enorme stanza con un tetto sperticato, un telo per proiettare la pellicola e una cinquantina di enormi sedie da giardino dove si poteva stare comodamente accoccolati con le braccia intorno alle ginocchia. In un angolo un frigorifero pieno di birre, da cui si poteva pescare una bottiglia da tenere sul bracciolo, e qualche elemento di modernariato sparso in giro, senza pretenziosità. E incredibilmente, paradossalmente, un flusso di immagini di un film d’essay spagnolo del 1973 che scorreva lentissimo davanti a noi. Colori di panna, colori dolci di terra Europea, luce soffusa che ai tropici non esiste, spalmata su quel telo inerte. E il pubblico rasta che osservava annuendo. Fantastico. Surreale e fantastico.
Il centro culturale è gestito da un paio di ragazzi, tra cui uno è il figlio di Lovelace, premio Nobel della letteratura trinidino. Era lì stasera, Clarissa me l’ha presentato, un tipo afro campione di surf, dal corpo scultoreo e fare drageur. Mi raccontavano che sono decenni che proiettano film dei loro archivi personali ogni giovedì. Ci veniva pure Gregoire, il figlio di Wilma, illo tempore. Ma non solo, era anche uno spazio in cui ospitavano artisti stranieri, in trasferta da Caracas e L’Havana, e producevano tutti insieme in un tripudio di cultura e di ganja. Ora non ci sono più fondi, ma qualche artista rimane, tra cui lui, che porgendoci due birre ci ha condotte oltre le porte segrete del suo studio, praticamente nella stanza accanto.
E che studio. Un locale-loft bianco pieno di tele in disordine, colori sgargianti, tubetti di pittura strizzati, tavolozze tutte macchiate abbandonate su sedie di paglia. Il posto stesso sembrava un’opera d’arte, sembrava l’idea platonica di studio di pittura, così caoticamente elegante. Entrando praticamente si inciampava in una trentina di casse di plastica da 12 bottiglie di acqua, che però al posto dell’acqua contenevano migliaia di vinili vecchi. Ho appena comprato questa intera collezione di dischi, non li ho ancora ascoltati tutti, ci so lavorando, ci dice. Gli chiedo dei suoi quadri, questo è finito? Questo come diventerà? Bella questa doppia figura a sinistra, tutta contorta. Lui sorride, spiega che dipinge quasi solo temi inerenti al Carnevale, lascia che osserviamo il suo mucchio di libri, di pennelli, il giradischi. Poi come se niente fosse ci prende in braccio entrambe e ci invita a venire, domani, che riapre la stagione del roof.
Il roof, l’ultimo pian della grande discoteca Zen, quella dove lavorano i miei coinquilini. Ultimo piano che però non ha nulla a che fare con la discoteca, è uno spazio espositivo dove si fanno eventi, il primo venerdì di ogni mese, sempre lanciati da loro. Con musica soca, o house, o steel pan, e luci soffuse, mi dicono. L’invito di per sé è stato meraviglioso. Venite, vi aspetto. E’ una serata di fund raising per un gruppo surfisti. Io e Clarissa ci guardiamo ammiccando. Come negarglielo, il nostro supporto, ai poveri surfisti?
We travel!
Uno dei modi più comuni per spostarsi in città se non si possiede una macchina è quello che viene definito – tra l’altro in modo piuttosto appropriato - “travelling”. Ovvero, spostarsi sfruttando i passaggi di alcune macchine private che girano continuamente per la città e che per un prezzo irrisorio offrono degli “strappi” lungo alcune linee direttrici vagamente prestabilite. Il meccanismo di per sé non è complesso, anche se bisogna essere in qualche modo iniziati. Basta stare sull’angolo della strada, in alcuni punti misteriosi che qui tutti conoscono, e aspettare che ne passi una. Il conducente fa un segno con la mano (tipo pollice retto o verso) che per qualche convenzione indica il giro della città che compie. Se la direzione è quella giusta si sale e ci si lascia trasportare, normalmente fino ad un qualche luogo centrale tipo Independence square a Downtown, da dove poi si prenderà un’altra macchina per la destinazione finale. Spesso i taxi si fermano a raccogliere altre persone in attesa ai bordi della strada, che scenderanno in un punto qualunque del tragitto. Le macchine sono fantastiche. Sedili tutti sfondati, musica altissima e odore di polvere. Orisha chiacchiera vivacemente con tutti gli autisti, tanto che ogni volta mi chiedo genuinamente se siano suoi amici. Un passaggio costa meno di un dollaro USA, ma si dice che in una serata di lavoro si guadagnino un mucchio di soldi…
Acqua
Una cosa che non ho menzionato è che in casa non c’è acqua calda. Solo per la doccia. Oddio, non è che serva acqua calda per null’altro, col caldo che fa. Ma anche quella della doccia non si può davvero chiamare calda, è un tiepidino appena passabile, poco più accogliente che la temperatura ambiente. Dicono che faccia bene alla pelle… prendiamola cosi'.
Bake and shark
Quando dicevo che sarei andata a Maracas, la bella spiaggia vicina alla capitale, la gente rispondeva trasognata con un unico commento: Mangerai bake and shark! E io mi chiedevo. Ma come sarà mai questo bake and shark per suscitare tanto sbarluccichìo di occhi?
Ebbene, l’ho scoperto. Il famoso bake and shark è in realtà semplicemente una specie di panino, in cui al posto del pane c’è una pastella leggermente fritta fatta di qualche cereale diverso, forse mais, che qui si usa e si abusa. E dentro ci stanno due filetti di squalo impanato e fritto. Al di là dell’esotismo di mangiare squalo, c’è poco da aggiungere. Un set di salse di vari colori e gradi di piccantezza, più la solita lattuga e pomodorini, vanno aggiunti a piacere. Nella nostra congenita raffinatezza culinaria, noi italiane abbiamo selezionato una o al massimo due salsine, mentre nel baccanale relativistico delle Americhe i locals si divertivano a coprire il più possibile il sapore dello squalo. Povero squalo, che fine poco nobile essere affogato nel ketchup! E ci si creda o no, il bake and shark è il motivo numero uno per cui la gente affolla Maracas tutti i weekend.
E pensare che nessuno mi aveva detto che sarei passata per una strada mozzafiato, con colline che sembravano quelle delle Cinque Terre in versione tropicale, e col mare che si apriva altissimo davanti a noi dopo una curva qualunque. Nessuno mi aveva detto che sarei arrivata in questa magica lingua di sabbia asciuttissima (sì, ho notato questo, la sabbia era asciuttissima) e dorata. Con palme che cadenzavano la mezzaluna della laguna, e montagne verdissime tutte intorno, senza una minima traccia di intervento umano. Nessuno mi aveva raccontato la pazza gioia delle onde dell’oceano, e l’obbligo di nuotare solo in alcune zone ben circoscritte, che io naturalmente non ho rispettato perché mi ero ritrasformata in pesce. E in fondo c’erano barchette azzurre di pescatori, tutte scalchignate, e mi chiedevo come avessero il coraggio di andare per mare con quei gusci di noce. E dei ragazzi che giocavano a calcetto, un bambino con un aquilone, e castelli di sabbia. E ancora più in là una spiaggetta minuscola dopo gli scogli, grande 4-5 metri in tutto, da dove il mare pareva un lago perché non si vedeva più il largo, e tutto era raccolto tra le montagne boscose.
Ebbene, l’ho scoperto. Il famoso bake and shark è in realtà semplicemente una specie di panino, in cui al posto del pane c’è una pastella leggermente fritta fatta di qualche cereale diverso, forse mais, che qui si usa e si abusa. E dentro ci stanno due filetti di squalo impanato e fritto. Al di là dell’esotismo di mangiare squalo, c’è poco da aggiungere. Un set di salse di vari colori e gradi di piccantezza, più la solita lattuga e pomodorini, vanno aggiunti a piacere. Nella nostra congenita raffinatezza culinaria, noi italiane abbiamo selezionato una o al massimo due salsine, mentre nel baccanale relativistico delle Americhe i locals si divertivano a coprire il più possibile il sapore dello squalo. Povero squalo, che fine poco nobile essere affogato nel ketchup! E ci si creda o no, il bake and shark è il motivo numero uno per cui la gente affolla Maracas tutti i weekend.
E pensare che nessuno mi aveva detto che sarei passata per una strada mozzafiato, con colline che sembravano quelle delle Cinque Terre in versione tropicale, e col mare che si apriva altissimo davanti a noi dopo una curva qualunque. Nessuno mi aveva detto che sarei arrivata in questa magica lingua di sabbia asciuttissima (sì, ho notato questo, la sabbia era asciuttissima) e dorata. Con palme che cadenzavano la mezzaluna della laguna, e montagne verdissime tutte intorno, senza una minima traccia di intervento umano. Nessuno mi aveva raccontato la pazza gioia delle onde dell’oceano, e l’obbligo di nuotare solo in alcune zone ben circoscritte, che io naturalmente non ho rispettato perché mi ero ritrasformata in pesce. E in fondo c’erano barchette azzurre di pescatori, tutte scalchignate, e mi chiedevo come avessero il coraggio di andare per mare con quei gusci di noce. E dei ragazzi che giocavano a calcetto, un bambino con un aquilone, e castelli di sabbia. E ancora più in là una spiaggetta minuscola dopo gli scogli, grande 4-5 metri in tutto, da dove il mare pareva un lago perché non si vedeva più il largo, e tutto era raccolto tra le montagne boscose.
Humour
Ieri sera ho preparato da mangiare per Orisha e Mas, ci siamo divertiti. Orisha era di buon umore, tirava fuori la sua voce più nera e imitava tutti, dai predicatori per strada ai presentatori della televisione. Il suo gioco preferito in tutta la serata però è stato sfottere me, sull’episodio del tizio che si è abbassato i pantaloni. E mentre io mi scandalizzavo come una vetero-orsolina (come mi definisce Giò), lei urlava con voce graffiata: “Ma noi tutti ci chiediamo, gente, che cosa è che l’ha scandalizzata? Come era questo cazzo? Grande, piccolo, di che colore? Cos’è che ti ha tanto impressionata, baby? E se lo rincontri, what are you gonna do? (e qui mi guardava maliziosa) Cry?”.
Mas II
Mas non era drogato, l’altro giorno. Ho capito male. Eccola, qui, un’altra smentita, un’altra prova di quanto sia difficile capire, qui, per me, cosa significhino le cose. Era solo sotto stress. “Si vede che qualcosa lo preoccupava”, mi ha detto Wilma, “e ciò gli faceva perdere il controllo nel fragile equilibrio della sua psiche”. Troppa rabbia dentro, troppo dolore e troppa umiliazione, che sotto pressione escono in questo urlo deformato che io ho scambiato per alterazione chimica. Me lo raccontava stamattina mentre bevevo il caffè, avevo già indosso la mia giacchetta nera e la matita sugli occhi. E’ uno dei ragazzi di strada raccolti da suo figlio, nel YMCA. Cresciuto in ambiente violento, con i genitori che lo picchiavano, in un contesto sociale allucinante a Laventille, il primo dei posti forbidden a tutte le ore del giorno e della notte secondo le mie istruzioni. L’hanno accolto al centro da piccolo, e anche ora che ha venticinque anni Wilma lo tiene qui e cerca di seguirlo, bene o male, come può fare una nonna. Quando è calmo è un ragazzo normale, ovviamente di cultura limitata, ma gentile. Ha salvato la pianta di tè di Orisha che stava per seccare.
E poi prima che uscissi Wilma me ne ha detta un’altra, di cosa, che mi ha agghiacciato più di tutto. Non trovo nemmeno la forza di scriverlo. Il fratello di Mas è stato ammazzato, sei mesi fa. A Laventille, in una rissa. C’era di mezzo una ragazza e l’onore di qualcuno e l’hanno accoltellato. Fatto fuori. E ora Mas ha una nuova ossessione, un altro pensiero che lo perseguita e lo fa svegliare di notte. L’incolumità del suo fratello minore.
E poi prima che uscissi Wilma me ne ha detta un’altra, di cosa, che mi ha agghiacciato più di tutto. Non trovo nemmeno la forza di scriverlo. Il fratello di Mas è stato ammazzato, sei mesi fa. A Laventille, in una rissa. C’era di mezzo una ragazza e l’onore di qualcuno e l’hanno accoltellato. Fatto fuori. E ora Mas ha una nuova ossessione, un altro pensiero che lo perseguita e lo fa svegliare di notte. L’incolumità del suo fratello minore.
Orisha parla
Le ho chiesto se ha un ragazzo, e lei mi ha risposto una specie.
E’ un marinaio, viene sull’isola ogni tanto. Non è che siamo insieme - Però gli sono fedele - Però non lo amo. Perché l’Amore non esiste, l’Amore è un illusione. Come l’amicizia e il come-stai-sto-bene. Frasi fatte, definizioni, che intrappolano il flusso dell’esistenza. Viviamo, alive, tutto qui, e non c’è niente da spiegare, da sottotitolare. Passiamo del tempo con gli altri, con alcuni stiamo bene, con altri stiamo male. Attimo per attimo. Proiettare una sensazione all’infinito nel futuro e chiamarla Amore è assolutamente ridicolo.
E simmetricamente, logicamente, lo stesso assunto liquidatorio Orisha lo applica al passato. Forse perché fa troppo male, tanto vale pensare che non sia nemmeno esistito. Le facevo domande, giusto per. Domande innocue del tipo hai fratelli. Roba così, a cui di solito alla gente fa piacere rispondere, lì mentre cucinava gli spinaci nella gabbia. Ma dopo due minuti di conversazione stantia lei si blocca e si mette a guardarmi negli occhi in modo così fermo e solenne, come per dire sto-per-dirti-una-cosa-e-te-la-dico-una-volta-sola. Non mi piace parlare della mia vita. Va bene?
Orisha vive così, senza passato e senza futuro, senza definizioni, senza forme. Una vita completamente a-teoretica, tutta pratica. Esiste solo quello che faccio in questo momento, esiste solo questa gabbia-cucina e me e te che passiamo insieme le nostre solitudini e gli spinaci che ti sto cuocendo col curry. Esistono solo i bambini del YMCA e i preservativi che metterà nei negozi così finalmente la smetteranno di beccarsi l’AIDS a caso. Esiste la poesia sui suoi scaffali semivuoti, che le dà un istante rapido di trascendenza, l’unica trascendenza solitaria che accetta. Il suo marinaio grosso e nero che indossa solo una rete sporca e degli occhi buoni se la porta via ogni tanto, fin dentro sé stessa, in un luogo dove c’è solo silenzio. E lei ci si addormenta.
E’ un marinaio, viene sull’isola ogni tanto. Non è che siamo insieme - Però gli sono fedele - Però non lo amo. Perché l’Amore non esiste, l’Amore è un illusione. Come l’amicizia e il come-stai-sto-bene. Frasi fatte, definizioni, che intrappolano il flusso dell’esistenza. Viviamo, alive, tutto qui, e non c’è niente da spiegare, da sottotitolare. Passiamo del tempo con gli altri, con alcuni stiamo bene, con altri stiamo male. Attimo per attimo. Proiettare una sensazione all’infinito nel futuro e chiamarla Amore è assolutamente ridicolo.
E simmetricamente, logicamente, lo stesso assunto liquidatorio Orisha lo applica al passato. Forse perché fa troppo male, tanto vale pensare che non sia nemmeno esistito. Le facevo domande, giusto per. Domande innocue del tipo hai fratelli. Roba così, a cui di solito alla gente fa piacere rispondere, lì mentre cucinava gli spinaci nella gabbia. Ma dopo due minuti di conversazione stantia lei si blocca e si mette a guardarmi negli occhi in modo così fermo e solenne, come per dire sto-per-dirti-una-cosa-e-te-la-dico-una-volta-sola. Non mi piace parlare della mia vita. Va bene?
Orisha vive così, senza passato e senza futuro, senza definizioni, senza forme. Una vita completamente a-teoretica, tutta pratica. Esiste solo quello che faccio in questo momento, esiste solo questa gabbia-cucina e me e te che passiamo insieme le nostre solitudini e gli spinaci che ti sto cuocendo col curry. Esistono solo i bambini del YMCA e i preservativi che metterà nei negozi così finalmente la smetteranno di beccarsi l’AIDS a caso. Esiste la poesia sui suoi scaffali semivuoti, che le dà un istante rapido di trascendenza, l’unica trascendenza solitaria che accetta. Il suo marinaio grosso e nero che indossa solo una rete sporca e degli occhi buoni se la porta via ogni tanto, fin dentro sé stessa, in un luogo dove c’è solo silenzio. E lei ci si addormenta.
Esercizi di stile
Ci conoscevamo da circa dieci secondi, le altre erano sul macinino di Clarissa, io ero sulla sua macchina, e finalmente stavamo andando tutti in spiaggia.... E’ cominciata così, che mi ha chiesto se preferivo aria condizionata o finestrino aperto. Se posso scegliere, finestrino aperto. Ok, il mio tipo di ragazza. Mi ha fatto ridere. Tra una chiacchiera e l’altra, ci siamo messi a far finta di flirtare. Giochini stupidi, per riempire il viaggio. Ero una spia italiana che inviava informazioni al nemico con piccioni viaggiatori. Lui era il mio manager e dovevo chiedergli il permesso prima di parlare con uno sconosciuto. E poi ancora, per riempire i due passi in spiaggia, quando siamo andati fino in fondo e abbiamo trovato una casa di legno oltre alle barche dei pescatori. Ero una mafia-girl. Lui era pagato all’ora per farmi da babysitter. Giochi di battute veloci, che riescono bene solo se due persone si stanno simpatiche, ma non sono attratte sul serio. Semplici esercizi di stile, la sensazione benedetta di capirsi al volo. Ne avevo un bisogno estremo, estremo.
Wilma
Wilma è benestante, anche se vive in modo semplice. E’ una signora a modo che viene da una famiglia di avvocati e che si vanta di essere stata 3 volte in Europa. Con le sue innegabili piccole manie da settantenne, certo, ma anche aperta di spirito e attiva.
Eppure Wilma fa una cosa strana, assurda direi, che ha dell’incredibile ai miei occhi.
Wilma ha deciso che essendo relativamente benestante non ha senso che chieda dei soldi ai suoi giovani affittuari. Cioè sì, un pro forma ce lo chiede, che basta a pagare la nostra razione di bollette, suppongo. Quando mi ha detto il prezzo le ho chiesto conferma tre volte. Che cosa ha detto? Pensavo fosse pazza, e ho accettato senza chiedere tante spiegazioni. E poi le ho parlato, e ho capito che è tutto tranne che stupida. E poi ho pensato. Come vivrebbero i ragazzi di sotto se non ci fosse lei a proporre questo ridicolo affitto? E quante cose in più potrò permettermi io con i soldi che mi consente di risparmiare? Eppure ancora non mi raccapezzo, mi sento quasi una ladra, e mi domando ancora. Ma come è possibile che una persona rinunci volontariamente a un tanto facile, e per di più onesto guadagno? Mi viene in mente un libro di diritto di Andrea che ho sfogliato un giorno per caso. Mancato guadagno uguale perdita. Logico.
Logico un cazzo. Wilma non la pensa così, e i pazzi siete voi. Il suo mancato guadagno è un guadagno enorme, un guadagno vitale, per almeno altre due persone. E lei non ci perde proprio niente, niente di niente, di niente.
Eppure Wilma fa una cosa strana, assurda direi, che ha dell’incredibile ai miei occhi.
Wilma ha deciso che essendo relativamente benestante non ha senso che chieda dei soldi ai suoi giovani affittuari. Cioè sì, un pro forma ce lo chiede, che basta a pagare la nostra razione di bollette, suppongo. Quando mi ha detto il prezzo le ho chiesto conferma tre volte. Che cosa ha detto? Pensavo fosse pazza, e ho accettato senza chiedere tante spiegazioni. E poi le ho parlato, e ho capito che è tutto tranne che stupida. E poi ho pensato. Come vivrebbero i ragazzi di sotto se non ci fosse lei a proporre questo ridicolo affitto? E quante cose in più potrò permettermi io con i soldi che mi consente di risparmiare? Eppure ancora non mi raccapezzo, mi sento quasi una ladra, e mi domando ancora. Ma come è possibile che una persona rinunci volontariamente a un tanto facile, e per di più onesto guadagno? Mi viene in mente un libro di diritto di Andrea che ho sfogliato un giorno per caso. Mancato guadagno uguale perdita. Logico.
Logico un cazzo. Wilma non la pensa così, e i pazzi siete voi. Il suo mancato guadagno è un guadagno enorme, un guadagno vitale, per almeno altre due persone. E lei non ci perde proprio niente, niente di niente, di niente.
Casa di Wilma
Affitto una stanza da Wilma. La casa di Wilma è gialla, chiusa tra un muretto giallo, a cinquanta metri dal parco. Il suo appartamento è al primo piano, e vi si accede da una scaletta che culmina in una porta a due chiavistelli e un cancello interno con lucchetto massiccio. Un soggiorno pieno di foto di figli e nipoti e poltrone fiorate e cable TV. La sua stanza un po’ incasinata, la stanza degli ospiti pure un po’ incasinata, due bagni, una grande cucina piena di barattoli di plastica lavati e conservati. E camera mia, la più piccola, la più in ordine, la più consapevolmente arredata, si fa per dire, per come l’ho messa a posto in questa settimana. E’ il mio rifugio di razionalità e rigore, beh non rigore ma quantomeno senso, senso estetico forse, senso perché ci ho appeso poster e foto che ormai mi seguono da anni e che mi fanno capire che sono la stessa persona con la stessa storia continuata di quando stavo a Parigi e Bruxelles.
La cosa bella di questa casa, là dove assume contorni di bruciante, schiacciante realtà, è il piano di sotto, che poi non è un piano, è uno spiazzo per la macchina e intorno tre o quattro cubicoli in cui si aprono stanzette ombrose con porte gialle e odore di chiuso dove stanno loro tre. Il bagno è in un cubicolo separato, e la cucina, se così la si può chiamare, è semplicemente uno spazio centrale delimitato da un’inferriata, una specie di gabbia bianca senza né tavola né piatti né cassetti, in cui ci sono soltanto due fornelli, un lavatrice, un paio di frigo e un grande lavabo in muratura rossa, che a me sembra bello, ma quando lo dico mi rispondono che sono pazza. E hanno tutte le sacrosante ragioni per rifiutare istintivamente queste mie categorie di giudizio, che una riflessione onesta smaschera subito come impregnate di un patetico, intellettualistico snobismo tardo-bohemien.
Il muro dietro è scrostato, c’è una grande cisterna in plastica nera che raccoglie l’acqua, lunghi fili per stendere i panni, vecchie valigie in un angolo, un albero di mango, e il pavimento sbilenco che scende fino ad uno spiazzo erboso e incolto che io mi ostino a considerare un giardino. Loro tre vivono lì, in queste stanzette mezze chiuse mezze aperte, selvaticamente, tra le loro quattro cose tutte mescolate, tappi di bottiglia, una sedia di legno mezza rotta e schegge di plastica morte. E il sole radioso tutto intorno tutto il giorno che cuoce il vuoto dietro la casa, dove io passo minuti in silenzio, per sentirmi vicina a questi strani ragazzi che in qualche modo mi hanno accettata, questi ragazzi-lupo ragazzi-civetta, che vivono di ruggine e espedienti e cause perse e io cerco di rendermi ruggine io stessa, per assumere un senso nel loro contesto e ai loro occhi nonostante i miei inspiegabili vestitini a fiori.
La cosa bella di questa casa, là dove assume contorni di bruciante, schiacciante realtà, è il piano di sotto, che poi non è un piano, è uno spiazzo per la macchina e intorno tre o quattro cubicoli in cui si aprono stanzette ombrose con porte gialle e odore di chiuso dove stanno loro tre. Il bagno è in un cubicolo separato, e la cucina, se così la si può chiamare, è semplicemente uno spazio centrale delimitato da un’inferriata, una specie di gabbia bianca senza né tavola né piatti né cassetti, in cui ci sono soltanto due fornelli, un lavatrice, un paio di frigo e un grande lavabo in muratura rossa, che a me sembra bello, ma quando lo dico mi rispondono che sono pazza. E hanno tutte le sacrosante ragioni per rifiutare istintivamente queste mie categorie di giudizio, che una riflessione onesta smaschera subito come impregnate di un patetico, intellettualistico snobismo tardo-bohemien.
Il muro dietro è scrostato, c’è una grande cisterna in plastica nera che raccoglie l’acqua, lunghi fili per stendere i panni, vecchie valigie in un angolo, un albero di mango, e il pavimento sbilenco che scende fino ad uno spiazzo erboso e incolto che io mi ostino a considerare un giardino. Loro tre vivono lì, in queste stanzette mezze chiuse mezze aperte, selvaticamente, tra le loro quattro cose tutte mescolate, tappi di bottiglia, una sedia di legno mezza rotta e schegge di plastica morte. E il sole radioso tutto intorno tutto il giorno che cuoce il vuoto dietro la casa, dove io passo minuti in silenzio, per sentirmi vicina a questi strani ragazzi che in qualche modo mi hanno accettata, questi ragazzi-lupo ragazzi-civetta, che vivono di ruggine e espedienti e cause perse e io cerco di rendermi ruggine io stessa, per assumere un senso nel loro contesto e ai loro occhi nonostante i miei inspiegabili vestitini a fiori.
Notizie
E’ la seconda volta in due settimane che mi sveglio una mattina e leggo nei giornali questa notizia. Ieri sera hanno sparato a un altro ragazzo a Downtown.
In Italia no
Mi sento così provinciale, qui, ogni tanto. Faccio riferimento costante all’Italia, o all’Europa. Era una delle cose che avevo smesso da tanto tempo di fare. Si riconoscono subito i veri viaggiatori, quelli che assorbono in fretta lo spirito di un posto e ci si adattano, diventando simili ai locali, diventando uno di loro. Il requisito numero è non asciugare le persone circostanti con continui paragoni con quello che succede al proprio paese. Saltando in continuazione da una città all’altra avevo costruito una sorta di identità cosmopolita, che mi permetteva di trovarmi a mio agio un po’ in tutte le città internazionali e di saper parlare con disinvoltura con gli altri compagni giramondo. Con questo viaggio, mi sembra di essere drasticamente tornata indietro. A volte non vedo nessuna connessione tra la mia storia e quello che sto vivendo, e il mio modo per creare un gancio è spiegare a me stessa e agli altri l’origine del mio smarrimento. Per lo più si tratta di piccoli dettagli, micro-cose insignificanti della vita di tutti i giorni. Che imperdonabilmente faccio notare a chi mi sta intorno.
Ma che bello che qui fa sempre caldo. Pazzesco, qui i taxi costano pochissimo! In Europa c’è stata la moda dei balli latino-americani. Mi fa troppo ridere il suono dell’allarme delle macchine di qui, sembra un videogioco. In Italia Jennifer Lopez è un sex symbol ma in genere il tipo grissino va di più. Ah ma qui i taxi fanno le fermate e si prendono in comune? In Italia non si potrebbe mai avere una cucina all’aria aperta. Qui a Trinidad si comincia ogni singola conferenza con l’inno nazionale! In Italia avere un giardino è un lusso, qui ne abbiamo uno e non lo usiamo neanche. In Italia lo squalo non è un tipo di carne che mangiamo. In Italia su questo tema si farebbe un referendum. Tra l’altro questi sono i colori della bandiera italiana. Vorrei tanto un espresso. Esiste il pane fatto con il latte di cocco?!? Ma non ci sono bar normali a Port of Spain, bar in cui entri, ti siedi, ordini panino, acqua e caffè? Frasi che ho detto recentemente. Mi sono morsa la lingua ogni volta. Mi viene spontaneo, è per fare conversazione. Ma gioca a mio sfavore marcare continuamente le mie differenze. Come se si potessero dimenticare che sono infinitamente straniera.
Ma che bello che qui fa sempre caldo. Pazzesco, qui i taxi costano pochissimo! In Europa c’è stata la moda dei balli latino-americani. Mi fa troppo ridere il suono dell’allarme delle macchine di qui, sembra un videogioco. In Italia Jennifer Lopez è un sex symbol ma in genere il tipo grissino va di più. Ah ma qui i taxi fanno le fermate e si prendono in comune? In Italia non si potrebbe mai avere una cucina all’aria aperta. Qui a Trinidad si comincia ogni singola conferenza con l’inno nazionale! In Italia avere un giardino è un lusso, qui ne abbiamo uno e non lo usiamo neanche. In Italia lo squalo non è un tipo di carne che mangiamo. In Italia su questo tema si farebbe un referendum. Tra l’altro questi sono i colori della bandiera italiana. Vorrei tanto un espresso. Esiste il pane fatto con il latte di cocco?!? Ma non ci sono bar normali a Port of Spain, bar in cui entri, ti siedi, ordini panino, acqua e caffè? Frasi che ho detto recentemente. Mi sono morsa la lingua ogni volta. Mi viene spontaneo, è per fare conversazione. Ma gioca a mio sfavore marcare continuamente le mie differenze. Come se si potessero dimenticare che sono infinitamente straniera.
Dettaglio
Un’altra cosa successa ieri sera. Un fratello di un amico di una delle ragazze con noi. Dopo un po’ che ci avevano presentati. E’ venuto lì, si è avvicinato piano e mi ha dato questo bacino sulla guancia. “You are so cute”, mi ha detto. No, no gliel’ho dato il mio numero (Perché no, Vivian?). Ma è stato veramente dolce.
Etiquette
Una cosa difficile, forse la cosa più difficile, perfino più difficile del problema sicurezza, qui a Trinidad, è la mancanza di convenevoli. Almeno con Orisha, la ragazzaccia ribelle e generosa che vive di sotto, con cui passo molto tempo. Lavora a YMCA, e insieme a un gruppo di ragazzi sta tirando su 8 ragazzini buttati fuori dal sistema scolastico e dalle famiglie. E allo stesso tempo ha messo su una piccola attività di promozione e vendita di preservativi con un amico che lavora nel settore della lotta all’AIDS. E fa parte del comitato direzionale di uno dei canali televisivi più socialmente attivi dell’isola. Si veste come un maschio, s’incazza se la ringrazio e se le chiedo “posso?”, e mi dice che sono una schizzata per il modo paranoico in cui ho risistemato la stanza e che sembro un poliziotto quando dico che la devo ridipingere. Odia tanto le formalità che se le chiedo come sta mi risponde “Alive”. Mi ha fulminata quando le ho detto (avevo paura di disturbarla stando troppo da lei) “Salgo che devo pulire il mio bagno”. Ma devo imparare anche a stare con lei, con gente come lei, perchè la gente come lei qui è la maggior parte. Beh non proprio come lei. Lei è un estremo. Ma ci sono altri esempi. L’altra sera sono stata con lei e dei suoi amici. Poi me ne dovevo andare, un suo amico era in camera, e io prima di andarmene sono passata a salutarlo, così, per educazione. Stile allora-sto-andando-a-presto-e-buona-serata. Mi ha guardata incredulo come per dire “E allora?”. Oppure mangiare con un collega quasi in silenzio, senza che lui fosse in imbarazzo. La signora con cui vivo: la prima mattina le ho chiesto se avesse dormito bene, e si è messa un po’ a ridere. Che domanda bizzarra. Tutto easy, qui. Molto, troppo easy.
Questa cosa fa riflettere. Per me questi piccoli segnali sociali sono importanti, forse più per me che per molte delle persone che conosco anche in Europa. Queste piccole attenzioni, che qui sembrano formalità. Mi accorgo che è un elemento importante anche nello scegliere i miei amici, soprattutto ultimamente. La trovo una cosa gradevole. Gradevole. Se ci fosse Orisha mi guarderebbe storto.
Questa cosa fa riflettere. Per me questi piccoli segnali sociali sono importanti, forse più per me che per molte delle persone che conosco anche in Europa. Queste piccole attenzioni, che qui sembrano formalità. Mi accorgo che è un elemento importante anche nello scegliere i miei amici, soprattutto ultimamente. La trovo una cosa gradevole. Gradevole. Se ci fosse Orisha mi guarderebbe storto.
Party Animal
Ieri sono andata a ballare, ed è stato pazzesco. Ho visto una dimensione ulteriore del ballo che non sapevo nemmeno che esistesse. Qui il ballo è molto sessuale. A tratti, a notte inoltrata, quasi scioccante da quanto fosse esplicito. Vere posizioni da kamasutra, a due, tre e quattro persone, riprodotte sulla pista con movimenti ritmati di bacino. Ma per ridere, per divertirsi. Poi non vuol dire niente. Ecco una cosa che ho scoperto. Che se sei una ragazza anche se balli in questi modi assurdi non significa che poi ci stai. Nessuno, se accetti di ballare con loro, poi si sogna di molestarti o dare per scontato che tu sei interessata a loro. Io ovviamente non lo sapevo, quindi quando chiedevano di ballare (sì, qui chiedono di ballare) io dicevo ovviamente no, con un sorriso ma no. Non volevo trovarmi in situazioni sgradevoli. Le ragazze con me dopo un po’ hanno cominciato a chiedersi perché non ballassi con nessuno, a volte si erano avvicinati anche ragazzi carini, che cosa c’è che non va, Vivian?
Ma oltre a questo fondamentale frainteso il perché era anche un altro, cioè il ballo in sé. Allora, un disclaimer. Io normalmente sono una che si diverte un sacco a ballare. Non sono particolarmente brava né niente, ma non mi è mai capitato di sentirmi in imbarazzo o di sentire di non essere capace di muovermi. Ma qui, qui ballano in modo diverso. Il che può essere irrilevante se si balla da soli, ma non in due. Qui fanno quello che si chiama wining. Cioè le ragazze muovono il bacino avanti e indietro velocissimamente mentre il resto del corpo sta quasi fermo, e i ragazzi si mettono dietro di loro (o anche di fronte, ma meno spesso), lo fanno anche loro e si balla così, coi corpi vicinissimi che si vibrano insieme. Che è carino. Ovvio, molto sensuale, ma carino perché è fatto in modo spontaneo, divertito, anche tra amici. Beh io questo movimento non lo fare. Non so se è una cosa genetica dei neri che hanno un’articolazione in più! Verso fine serata mi sembrava di aver capito un po’ di più, ma credo che un giorno non basti. Comunque imparerò a farlo, mi sembra una componente assolutamente irrinunciabile della mia vita trinidina.
Un altro aspetto interessante della nottata era osservare gli altri ballerini. Prima di tutto, c’erano sorprendentemente pochi ubriachi, pochissimi, perché qui non ne hanno bisogno né per ballare né per venirti a parlare. Che bellezza. C’era un pazzo gay con la maglietta EmporioArmani (prima cosa firmata che vedo da quando sono arrivata) che faceva lo scemo e si cimentava in un wining da donna. Ad un certo punto si è messo a ballare con la mia amica facendo a fare a lei la parte dell’uomo, e lei che stava al gioco e rideva come una pazza. C’era qualche yankee con testosterone a mille, un po’ impacciato, un po’ losco, parte di quel ristretto gruppo di bianchi occidentali iniziati ai segreti della vita di Port of Spain. E soprattutto c’era una ragazza in verde spettacolare, una selvaggia, che ha ballato per ore a un ritmo allucinante, da sola o con chiunque volesse, scendendo a terra con movimento oscillatorio, rialzandosi, girando come una trottola, ad occhi semichiusi, una vera dea del ballo, estatica, erotica, tutt’uno con la musica. Una visione ipnotica, una figurina filiforme, che pareva fatta di nodi di ritmo grigioverde.
Ma oltre a questo fondamentale frainteso il perché era anche un altro, cioè il ballo in sé. Allora, un disclaimer. Io normalmente sono una che si diverte un sacco a ballare. Non sono particolarmente brava né niente, ma non mi è mai capitato di sentirmi in imbarazzo o di sentire di non essere capace di muovermi. Ma qui, qui ballano in modo diverso. Il che può essere irrilevante se si balla da soli, ma non in due. Qui fanno quello che si chiama wining. Cioè le ragazze muovono il bacino avanti e indietro velocissimamente mentre il resto del corpo sta quasi fermo, e i ragazzi si mettono dietro di loro (o anche di fronte, ma meno spesso), lo fanno anche loro e si balla così, coi corpi vicinissimi che si vibrano insieme. Che è carino. Ovvio, molto sensuale, ma carino perché è fatto in modo spontaneo, divertito, anche tra amici. Beh io questo movimento non lo fare. Non so se è una cosa genetica dei neri che hanno un’articolazione in più! Verso fine serata mi sembrava di aver capito un po’ di più, ma credo che un giorno non basti. Comunque imparerò a farlo, mi sembra una componente assolutamente irrinunciabile della mia vita trinidina.
Un altro aspetto interessante della nottata era osservare gli altri ballerini. Prima di tutto, c’erano sorprendentemente pochi ubriachi, pochissimi, perché qui non ne hanno bisogno né per ballare né per venirti a parlare. Che bellezza. C’era un pazzo gay con la maglietta EmporioArmani (prima cosa firmata che vedo da quando sono arrivata) che faceva lo scemo e si cimentava in un wining da donna. Ad un certo punto si è messo a ballare con la mia amica facendo a fare a lei la parte dell’uomo, e lei che stava al gioco e rideva come una pazza. C’era qualche yankee con testosterone a mille, un po’ impacciato, un po’ losco, parte di quel ristretto gruppo di bianchi occidentali iniziati ai segreti della vita di Port of Spain. E soprattutto c’era una ragazza in verde spettacolare, una selvaggia, che ha ballato per ore a un ritmo allucinante, da sola o con chiunque volesse, scendendo a terra con movimento oscillatorio, rialzandosi, girando come una trottola, ad occhi semichiusi, una vera dea del ballo, estatica, erotica, tutt’uno con la musica. Una visione ipnotica, una figurina filiforme, che pareva fatta di nodi di ritmo grigioverde.
Mas I
Quando sono venuta per la prima volta a vedere casa di Wilma, non ero qui nemmeno da una settimana. Mi avevano detto che Belmont era zona proibita, ma avevo avuto rassicurazioni da mille fonti che la posizione della casa era talmente alla periferia del quartiere e talmente vicina al grande, tranquillissimo parco cittadino che non ci sarebbe stato assolutamente alcun pericolo. Ciononostante, quel lunedì pomeriggio mi sono addentrata a Cadiz Road con un po’ di timore.
Ricordo benissimo. Percorro il ponte, trovo il numero civico. Tiro fuori il cellulare e chiamo la signora. Penso che spero che risponda presto - non mi va di aspettare da sola qui davanti, ci sono quei brutti ceffi che si avvicinano. Sento il telefono squillare in casa. Uno squillo, due squilli, tre squilli. I ceffi camminano, Wilma risponde. “Sono qui davanti”, le dico. “Vengo subito ad aprire”. I tizi mi guardano, io mi sento inquieta. La porta rimane chiusa. Ad un certo punto uno dei due si mette a correre verso di me, velocissimo, fissandomi. Io penso ommioddio cosa faccio, e mentre lo penso succede una cosa ancora più assurda. Il tizio che corre si tira giù i pantaloni. E io ho paura, che sono lì fuori, che non so che fare, e cerco subito di aprire il cancello, grazie al cielo non c’era il lucchetto, il tizio mi è vicinissimo, io sguscio dentro, lui continua a correre, correre via, ridendo. Voleva solo farmi paura. Un cretino, un pazzo.
Sono dentro e trovo Mas, che mi viene incontro. Un ragazzo, forse un paio d’anni meno di me, che stava credo lavando i piatti. Più che altro sorpreso di vedermi in casa sua. Are you ok?, mi chiede. Io sono ancora terrorizzata. Gli racconto quello che è successo con parole smozzicate, non riesco a non scoppiare a piangere. Lui corre subito fuori e si mette a seguire quell’uomo, mentre Wilma apre la porta.
Dopo aver visto la stanza e aver bevuto un po’ d’acqua, mi sento meglio. Mas sale da noi un secondo, per spiegare a Wilma quello che era successo. Non sono riuscito a prenderlo. E a me. Volevo obbligarlo a chiederti scusa, quello stronzo. Gli dico grazie, che non importa, che è passata, sorrido per tranquillizzare tutti. Gli chiedo se comunque gli va di riaccompagnarmi un pezzo, fino alla fine della strada, fino al parco, potresti?, mi sentirei più tranquilla. Sì, può. Anzi mi riaccompagna fino all’ufficio, tanto è a 10 minuti di strada, non ha niente da fare. E poi ha un paio amici all’ONU, ne approfitta per salutarli. Per strada parliamo un po’, è simpatico. Lavora in una discoteca, proprio dietro l’angolo, è una delle più famose di Port of Spain, a quanto pare. Al lavoro lui ha un altro nome. Pink. Pi I Enne Kappa, mi dice, con un sorriso orgoglioso. Penso subito al personaggio delle Iene di Tarantino, glielo accenno, non sa. Gli chiedo perché Pink. E’ una di quelle domande che non solo non ottengono risposta, ma sembrano non essere nemmeno comprese in quanto domande. E’ una cosa che mi capita spesso, recentemente. Come se il mio pensiero avesse una lunghezza d’onda diverso che non combacia con la loro. Che domanda è?, si chiedono.
Poi domenica mi sono trasferita. Mi sono documentata, è stato un episodio completamente eccezionale, la zona in realtà è calmissima. Rivedo Mas solo un paio di giorni dopo, che cercava Wilma. Ah ciao, sei tu? Apro a porta, mi fa piacere rivedere quel ragazzo gentile. Restiamo due minuti lì a parlare, del più e del meno. Ma mentre chiacchieriamo quasi subito mi coglie una sensazione strana. Lui parla in modo irregolare, parla veloce, parla in modo completamente diverso dall’altro giorno. Si muove molto, alza la voce, cambia discorso, non riesce a stare fermo. E’ drogato. Sicuro. Non so di cosa, ma è fatto perso, forse qualche acido, che ha ancora strascichi di effetto dopo la notte al lavoro. Il discorso perde quasi subito senso, io continuo a sorridergli, a fare finta di niente. Non c’è nulla di preoccupante, lui continua ad essere gentile, non c’è una briciola di tensione da parte mia. Solo sconcerto. Lui davanti a me che parla, si agita, e straparla.
La sensazione che mi attanaglia con più violenza è una certa impotente tristezza. Mi sembra fragile, non voglio vederlo così fragile. Parla, parla, e io non posso non pensare che è sfatto, non posso non attribuirgli questo aggettivo umiliante. E così mi sembra di contribuire alla sua precarietà, di renderlo ancora più vulnerabile guardandolo, ascoltandolo, nella mia condizione di sana, mentre lui è in balia delle sue storie. Mi fa pena, ma non voglio che mi faccia pena. Ho paura che il mio giudizio possa fargli del male. E allora faccio mille sforzi per non far capire che capisco, l’ultima cosa che voglio è che il giorno dopo lui si ricordi e pensi che avevo capito e se ne vergogni.
Ad un certo punto gli chiedo come avesse conosciuto Wilma, tanto per trascinare la conversazione su un territorio semplice e quotidiano. Vedo un’ombra velocissima nei suoi occhi, sussurra che c’erano stati problemi, quando era piccolo. Che si era trovato a vivere in strada, da bambino. E poi... Poi ha cambiato discorso, si è messo a dire qualcosa sul Signore degli Anelli, su qualche messaggio spirituale del cosmo, ha ricominciato a muovere le mani freneticamente. Gli ho detto che dovevo finire di lavorare, magari uno di questi giorni prendiamo un caffè con calma? Volevo smetterla di vederlo così, volevo salvarlo dal miop giudizio. Era la stessa persona che mi aveva chiesto Are you ok e che mi aveva detto Volevo obbligarlo a chiederti scusa, quello stronzo.
Ricordo benissimo. Percorro il ponte, trovo il numero civico. Tiro fuori il cellulare e chiamo la signora. Penso che spero che risponda presto - non mi va di aspettare da sola qui davanti, ci sono quei brutti ceffi che si avvicinano. Sento il telefono squillare in casa. Uno squillo, due squilli, tre squilli. I ceffi camminano, Wilma risponde. “Sono qui davanti”, le dico. “Vengo subito ad aprire”. I tizi mi guardano, io mi sento inquieta. La porta rimane chiusa. Ad un certo punto uno dei due si mette a correre verso di me, velocissimo, fissandomi. Io penso ommioddio cosa faccio, e mentre lo penso succede una cosa ancora più assurda. Il tizio che corre si tira giù i pantaloni. E io ho paura, che sono lì fuori, che non so che fare, e cerco subito di aprire il cancello, grazie al cielo non c’era il lucchetto, il tizio mi è vicinissimo, io sguscio dentro, lui continua a correre, correre via, ridendo. Voleva solo farmi paura. Un cretino, un pazzo.
Sono dentro e trovo Mas, che mi viene incontro. Un ragazzo, forse un paio d’anni meno di me, che stava credo lavando i piatti. Più che altro sorpreso di vedermi in casa sua. Are you ok?, mi chiede. Io sono ancora terrorizzata. Gli racconto quello che è successo con parole smozzicate, non riesco a non scoppiare a piangere. Lui corre subito fuori e si mette a seguire quell’uomo, mentre Wilma apre la porta.
Dopo aver visto la stanza e aver bevuto un po’ d’acqua, mi sento meglio. Mas sale da noi un secondo, per spiegare a Wilma quello che era successo. Non sono riuscito a prenderlo. E a me. Volevo obbligarlo a chiederti scusa, quello stronzo. Gli dico grazie, che non importa, che è passata, sorrido per tranquillizzare tutti. Gli chiedo se comunque gli va di riaccompagnarmi un pezzo, fino alla fine della strada, fino al parco, potresti?, mi sentirei più tranquilla. Sì, può. Anzi mi riaccompagna fino all’ufficio, tanto è a 10 minuti di strada, non ha niente da fare. E poi ha un paio amici all’ONU, ne approfitta per salutarli. Per strada parliamo un po’, è simpatico. Lavora in una discoteca, proprio dietro l’angolo, è una delle più famose di Port of Spain, a quanto pare. Al lavoro lui ha un altro nome. Pink. Pi I Enne Kappa, mi dice, con un sorriso orgoglioso. Penso subito al personaggio delle Iene di Tarantino, glielo accenno, non sa. Gli chiedo perché Pink. E’ una di quelle domande che non solo non ottengono risposta, ma sembrano non essere nemmeno comprese in quanto domande. E’ una cosa che mi capita spesso, recentemente. Come se il mio pensiero avesse una lunghezza d’onda diverso che non combacia con la loro. Che domanda è?, si chiedono.
Poi domenica mi sono trasferita. Mi sono documentata, è stato un episodio completamente eccezionale, la zona in realtà è calmissima. Rivedo Mas solo un paio di giorni dopo, che cercava Wilma. Ah ciao, sei tu? Apro a porta, mi fa piacere rivedere quel ragazzo gentile. Restiamo due minuti lì a parlare, del più e del meno. Ma mentre chiacchieriamo quasi subito mi coglie una sensazione strana. Lui parla in modo irregolare, parla veloce, parla in modo completamente diverso dall’altro giorno. Si muove molto, alza la voce, cambia discorso, non riesce a stare fermo. E’ drogato. Sicuro. Non so di cosa, ma è fatto perso, forse qualche acido, che ha ancora strascichi di effetto dopo la notte al lavoro. Il discorso perde quasi subito senso, io continuo a sorridergli, a fare finta di niente. Non c’è nulla di preoccupante, lui continua ad essere gentile, non c’è una briciola di tensione da parte mia. Solo sconcerto. Lui davanti a me che parla, si agita, e straparla.
La sensazione che mi attanaglia con più violenza è una certa impotente tristezza. Mi sembra fragile, non voglio vederlo così fragile. Parla, parla, e io non posso non pensare che è sfatto, non posso non attribuirgli questo aggettivo umiliante. E così mi sembra di contribuire alla sua precarietà, di renderlo ancora più vulnerabile guardandolo, ascoltandolo, nella mia condizione di sana, mentre lui è in balia delle sue storie. Mi fa pena, ma non voglio che mi faccia pena. Ho paura che il mio giudizio possa fargli del male. E allora faccio mille sforzi per non far capire che capisco, l’ultima cosa che voglio è che il giorno dopo lui si ricordi e pensi che avevo capito e se ne vergogni.
Ad un certo punto gli chiedo come avesse conosciuto Wilma, tanto per trascinare la conversazione su un territorio semplice e quotidiano. Vedo un’ombra velocissima nei suoi occhi, sussurra che c’erano stati problemi, quando era piccolo. Che si era trovato a vivere in strada, da bambino. E poi... Poi ha cambiato discorso, si è messo a dire qualcosa sul Signore degli Anelli, su qualche messaggio spirituale del cosmo, ha ricominciato a muovere le mani freneticamente. Gli ho detto che dovevo finire di lavorare, magari uno di questi giorni prendiamo un caffè con calma? Volevo smetterla di vederlo così, volevo salvarlo dal miop giudizio. Era la stessa persona che mi aveva chiesto Are you ok e che mi aveva detto Volevo obbligarlo a chiederti scusa, quello stronzo.
Per strada
E’ buffo. Quando ci si sente minacciati si sviluppano e si mettono in pratica istintivamente certe accortezze che in una situazione normale non verrebbero mai in mente. Quando cammino in una strada vuota che per qualche motivo mi mette a disagio, per prima cosa mi tolgo dal marciapiede. Qualcuno potrebbe venire fuori all’improvviso da una porta. Sto sul ciglio della strada, e cammino in senso contrario alla direzione delle macchine. Così non mi possono seguire. Tolgo gli occhiali da sole. Fa turista. Cammino più lentamente. La mia velocità qui è stonata, e sembra che abbia paura di qualcosa. Non tiro mai fuori la cartina, né esito davanti a un bivio. Decido prima che direzione prendere, anche se non ne sono sicura. Però qui, al contrario della vecchia Europa, posso mettere in pratica in tutta serenità la mia peculiare abitudine di attraversare la strada senza aspettare, senza semaforo vere e senza strisce pedonali, solo con un cenno della mano agli automobilisti. E nessuno pensa che stia facendo una cosa tanto strana.
Cercar casa
Come sempre, il più grande fastidio connesso all’arrivo in una nuova, ulteriore città è la home-hunting, caccia alla casa, che deve possibilmente concludersi entro una decina di giorni dall’atterraggio, e riportare un trofeo di una accomodation centrale, graziosa, con coinquilini simpatici e poco costosa. Poi a Port of Spain si aggiunge come sempre, quasi fosse una tassa su ogni prodotto, la garanzia della sicurezza. Nonostante la fatica, anche cercare casa può essere utile per capire più a fondo una cultura, perché costringe ad interagire, parlare, trattare, sbirciare, commentare con la gente del posto. E scoprire come queste piccole azioni si svolgano in modo diverso da questa parte dell’oceano.
Per esempio non avevo mai pensato che per trovare una casa risarei trovata “a parlare con quello del negozio di alimentari, hai presente?, un vecchio rastaman che conosce tutti nel quartiere, digli che ti manda Clarissa, la ragazza bionda con la bicicletta, mi ha preso in simpatia perché abbiamo scoperto che abitavamo nella stessa zona di Brooklyn tanti anni fa, e lui ti porterà mano nella mano di casa in casa, con i capelli raccolti in una torre sulla testa. Si chiama Tiger”.
Oppure che entrando in una guest house ormai piena la signora si sarebbe messa a parlare con me per mezz’ora su cosa potessi fare, e che quando le avessi menzionato che avevo la possibilità di vivere a Belmont avrebbe voluto vedere esattamente dove sulla cartina, e si sarebbe messa a fare un giro di telefonate alle sue amiche per assicurarsi se fosse un strada abbastanza safe. Mi ha salutato dicendomi: “Ovunque tu vada vivere a Port of Spain, ricordati di uscire di casa a un’ora leggermente diversa ogni mattina. You never know who’s watching you”.
Per esempio non avevo mai pensato che per trovare una casa risarei trovata “a parlare con quello del negozio di alimentari, hai presente?, un vecchio rastaman che conosce tutti nel quartiere, digli che ti manda Clarissa, la ragazza bionda con la bicicletta, mi ha preso in simpatia perché abbiamo scoperto che abitavamo nella stessa zona di Brooklyn tanti anni fa, e lui ti porterà mano nella mano di casa in casa, con i capelli raccolti in una torre sulla testa. Si chiama Tiger”.
Oppure che entrando in una guest house ormai piena la signora si sarebbe messa a parlare con me per mezz’ora su cosa potessi fare, e che quando le avessi menzionato che avevo la possibilità di vivere a Belmont avrebbe voluto vedere esattamente dove sulla cartina, e si sarebbe messa a fare un giro di telefonate alle sue amiche per assicurarsi se fosse un strada abbastanza safe. Mi ha salutato dicendomi: “Ovunque tu vada vivere a Port of Spain, ricordati di uscire di casa a un’ora leggermente diversa ogni mattina. You never know who’s watching you”.
Bellezza Trinidina
Non è facile dire se i trinidini siano belli. Soprattutto perché il tipo trinidino non esiste. La miscela etnica di questo posto è sconcertante, e passeggiando per strada mi sono trovata a scoprire e riscoprire in continuazione che è impossibile guardare l’aspetto fisico di una persona e dire: “Scommetto che vieni da Trinidad”. Neri africani, da tutte le parti d’Africa, presi sotto il dominio spagnolo e francese per la tratta degli schiavi. Alcuni altissimi, altri piccolini, alcuni neri-neri-neri, altri color cioccolato, altri più dorati, occhi tondi come noci, occhi oblughi con sguardi da tigre. E gli indiani d’India, cosiddetti East-Indians, tratti nelle West Indies caraibiche dagli inglesi che dopo aver abolito la schiavitù si sono trovati con i campi tutti vuoti. Donne con una grazia antica, bambini che ancora imparano l’Hindi prima dell’inglese, uomini che gestiscono i negozi di quasi tutta la città. Sopracciglia marcate, nasi delineati, occhi un po’ asiatici e il solito arcobaleno dei colori della pelle. Pochi bianchi timidi, che si spuntano alle conferenze e nei ristoranti e non si vedono mai per strada o nei negozi di Downtown, come se si sciogliessero al sole. Poi i Siriani e i Libanesi venuti a far fortuna, con i loro misteriosissimi tratti arabi. Un nugolo di cinesi silenziosi che si rendono invisibili in questa terra di grida e musica. E i tanti, tantissimi tipi misti con il sangue talmente mescolato che è ormai impossibile dire a chi somiglino, se non a se stessi. Comunque sì, molti, molti trinidini sono davvero belli.
Woodbrook e Downtown
La guest house è a Woodbrook, e che a quanto pare è la zona residenziale e più sicura della città. Residenziale si fa per dire. Si tratta solo di una griglia di stradine, piccole e dall’aspetto tranquillo (ma hanno davvero l’aspetto tranquillo o glielo sovrappongo io, in funzione di quanto mi hanno detto?), con casette separate, sempre piuttosto colorate, con dei piccoli giardinetti o più semplicemente dello spazio vuoto intorno. Alcune sono graziose, tipo la mia guest house. La maggior parte sono così così, un buon numero sono decisamente lasciate andare e un paio sono abbandonate. Insomma, non proprio una san felice. Anche la tranquillità è relativa, qui in casa ad esempio ci sono le sbarre di ferro alle porte e alle finestre, tutte rigorosamente chiuse con lucchetti e controlucchetti e chiavistelli.
Il primo giorno a Port of Spain, dopo aver fatto un timido giretto a Woodbrook ed essere rimasta qualche ora a leggere in camera, ho preso il coraggio a due mani e mi sono diretta a dowtown, il vero centro e cuore della città, che a quanto c’è scritto sulle mie carte è safe di giorno e forbidden di notte. Ho studiato bene la cartina perché non bisogna tirarla fuori in mezzo alla strada, ho indossato un aria sicurissima di me e sono uscita. Dal mio quartiere al centro c’è una zona un po’ vuota, bianca e grigia, in cui non mi è piaciuto molto passeggiare, anche perché c’era poca gente per strada e nessun negozio. Invece, downtown mi ha fatto un’impressione completamente diversa e positiva. Mi aspettavo che mi sarei sentita in pericolo, invece tutta la fiumana di gente intenta nello shopping del sabato pomeriggio non solo mi ha rassicurata tantissimo, ma mi ha anche messo allegria, e mi ha fatto venire voglia di entrare nel negozi.
Sono entrata solo in uno, in una libreria, forse perché ho pensato che mi ci potessi sentire più a mio agio che altrove. Chissà, magari avrei potuto trovare uno dei libri scritto da qualche romanziere locale, so che uno anni fa aveva vinto addirittura il Nobel… Invece no, le mie speranze si sono schiantate subito contro la fila di libri evangelici ed ecclesiastici in cui si insegnano i 10 steps per diventare un credente di serie A o il senso della vita secondo il santone della baia accant. Un titolo, in particolare, mi ha strappato un sorriso: “How to prepare a sermon”. Me l’ero sempre chiesta, se qualcuno insegnasse ai preti la retorica dell’omelia. E a proposito di sermoni, stamattina in tv non c’era altro. Avevo acceso con la speranza di vedere CNN, e ho trovato una sfilza di canali, ognuno col proprio predicatore, che insegnava in tv come si prega e come si vive, qualcuno con grida ispirate, qualcuno con fare confidenziale, qualcuno cercando di vendere il proprio libro on-line. E in tutte, immancabilmente, c’era in sovrimpressione la prayer line da chiamare per consigli sull’orazione. Fantastico.
Il primo giorno a Port of Spain, dopo aver fatto un timido giretto a Woodbrook ed essere rimasta qualche ora a leggere in camera, ho preso il coraggio a due mani e mi sono diretta a dowtown, il vero centro e cuore della città, che a quanto c’è scritto sulle mie carte è safe di giorno e forbidden di notte. Ho studiato bene la cartina perché non bisogna tirarla fuori in mezzo alla strada, ho indossato un aria sicurissima di me e sono uscita. Dal mio quartiere al centro c’è una zona un po’ vuota, bianca e grigia, in cui non mi è piaciuto molto passeggiare, anche perché c’era poca gente per strada e nessun negozio. Invece, downtown mi ha fatto un’impressione completamente diversa e positiva. Mi aspettavo che mi sarei sentita in pericolo, invece tutta la fiumana di gente intenta nello shopping del sabato pomeriggio non solo mi ha rassicurata tantissimo, ma mi ha anche messo allegria, e mi ha fatto venire voglia di entrare nel negozi.
Sono entrata solo in uno, in una libreria, forse perché ho pensato che mi ci potessi sentire più a mio agio che altrove. Chissà, magari avrei potuto trovare uno dei libri scritto da qualche romanziere locale, so che uno anni fa aveva vinto addirittura il Nobel… Invece no, le mie speranze si sono schiantate subito contro la fila di libri evangelici ed ecclesiastici in cui si insegnano i 10 steps per diventare un credente di serie A o il senso della vita secondo il santone della baia accant. Un titolo, in particolare, mi ha strappato un sorriso: “How to prepare a sermon”. Me l’ero sempre chiesta, se qualcuno insegnasse ai preti la retorica dell’omelia. E a proposito di sermoni, stamattina in tv non c’era altro. Avevo acceso con la speranza di vedere CNN, e ho trovato una sfilza di canali, ognuno col proprio predicatore, che insegnava in tv come si prega e come si vive, qualcuno con grida ispirate, qualcuno con fare confidenziale, qualcuno cercando di vendere il proprio libro on-line. E in tutte, immancabilmente, c’era in sovrimpressione la prayer line da chiamare per consigli sull’orazione. Fantastico.
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