giovedì 18 dicembre 2008

Parang

Sarebbe ingiusto dire che a Trinidad si ascolta solo Soca e un po' di defunto Calypso. Esiste anche un altro genere musicale che infesta strade e radio nel periodo pre-natalizio. Si chiama Parang, ed e' per quanto mi riguarda l'unica nota ispanica e vagamente latino-americana che e' riuscita a penetrare questa cultura altrimenti escusivamente afro-indiana.

Il Parang e' un'allegra musichetta caraibica, si canta in spagnolo e si suona con un chitarrino tutto vibrante, maracas e coretti femminili che dimenano in sincronia le lunghe gonne colorate. L'elenco completo degli strumenti musicali e' (in inglese): guitar, cuatro, mandolin (bandolin) , violin, cello (violoncello), bandol (bandola), box bass, tambourine, clapper, toc-toc (claves), wood block pollitos, tiple, scratcher (güiro) and maracas (chac-chac or shak-shak). Sfido chiunque a conoscerli tutti. Il Parang intona temi natalizi, per lo piu'. Fa un effetto molto strano sentir cantare di spiriti di Natale e stelle comete su questi ritmi tutti spagnoleggianti, danzerecci e scoppiettanti. Ma d'altra parte e' anche strano vedere aghi di pino e stelle di Natale di plastica adornare sontuosamente strade e negozi quando ci sono 30 gradi all'ombra.

A quanto pare il Parang e' diffuso in tutta la regione. Il nome e' un calco storpiato dalla parola "parranda", cioe' l'azione del "parrandero" di andare in giro di casa in casa minacciando di cantare a squarciagola se non gli si offre una buona porzione di cibo. Insomma una specie di "trick or treat" halloweeniano, in versione adulta e ridanciana per i popoli ispanici delle isole del Caribe. E in questo proliferare di scherzi e canzoni, ne e' nato un genere musicale molto gradevole da ascoltare che e' arrivato fino a Trinidad attraverso il Venezuela. Un altra versione della storia e' che il Parang sia la musica sviluppata dai nativi trini, che qui sono chiamati Carib ed hanno fattezze indigene, a contatto con la cultura francese-creola delle conquiste.

Ogni anno l'ultimo lunedi' prima di Natale c'e' un grande concerto di Parang a Paramin, un villaggetto tra le montagne considerato la patria ufficiale del Parang, dove c'e' una grande concentrazione di Caribs e (dicono) di bellissime donne. Io putroppo non ci sono potuta andare. Magari l'anno prossimo? ;)

martedì 16 dicembre 2008

Felix The Cat

Abbiamo un gattino! Regalo di compleanno per Mister K, che si e' trovato a sorpresa un'altra bocca da sfamare... Felix Terence Raingold Salsi Ragobar, altrimenti detto The Professor.

E' un batuffolino piccolissimo, con il pelo a chiazze bianche e nere (oddio, bianche e tigrate), gli occhi azzurri e un musino addolutamente adorabile. Era stato abbandonato con i suoi due fratellini al margine della strada, e prontamente salvato da un'amante degli animali che poi ha messo un annuncio sul sito del gruppo Animal Welfare. Quando me li ha portati a casa sono impazzita per sceglierne uno: erano tutti e tre bellissimi... Ma alla fine non ho potuto che prendere Felix, il piu' bello e il piu' vispo, che mi ha guardata negli occhi a lungo come per dire "E tu chi saresti?".

E ora e' tutta un'avventura. Salta, corre, gioca tutto il giorno. Si nasconde sotto i mobili, scala le pendici del letto, da' la caccia ai nostri piedi e ai nostri nasi. Gli abbiamo anche fatto una cuccia, che miracolosamente lui usa, anche se i gatti di solito non vanno mai dove gli si dice di andare. Infatti all'inizio non voleva entrare nel suo cestino, ma poi abbiamo usato un trucco: l'abbiamo coperto con una vecchia maglietta di modo che fosse riparato, e ora lui ci sgattaiola sempre. Crede che quando sta dentro al cestino sia irraggiungibile, e noi lo lasciamo nella sua beata illusione. E poi ovviamente lo facciamo giocare con la corda, che lui insegue, afferra e morde come un fiero leoncino.

Chi lo dice che i gatti non sono affettuosi? Basta educarli al contatto umano, e loro rispondono e ti cercano per giochi e carezze. Ha gia' imparato a fare la pipi' nella sua cassettina, a smettere di fare qualcosa quando gli si dice "No!", a riconoscere il suono della ciotolina con la pappa. E a volte viene quando lo chiami. Non male per un micino di due mesi, vero?

domenica 7 dicembre 2008

The perfect night II

Venerdì notte è cominciata alle 9 di sera a Paprika, bevendo un bicchiere di vino con una coppia di giovani giornalisti appena sbarcati a Trinidad per scrivere un libro. Ed è finita alle 11 del mattino seguente, dopo aver mangiato una cheese cake nel parcheggio di Ellerslie Plaza con Terry per un ultimo sugar rush che ci consentisse di riuscire ad arrivare sane e salve fino a casa senza addormentarci in macchina. Una notte infinita in cui ha fatto, visto, conosciuto mile nuovi posti e persone, in un caleidoscopio di impressioni impossibili da sintetizzare. Come quando ci siamo avventurati nelle rovine del vechio hotel scomparso nella foresta, e abbiamo fatto foto artistiche in cui noi eravamo solo ombre contro il muro di vegetazione che mangiava le colonne. O quando ci siamo trovate al club 51 senza aver ben capito chi avesse pagato il nostro ingresso e le nostre birre e abbiamo ballato e ballato e ballato con gli amici Venezuelani che conoscevo solo per telefono. O quando Ferdinando mi raccontava in Spanglish della sua bambina di quattro anni che lo aspetta a Città del Messico, e il suo amore segreto per una ragazza che ha conosciuto in Brasile e la sua solitudine di viaggiatore che lo fa struggere di nostalgia di casa quando naviga, e di nostalgia del mare quado è a casa, mentre l'alba saliva su S. James e il cielo era color cobalto. Quando siamo arrivate allo Squeeze giallo giusto per fare un saluto e siamo state inghiottite e rapite dalle urla e dalle risate di quello strano gruppo di amici di amici di amici. Quando ho incontrato a sorpresa Sissy e Felix e ci siamo abbracciati nel rumore. Quando a Macaripe alle sette del mattino questo ragazzo che non avevo mai visto nella mia vita ha deciso che io era la persona a cui in quel momento lui voleva dire tutti i suoi segreti, e mi ha raccontato della sua sessualità e dei suoi desideri e di sua madre e suo padre e dei suoi fallimenti e attese e insicurezze sul suo corpo, sulla sua mente, sulla sua esistenza intera e io lo ascoltavo e lo capivo mentre le onde mi scrosciavano davanti. Quando ho conosciuto Kuss e non mi ricordo di cosa abbiamo parlato ma lui era gentilissimo. O quando ci siamo arrampicati su quella scala arrugginita e siamo saliti sul tetto della casa rotta a picco sul mare e abbiamo guardato l'orizzonte in silenzio. Quando abbiamo camminato stanchi e sporchi nella Bamboo Cathedral e ha cominciato a piovere a dirotto. Oppure quando Terry mi è passata a prendere alle 9 di sera, mi ha urlato buongiorno principessa e mi ha lanciato da oltre la siepe il mio regalo di Natale.

mercoledì 3 dicembre 2008

Bivio

Immobile e divisa
da forze brutali,
contrarie ed uguali.
Il punto di svolta:
quei tre scalini neri.

Invischiata in fango e miele,
osservo la clessidra
e correggo il mio respiro.

martedì 2 dicembre 2008

Pensiamo alle cose belle

Ieri pomeriggio ho pensato che l'unica cosa che poteva tirarmi un po' su era un gelato italiano. Mi sono fatta mezz'ora a piedi per arrivare fino al negozio, a Ellerslie Plaza. Pioveva pure. All'arrivo scopro che ho dimenticato il portafoglio a casa. Mierda. Chiedo scettica se facciano credito. Ovviamente no. "Davvero davvero? Non posso portare i soldi domani?" "No signorina". Certo, capisco. Sono regole decise a priori, inutile insistere col povero commesso. Faccio per andarmene. Dovevo avere una faccia veramente delusa perche' lui mi richiamasse e mi dicesse: "Senti, ci metto i soldi di tasca mia, e poi tu me li riporti domani'. Non ci potevo credere. Un angelo. Forse il genere umano non e' tutto da buttare via.

lunedì 1 dicembre 2008

Rouge Zen

Blinking red light
lighting me
deleting me.

Me - cherry lips
berries and vodka fingers.

Buddahs are on fire.
Inside -
anger only.

Bitterness

There are two kinds of experiences.
The ones that make you grow.
The ones that make you age.
This island made me age.

venerdì 28 novembre 2008

Lost (on the desert island)


Ieri si parlava. Se io stessi qui. Che cosa succederebbe.

Arrivando dall'Europa con tutte le mie carte, masterizzata e stagizzata a piu' non posso, avendo fatto di tutto e di piu' rigorosamente non pagata in ONG, organizzazioni internazionali, lobbies e universita', ho piu' qualifiche e piu' esperienza della maggior parte dei miei coetanei trinidni. E poi ho anche voglia di lavorare, che rarita'. Non sarebbe difficile fare strada sull'Isola, in cui c'e' molto bisogno di personale qualificato, girano un sacco di soldi e i cervelli sono in fuga. Nel giro di qualche anno sarei sistemata, probabilmente con un lavoro migliore di qualunque cosa potrei ottenere nello stesso lasso di tempo nell'ultracompetitiva Europa. E poi qui e' un buco, basta entrare nei giri giusti ed e' fatta. Per uno straniero non e' difficile, siamo quattro gatti. La scala sociale si sale in fretta. E poi via, una bella vita ai Caraibi. Con una casa vera al posto che una stanza, una macchina per muoversi, una minima di soldi per viaggiare. Il mare a quattro passi, l'estate tutto l'anno, quel paio di amici giusti che mi ritrovo e Mister K. Sembrerebbe perfetto, no?

E invece no, certo che no. Chi ci vuole stare in questo buco? In quest'isoletta grande quanto un quarto della Sardgegna? In cui non c'e' cultura, non arriva nemmeno un film europeo, uno straccio di mostra d'arte godibile, si ascolta solo musica soca e rap Giamaicano? In cui l'evento che tutti aspettano e' il Carnevale, il baccanale della sessualita' esibita nell'orgia collettiva che dura tre giorni di fila? In cui i quotidiani sono di livello infimo e nessuno sa cosa succede nel mondo? In cui c'e' talmente tanta criminalita' che si ha paura a mettere il naso fuori casa la sera, specie se si e' donne? Provinciale, arretrato, terzomondino. La gente non ha gusto. Con le ragazze che ti odiano e i ragazzi che ti vogliono e i pettegolezzi che ti montano intorno a tua insaputa. Con la noia del non sapere mai che fare. E poi il mondo e' cosi' grande! Dove li metto i miei sogni? Il medio oriente? La carriera internazionale? Fare qualcosa di grande, di globale, di esaltante...

Poi mi ricordo che non ho nulla in mano, che se torno in Europa adesso probabilemnte mi dovro' rimettere in giro a mandare decine di CV per stage e affini, e tante grazie se ti rispondono di no. Magari qui si potrebbe prolungare un attimo, il tempo per capire... E per non ritrovarmi ancora punto e a capo a rifare tutto in un'ennesima citta' del mondo. A ricominciare da non-conosco-nessuno e devo-trovarmi-una-casa...

giovedì 27 novembre 2008

Mas - after final

Ieri e' suonati il telefono di casa ed e' apparso Mas alla porta. Non lo vedevo da un po', ormai non vive piu' di sotto. Lo incontro salutariamente in giro, scambiamo due parole e via. Ieri non so perche' mi abbia chiamata, passava di li', voleva salutarmi. E gia' che c'era dirmi qualcosa. Non se ne sta piu' nella casa di sua nonna, quella a Laventille in cui sente gli spari mentre dorme. Ha litigato con suo zio, ha deciso di non tornarci piu'. E di non andare nemmeno da sua madre, quella vuole solo i suoi soldi. Una volta si era dimenticato li' un cofanetto con dei cd suoi e la madre ha detto che invece appartenevano al fratello morto, e se proprio li voleva glieli poteva ricomprare. A lei.

E' qualche giorno che vive da qualche amico, una sera ha dormito nel parco. Sta chiamando tutti quelli che conosce. Mi viene in mente la cosa che gli avevo fatto promettere, di chiamarmi se mai si fosse trovato a dormire per strada. Eccomelo qui davanti. Non so cosa fare, ho preso il suo numero, ho chiesto un po', ma non ci sono posti che conosco dove possa rimanere. Ho detto che se vengo a sapere qualcosa lo chiamo. So che se la cavera', se l'e' cavata per tutta la vita. Pero' che triste.

Ultimo saluto ai musicisti

Ieri concerto dei Gyazette. Non so perche' ci sono voluta andare, non l'ho capito. Ma ero li', nel Corner Bar, a sentirli suonare. Ovviamente ho incontrato gente, ho incontrato Christian, uno dei due musicisti che frequentavo assiduamente ai tempi in cui ancora uscivo con Orisha. L'avevo gia' incontrato circa un mesetto fa, ad un altro concerto, ma quella volta lui era stato molto distaccato. Mister K mi ha detto che e' perche' io ero con lui, e si sa che qui ai Caraibi e' sempre sconsigliabile parlare con una ragazza accompagnata. Triste verita'. Ieri sera e' stato piu' amichevole, anche se io non ho potuto non sentirmi in imbarazzo. Ci vedevamo sempre, e ad un certo punto basta, non li ho piu' sentiti, hanno smesso di rispondere alle mie chiamate. Tutto corrisponde a quello che mi ha detto Clarissa durante quel famoso pranzo che mi ha portata a giorni neri, in cui ho sentito che tutti mi stavano abbandonando. E invece non era vero, si trattava solo dei due musicisti.

Il secondo era Justin, che si e' appenatrasferito in Canada per sempre. So che non e' stato molto sensato, ma un paio di giorni prima della sua partenza gli ho scritto un messaggino. "Ho saputo che parti. Mi spiace che non ci siamo piu' sentiti, non ho mai capito perche'. Forse qualcuno ha parlato male di me? Comunque in bocca al lupo". Non ho mai ricevuto risposta. E Christian ieri sera ne ha parlato. "Justin mi ha fatto leggere il tuo messaggino, e' rimasto molto stupito, non si e' mai arrabbiato con te". E allora come mai da un giorno all'altro non si e' piu' fatto sentire, lui che mi contattava quasi tutti i giorni? Non mi ha piu' risposto? "E se ti riferivi a Orisha, guarda che lei ci ha solo detto che avete litigato ma non ci ha mai parlato male di te". Sara'. Allora perche' questo silenzio insensato e brutale? Non ho mai capito cosa volessero. Piu' di una persona mi ha detto che Christian aveva un debole per me, ma io non l'ho mai percepito. Percepivo molte piu' attenzioni da parte di Justin, invece. Ma non e' mai stato chiaro nulla, per me erano miei amici e punto.

Ho cercato comunque di godermi il concerto. Osservavo il cantante sgolarsi sul palco mentre sorseggiavo un'acqua di cocco. "Mi piace la sua musica" pensavo, "mi piace il personaggio. Cosi' selvatico, cosi' energetico, cosi' diabolico. Con questi occhi da pantera e tutti i nervi tesi e la voce graffiata". I musicisti sono grandi amici di questa band, la stanno aiutando ad emergere. Hanno passato mesi a registrarli e a cercare di produrli, il cd e' quasi pronto. Mentre ascoltavo e canzoni che ormai so a memoria mi e' venuta in mente quella lontana sera di fine maggio, la festa a casa di Justin nella sua villa con piscina, in cui il cantante-pantera e' venuto a parlare con me e mi ha invitata fuori a cena. Ci sarei andata, almeno per conoscere un po' meglio questo singolarissimo personaggio. Poi non e' mai successo, io sono andata in Costa Rica e la cosa e' sfumata li'. Forse i musicisti gli hanno detto che non valeva la pena.

lunedì 24 novembre 2008

Vela

Oggi ho la faccia tutta bruciacchiata. Ieri sono stata in mare tutto il giorno, su una barca a vela.

Una vera sailing class, con un maestro consumato dal sole, gergo tecnico (in inglese!) e una brezza leggera nel golfo di Paria. Una giornata lunga, chiara, illuminata dai riflessi del mare. Con Mister K, che io studiavo di sottecchi cercando di leggere se quel nuovo mondo di vento e di nodi gli stesse piacendo. Con Sissy e Caty, due ragazze europee con cui parlare e' cosi' semplice. E anche con Bran, ragazzo canadese amico di Terry di cui io avevo tantissimo sentito parlare, come lui aveva sentito parare di me, e finalmente ci siamo incontrati.

Montate le vele, inoltrati in mare. Tenuto il timone, fatti i bordi. Il maestro spiegava tutto, dalle tecniche da regata agli aneddoti da vita di mare. Noi gustavamo intensamente la ruvida semplicita' della vita all'aria aperta. Si alternavano giri di winch e giri di vento, vele, isole e sole bruciante. Silenzi salmastri, bicchieri di vino, orizzonti ondeggianti. Cime che bruciavano le dita, gambe che sporgevano dalla barca inclinata, piedi che sfioravano la superficie verde dell'acqua.

sabato 22 novembre 2008

Matrimonio

Ieri sono andata ad un lime di matrimonio. Due amici di amici che si erano sposati quel giorno, una cerimonia senza fronzoli, da celebrare con una festina semplice a casa dei genitori. La decisione di sposarsi era stata presa solo due settimane prima, sportivamente. Lui trinidino, lei australiana, vivono a Londra, erano qui in vacanza. "Perchè già che ci siamo non ci sposiamo?" "Massì dai, perchè no?" Detto fatto. E poi alla festa lui è arrivato in maglietta con maniche tagliate alle spalle e lei in shorts cortissimi e toppino punkettino. Erano belli così.

La festina è stata gradevole, da ritrovo di vecchi amici che si frequentano da tempo immemorabile. Qui i gruppi sono così. Gente che va avanti a vedersi dai tempi del liceo, sempre quelli. Gruppi basati su lustri di conoscenza e di storie comuni, da strati e strati di intrighi, flirt e pettegolezzi intessuti in anni di frequentzioni costanti.

Mentre ero lì pensavo che al di là delle differenze culturali ci sono anche tante cose comuni fra me e loro. A parte dettagli di superficie, quella poteva benissmo essere una festa italiana. Patatine, birre, il barbecue che fumava profusamente. Ragazze che chiacchieravano, ragazzi che ridevano. Un dj che mixavain un angolo. Solo una cosa in Italia non l'ho mai vista. Non ho mai visto gente a una festa mettersi a cantare in rap, improvvisando rime, lanciando strofe in free-style. Passandosi il microfono a vicenda per vedere chi componeva la storia migliore.

venerdì 21 novembre 2008

Stadio

Sono andata a vedere la partita. Trinidad e Tobago contro Cuba, qualificazione per i mondiali. Io che normalmente penso che il calcio sia soporifero, mi sono ricreduta. Era una bella serata calda e serena, cielo terso, brezzolina, un piacere stare all'aria aperta. Tutto intorno al piccolo stadio di Port of Spain migliaia di persone che camminavano in processione, vivaci ed eccitate, tutte vestite di rosso. Rosso come i Soca Warriors - la squadra nazionale di Trinidad and Tobago.

Una volta entrata, sono stata esposta ad abbastanza materiale umano da restare impegnata in osservazione per tutti i 90 minuti, a prescinedere dalla partita.

Per esempio. I venditori di birre e noccioline. Nessun rivenditore ufficiale, tutti li' con secchi pieni di bibite ghiacchiate e snacks che avevano comprato quel giorno al supermercato, per venderli al doppio del prezzo sui gradoni. Bellissimo il rastaman vecchio e rugoso coi capelli in dreaklocks lunghi fino al sedere, che gridava senza sosta "peanuts, cashewnuts!". Ad un minimo cenno lanciava in giro sacchettini di noccioline da prendere al volo. Poi gli acquirenti a loro volta facevano palline di banconote che gli lanciavano a parabola. E lui puntualente le intercettava, veloce come la lingua di un camaleonte.

E poi un altro personaggio fantastico, un giorave uomo bello e slanciato, vestito con abiti della nazionale dalla bandana ai lacci delle scarpe. Che per tutti i novanta minuti di gioco ha camminato in circolo intorno al campo trasportando un'enorme bandiera trinidina. Camminava come un principe, elegantissimo, dignitosissimo, non guardava la partita nemmeno di striscio. Come se tutto lo spettacolo di quella sera fosse lui, ed in un certo senso era lui. Ogni tanto decideva di correre per un giro o due, sempre con l'asta della bandiera in spalla, e lì davvero sembrava una visione, un bellissimo masai delle steppe africane...

La partita e' finita 3 a 0 per Trinidad e Tobago, ed e' impossibile descrivere l'euforia di tutti questi caraibici in festa. Birra, salti, grida, e l'immancabile musica soca che e' partita a volo sul finale... Che ci vuoi fare? Inimitabile Trinidad!

Polizia II

Io: "Hai ragione, la situazione del crimine e' terrificante..."
Tipo: "Si, e' peggiorata molto negli ultimi anni"
Io: "E non si intravedono soluzioni"
Tipo: "Beh... A dire il vero la polizia qualche misura la sta prendendo" (sorriso)
Io: "Scherzi? Ma se dicono tutti che la polizia e' un disastro"
Tipo: "Beh, diciamo che stanno prendendo misure drastiche. Hanno fatto fuori un sacco di criminali. Uccidendoli."
Io: "Oddio, si', anche io ho sentito queste voci. I cosiddetti community leaders?"
Tipo: "Esatto. Nesuno vuole piu' essere a capo di una gang di questi tempi. Troppo periocoloso. La polizia ti becca e ti uccide, senza arresto, senza processo".
Io: " Ma e' proprio certo che sia stata la polizia ad uccidere queste persone? Magari sono tutti morti perche' si sono massacrati fra loro".
Tipo: "No, e' stata proprio la polizia"
Io: "Come fai a saperlo?"
Tipo: "Lo so"
Io: "Non sono solo voci?"
Tipo: "Mi sono arrivate informazioni"
Io: "Da chi?"
Tipo: "Amici"
Io: "Amici nella polizia?"
Tipo: "Amici nella polizia che non sanno stare zitti. E' difficile tenere tutti sotto controllo. A volte le notizie trapelano".

giovedì 20 novembre 2008

Ospedale

Il caldo in Guyana e' diverso da quello di Trindad. E' un'afa tropicale senza vento, umida e stagnante, che attanaglia la gola. Non mi ero accorta di quanto fosse difficile da sopportare, il primo giorno. Ero troppo eccitata per pensare a inezie tipo il clima. Ed e' cosi' che mi sono disidratata. Ho cominciato a sentire le vertigini verso ora di cena, e sono riuscita a stento a mangiare al bel ristornate bordo-piscina che quel sabato sera era gremito del jet-set di Georgetown, per una festa revival anni ottanta. Ho bevuto tanto, ma era troppo tardi: quando siamo rincasati la nausea era fortissima. Verso l'una mi hanno portato in ospedale. E cosi' ho visto che aspetto ha un ospedale in Guyana.

Era una clinica privata, cioe' era come una clinica pubblica italiana. Non un gran che come infrastruttura, topi che entravano e uscivano (io per fortuna in quello stato non li ho notati), ma con personale motivato. Riuscivo a stanto a stare in piedi, il medico mi ha fatto qualche domanda di routine, poi mi hanno fatto un prelievo del sangue. E questa non e' stata una grande idea. Debole com'ero, l'operazione mi stava mandando direttamente allo svenimento, se non fosse che mi hanno prontamente messo i sali sotto il naso e sventolato fogli di carta per farmi aria. Avevo caldissimo, il panno bagnato sulla fronte era l'unica cosa che mi faceva pacere.

Nel mezzo di tutta questa eccitazione, sono entrati due ragazzi e una ragazza (e Mister K il giorno dopo mi ha detto: "Se tu ieri fossi stata un po' piu' consapevole, mi avresti detto: Guardali! Sono bellissimi! Tutti e tre..."). Bellezza a parte, erano tutti grondanti di sangue, avevano fatto un incidente. Magliette, capelli, gambe piene di sangue colante e raggrumato. Se fosse un po' piu' sensibile a queste cose di certo sarei svenuta in quel momento. In realta' non erano troppo gravi, solo brutti tagli e un butto aspetto. Erano ragazzi giovani, sui vent'anni, indiani dalla pelle chiara, alti, magri, dai fisici atletici. Hanno parlato concitatatmente dell'incidente tutta la notte, cercando di analizzare di chi fosse la colpa. Io sentivo una certa solidarieta' verso di loro, come se stessimo condividendo qualcosa.

Non e' stato molto facile ma ho raggiunto il lettino e mi hanno messo in vena la soluzione salina. Avevo la pressione bassissima, la minima a 44. Il mio corpo ha assorbito tutto il sacchettino di acqua, zucchero e sale, mentre il povero K e sua mamma aspettavano preoccupati, chiedevano spiegazioni sulle analisi del sangue, cercavano di farmi sorridere. La pressione e' risalita solo a 55, continuavo a sentirmi debolissima, dopo un po' ho avuto un colpo di freddo. Mi sembrava di essere al polo nord, battevo i denti e tutti i muscoli mi si contraevano spasmodicamente, non avevo il controllo su nulla. In quel momento ho avuto paura. Poi pero' ancora una volta Mister K ha trovato il modo di rimerdiare, ha trovato in giro di che coprirmi mentre le infermiere assistevano i ragazzi sanguinanti, e io mi sono ristabilizzata.

La mia "little hospital extravaganza", come poi e' stata definita, e' durata fino alle quattro del mattino, e poi tutto il giorno successivo sono stata seclusa nell'unica stanza con aria condizionata, al buio e a letto, bevendo litri e litri di acqua. Non ho ben capito da cosa sia stato causato tutto questo, ma propendo per incolpare l'antimalarica. In ogni, caso, dopo due giorni ero di nuovo in persetta forma. Pronta ad esplorare il paese dai grandi fiumi.

mercoledì 19 novembre 2008

Qui

Mi sono venuti gli occhi belli

martedì 18 novembre 2008

Equilibrista

Corda di un arco
che quasi si spacca
questo sottile filo dell'oggi
filo d'appiglio
che salva e che taglia
che mi protegge, scheggia e distrugge
tengo il fiato, oscillo piano,
tra gli abissi del prima e del poi
tutto ondeggia, io chiudo gli occhi.
su questo mare di petali e specchi.

domenica 16 novembre 2008

see-waal (sea wall)

Come ho detto la Guyana si trova sotto al livello del mare. Quindi lungo la costa, almeno di fronte alla capitale Georgetown, è stato costruito un muro che protegge la città dall'alternarsi delle maree e da possibili inondazioni. Il sea wall, o come dicono in Guyana see-waal. Col tempo il sea wall è diventato il punto di riferimento per la nightlife cittadina. Lungo tutta la sua lunghezza centinaia di persone si ritrovano, vi ci siedono, chiacchierano. Ci sono un sacco di bancarelle e musica e settimana scorsa c'era pure un gruppetto di steel pan. L'ambiente è sporco, puzzolente, colorato, festoso e rumoroso e fa venir voglia di stare fuori. E' un posto per tutti. Per i ragazzi come per le famiglie. Peccato che quasi nessuno si sieda a guardare il mare, se ne stanno tutti rivolti verso la città. Forse perchè si tratta di un mare piatto pieno di rifiuti di plastica, che non ispira molto alla meditazione. Però a me è piaciuto stare lì, camminare sopra a quello strano, lungo muro. Ne abbiamo percorso un tratto notevole, almeno un paio di chilometri. Andando a passo lento, io osservavo e assorbivo quello spaccato di Guyana. In lontananza, tremolavano le lucine del nostro ristorante.

Cascata

Certamente la cosa più spettacolare che ho visto in Guyana è stata la Kaiteur Waterfalls. Il singolo salto di calscata più alto del mondo. Duecentotrenta (230) metri a picco, in uno scroscio che lascia senza fiato. Si trova nella zona interna della Guyana, dentro la zona di foresta amazzonica che occupa la metà continentale del paese. Per arrivarci abbiamo dovuto prendere un aeroplanino piccolo, una quindicina di persone, e attraversare quarantacinque minuti di pura foresca vergine, intervallata solo da lussureggianti fiumi bruni. All'arrivo abbiamo fatto una passeggiata in mezzo alla foresta, scandita da detours in punti panoramici che davano una vista mozzafiato su questa enorme colonna d'acqua che cade perpendicolare per più di duecento metri in una polla profonda, per poi proseguire di nuovo sotto forma di fiume, nel mezzo di un'immensa valle verde. Noi ci sdraiavamo a pancia in giù su questi belvedere e ci inebriavamo della vertigine di quelle altezze. Lasciavamo cadere nel vuoto sassolini bianchi che scomparivano alla vista ben prima di toccare terra. Facevamo foto spiritose sul bordo del precipizio. Alla fine siamo arrivati proprio di fianco al getto della cascata, ne potevamo toccare l'acqua pochi metri prima del salto abissale. La potenza della natura ci si spiegava magnifica davanti, e noi eravamo talmente estasiati che non ci venivano più le parole.

Coca-cola water

L'acqua dei fiumi in Guyana viene chiamata black water. Perchè è nera. O meglio, color coca-cola. Coca cola davvero, nel senso che quando è tanta appare nera, ma nei getti d'acqua o sui fondali bassi appare nel suo vero colore, un rosso-aranciato molto intenso. La colorazione viene dalla vegetazione, e tutti i laghi sono così. Pultitissimi, pieni di acqua nera. I fiumi sono invece marroni, pieni di pigmenti, di fango e di vita microscopisca trascinata attraverso chilometri e chilometri nella foresta amazzonica. E anche l'acqua che esce dai rubinetti nelle case e nei ristoranti è marrone o rossa.

In qualche modo questa colorazione si adatta alla misterosità e alla mostruosità di questo paese, così selvaggio e indecifrabile. Nuotare nel laghetto freddo della riserva di Arrow Point, costruita al bordo di un affluente del fiume Demarara, mi ha fatto dapprima paura. Non vedevo assolutamente nulla. Poi però quando mi sono guardata le mani ed il corpo non ho potuto fare a meno di mettermi a ridere. Sotto la superficie dell'acqua diventavo magicamente tutta arancione!

Cuccioli di manatees

Poco al di fuori del giardino zoologico di Georgetown c'è uno stagno in cui vivono le manatees. Le manatees sono una specie di tricheco o leone marino, che nella declinazione delle Indie Occidentali corrisponde a un mammifero tenerone e pacifico che vive in acqua dolce, mangia fiori ed erba e che qualche volta si lascia anche accarezzare. Mister K ne va matto, e me le ha volute far vedere da vicino. Ci siamo andati un pomeriggio, il sole era rovente, l'aria era immobile. Le manatees sono timide, stanno a fior d'acqua e lasciano intravedere solo il naso. O se stanno mangiando la bocca, che si muove ritmicamente in superficie per mangiare le alghe. Non sono considerate un animale grazioso, anzi sono un po' goffe, in questo gran dimenare di mandibole mentre tutto il resto del corpo se ne sta sott'acqua. E proprio per questo per chi le ama sono di una tenerezza inedescrivibile. Cercavamo di attirarle, ma loro non si fidavano. Finchè non è arrivato un bambino, avrà avuto 9 anni, con la piccola divisa della scuola tutta sporca e lo zainetto rotto, che ci ha chiesto di comprargli uno snack.

"Uno snack, eh?", gli chiede K con aria fintamente burbera. "E che cosa vorresti, sentiamo". "Dei biscotti, o una limonata", risponde lui pronto, con l'aria di chi lo chiede a tutti i passanti che incontra. "Dei biscotti o una limonata... vediamo... tu le sai attirare le manatees?" "Sissignore" "Beh vediamo quello che sai fare", lo sfida K. Il bambino si sdraia sulla pancia al bordo dello stagno, e si mette ad agitare l'acqua e a fare dei versi come a chiamare dei gatti. E' tutto impegnato, tutto concentrato, ma le manatees continuavano ad avere paura. "Dimmi un po'", chiede dopo un po' Mister K, "ma tu non dovresti essere a scuola?". "Oggi si fa solo metà tempo". "Metà tempo, eh? Capisco..." dice K sdraiandosi accanto a lui, e cercando a sua volta di chiamare le manatees. Tra loro si stava costruendo una certa affinità, e io me ne stavo in disparte, con il mio vestitino verde e il mio cappello di paglia e il mio immancabile aspetto forestiero, cercando di non rompere il magico equilibrio che Mister K stava fabbricando. "Hai mai visto una manatee emergere dall'acqua e mordere qualcuno?, gli chiede K. "Le manatee non mordono!", risponde il bambino indignato. Mister K si mette a ridere, il piccolo sa il fatto suo.

"Beh, mi sa che stiamo antipatici alle manatees", dice K ad un certo punto. "Dai, vieni che ti compro un biscotto". Il bambino si alza di scatto e noi ci incamminiamo verso il chioschetto più vicino. "E allora dimmi, Shanti", dice K che nel frattenpo aveva imparato il suo nome, "che cosa hai imparato oggi a scuola?" Il bambino si ferma, tira fuori il quadernino tutto spiegazzato, e lo offre a K. Lui lo sfoglia, pensieroso. "Come si chiama la tua maestra?" "Miss Susan" "E' brava Miss Susan?" "Sì", risponde lui distratto. "Ma Shanti", incalza Mister K "l'ultima data che vedo scritta su questo quaderno è metà ottobre. Ci sei andato a scuola negli ultimi giorni?" "Sì...", farfuglia lui, e si mette a correre. Arriviamo al chiosco, compriamo dei biscotti e dei succhi di frutta. La signora del chiosco quando lo vede esclama "Sempre qui, 'sto ragazzino!". "Lo conoce, signora?". "Lo conosco sì, gira sempre qui intorno, questo discolo!" grida lei. Noi torniamo allo stagno, per chiamare le manatees. Mangiamo tutti insieme i biscotti, beviamo i succhi. Shanti ci racconta che da piccolo faceva il bagno nello stagno e le cavalcava. non mi sorprende che un bambino così selavitco e spigliatro scappi sempre dalla scuola. Mi chiedo che ne sarà di lui in futuro.

Le manatees non si avvicinano, e noi dopo un po' decidiamo che è ora di andare. Alzandosi, Mister K porge il sacchetto di prelibatezze al bambino, e poi cerca di fare un'ultima cosa per lui, un ultimo piccolo gesto per questo cucciolo arruffato. "Shanti, tu sei un bravo bambino?" gli chiede. "Sì", risponde lui. "E quando è stata l'ultima volta che qualcuno ti ha detto che sei un bravo bambino?". Shanti arrossisce. "Nessuno mi dice mai che sono un bravo bambino". "Beh, secondo me lo sei", gli dice fermo Mister K. "Per me tu sei un bravo bambino". Lui guarda in basso, pensoso, e afferra il sacchetto. Noi ci incammniamo e lui rimane a salutarci con la mano. Poi quando ripassiamo lo vediamo da lontano mentre gioca da solo, nel prato. Mentre fa le capriole.

Georgetown

La citta' non grande ma e' ampia, sparpagliata, dall'aspetto vagamente rurale. Tra una casa e l'altra a volte si aprono zone indistinte di prato incolto, in cui pascolano amabilmente gruppuscoli di mucche e capre, come se niente fosse. Il traffico e' sfrecciante. Macchine, maxi-taxi, biciclette e motorini. E tutti indossano questi fighissimi caschi vintage stile tedesco, di cui faro' incetta per i miei amici. Ma ogni tanto si vedono anche passare, nel mezzo di questa confusione terzomondina, carri trainati da muli e cavalli, che si annunciano con il loro strabilitante zoccolio. Le strade non hanno marciapiedi, e ai bordi delle case ci sono fogne a cielo aperto. Gli odori sono molti, diversificati, e tutti categoricamente nauseabondi. Inoltre essendo sotto al livello del mare ed essendo un tempo stata una colonia olandese, Georgetown ha preservato anche dei canali lungo le strade, tristemente sporchi e stagnanti.

Eppure, nonostante questi elementi di faticenza, non si puo' dire che la citta' abbia un aspetto triste. La decadenza si associa alla vitalita' del caribe. Non ci sono cinema, e' vero. C'e' un solo, antiquatissimo centro commerciale e tutto il resto sono negozietti pienissimi e maleodoranti dove pero' traffica un sacco di gente e dove si possono fare affari d'oro. La presenza rasta e' minore rispetto a Trinidad, ma i colori e la cultura musicale sono gli stessi, come si vede riverberare e si sente riecheggiare da ogni angolo di Georgetown. Il mercato e' una meraviglia di colori, le strade sono piene, tutto pullula di vita. Un po' come Port of Spain, ma piu' grande, piu' povera, piu' sguaiata. Piu' brulicante di attivita', di grida, di biciclette.

Oggi pomeriggio abbiamo passeggiato per ore ed ore nel dungeon maleodorante di town. Tra strepiti e musica, tessuti colorati e pattumiera, montagne di frutti esotici e barboni che brandivano coltelli. Passando carri colmi di verdure, bancarelle, negozi di parti di macchina usate. Sgusciando tra ragazzini rissosi, pescivendoli e cumuli di dvd pirata. Entrando in chiese di legno bianco, nei negozi cinesi, nel labirinto del vecchio mercato coperto pieno di marcellerie e bigiotteria. Io cercavo di catturare ogni particolare di questo putiferio di informazioni, mentre davanti ai miei occhi si schiudevano incessabilmente migliaia di imprevedibili, eccitanti sorprese.

sabato 15 novembre 2008

Essequibo

Eccola. Dopo un assopimento di settimane, e' tornata con violenza, a risvegliarmi a me stessa. L'eccitazione. Stavo seduta sul fondo di una barchetta azzurra, coperta col mio asciugamano per non ripararmi dal freddo. Viaggiavamo veloci verso Parika, nel silenzio della notte. Tutti sanno che non si deve viaggiare sul fiume di notte, si rischia di colpire qualche tronco galleggiante e rompere la barca. Non sarebbe bello trovarsi nel cuore della notte e senza motore nel mezzo di questo immenso fiume amazzonico circondato dalla giungla.

Non era colpa nostra. Noi avevamo prenotato un tour con un agente turistico dei piu' rinomati, ma qualcosa e' andato storto. Non hanno organizzato un bus tutto per noi, ne' un traghettino. Abbiamo preso "i mezzi", come si direbbe a casa. Cioe' maxi-taxi saettanti senza ammortizzatori e barchette di legno per risalire il fiume, e cara grazia che c'erano i giubbotti di salvataggio. E poi tutto il tour non ha rispettato la tabella di marcia, siamo tornati in ritardo. Ci siamo trovati letteralmente a fuggire dalla Sloth Island, l'isola dei bradipi, lembo di terra emersa in mezzo al poderoso Essequibo. Abbiamo fatto una corsa per tornare a Bartica, la citta' fondata dai pionieri cercatori d'oro che sia avventuravano nell'interno. Ancora oggi Bartica e' una cittadina con atmosfera da far west, dicono che ogni tanto arrivino banditi che la tengono completamente sotto ostaggio per qualche ora, il tempo di fare razzia di tutto e scomparire di nuovo nella foresta. Selvatico, no? Poi a Bartica abbiamo preso l'ultima barca che ci avrebbe portato verso casa, mentre il sole stava quasi per tramontare. Ovviamente essendo l'ultima speranza per tutti quelli che erano rimasti ci hanno ricattato sul prezzo. Quindici dollari USA al posto che dieci. E va bene.

E poi il viaggio, lungo più di un'ora, sulla barchetta blu. La notte che scendeva, la foresta che scorreva veloce di fianco a noi, punteggiata dalle case degli amerindi, con piccole rampe e canoe intagliate a mano parcheggiate davanti. Il fiume era grandissimo, largo chilometri. Non si vedeva neanche l'altra sponda, era tutto pieno di isole. E la notte scendeva, la barca andava veloce. Intorno a noi uomini grezzi, dell'interno. Un paio di brasiliani che arrivavano da Lethem, che parlavano con uno strano accento del nord. Gli altri locali, ossuti, barbuti, che strascicavano il loro quasi incomprendibile inglese guyanese. Mi chiedevo chi fossero, come mai stessero percorrendo l'Essequibo a quell'ora tarda, che tipo di vita conducessero. Piccoli commercanti? Lavoratori di fatica? Fuggitivi? Mi sono accorta che non sapevo immaginarlo. Il timoniere illuminava l'acqua qualche metro davanti alla punta della barca con una torcia a batteria, non c'era nemmeno la luna, era impossibile vederci qualcosa.

Stavo schiacciata sul fondo della barca, con la schiena tra le ginocchia di Mister K, avvolta dall'asciugamano. Sentivo le sue mani stringere i miei polsi ogni volta che passava un'altra barca, nella direzione opposta. Faceva paura. Potevano essere pirati fluviali? Avrebbero rubato i nostri dollari americani? La mia macchina fotografica? Il vento mi ingarbugliava i capelli, la notte era nera, noi eravamo vicinissimi tra questi strani viaggiatori della sera. E in qualche modo era bellissimo, era magico, era stupendamente liberatorio. Una situazione di libertà estrema, di avventura, di aderenza integrale al cuore pulsante della vita. "Sono giovane" gridavano i miei pensieri a briglia sciolta, "sono viva. E questo cielo nero sopra al fiume e alla foresta mi dice chiaramente che il mondo intero, il mondo intero mi appartiene!".

martedì 11 novembre 2008

Guyana: prime impressioni

Dopo mesi e mesi, sono finalmente uscita da Trinidad. Eccomi nella misteriosa, inconsueta, tenebrosa Guyana, per una settimana di esotica fuga. Cosa si sa della Guyana prima di arrivarci? Il primo paese della tripletta Guyana-Suriname-Guyana Francese che ci si chiede se esista davvero o se invece sia una burla dei geografi, tanto poco se ne sente parlare.

La Guyana e' un paese caraibico, non sudamericano. Si parla inglese, e come a Trinidad la popolazione e' mezzo africana e mezzo indiana, con la differenza che qui le tensioni etniche sono piu' forti. Il paese e' povero, costituito in gran parte da foresta Amazzonica e quindi pressoche' disabitato. E' sotto al livello del mare, e per questo fa un caldo umido, melenso e tropicale che fa svenire facilmente. Nulla a che vedere con il bruciore crepitante e ventoso di Trinidad. Le attivita' economiche sono essenzialmente due: la canna da zucchiero e il traffico di droga. E da questo gia' si capisce la schizofrenia del tessuto sociale.

La cosa piu' bella che ho visto finora in Guyana sono le case. Coloniali, chiare, articolate in portici di ombrosa eleganza. Parzialmente simili a quelle di Trinidad, con la differenza che qui molte costruzioni sono fatte interamente di legno, da cima a fondo. Un'impalcatura di legno, coperta di listelli bianchi di legno, sovrastata da un tetto colorato, sempre di legno. Sono strane, ariose, leggerissime. Sembrano modellini di case in miniatura magicamente trasformate a grandezza naturale. Alcune sembrano proprio quattro pareti in legno vuote dentro. Soprattutto quando passando in macchina si sbircia attraverso le finestre, si intravede una fila di ulteriori finestre sulla parete retrostante, e dietro a loro volta appaiono gli alberi. Inoltre molte case sono rialzate, a causa delle possibili inondazioni. Sembrano palafitte sulla terraferma. Oppure sembrano case normali il cui piano terra e' stato sventrato, e vi si puo' stare in piedi guardando la strada o sdraiati su un'amaca.

giovedì 6 novembre 2008

Death Lime

Quando si dice che i Trinidini amano la compagnia. Ecco una nuova usanza che ho scoperto recentemente e che mi ha indiscutibilmente sorpresa. Qui a Trinidad quando muore una persona, vuole la tradizione che si faccia una veglia funebre. Il motivo di questa usanza e' che nei tempi andati si era diffusa una malattia (me lo si perdoni, non ricordo quale) che paralizza l'infermo per giorni, tanto che sembra morto quando ancora non lo e'. Ergo, la lunga attesa prima di mettere il malcapitato sotto terra era tesa a verificare che il povero tapino, morto lo fosse davvero.

Ebbene, che veglia sia. Ma in versione caraibica, quindi niente musi lunghi. Appena la malattia e' scomparsa dall'isola, la tradizione e' stata spogliata del suo aspetto piu' nefasto: il cadavere e' stato prontamente tolto di mezzo. E' rimasto il lime, il raggrupparsi delle persone a casa della famiglia del defunto. Le condoglianze di gruppo, via. Facendo due chiacchiere, ricordando quanto era simpatico l'amico scomparso, bevendoci su una birretta fresca. Quasi quasi ti diventa una festa.

Ma a pensarci bene, perche' no? Quando moriro' io mi farebbe piacere che i miei amici organizzassero un bel death lime, brindando alla mia memoria. Con un buon vino italiano.

Divali

A fine Ottobre a Trinidad si celebra una festivita' indiana chiamata Divali. E' la festa della luce che vince sull'oscurita', e la si festeggia disseminando ovunque migliaia e migliaia di candeline. A dire il vero non si tratta propriamente di candele, ma piuttosto di piccole coppe semisferiche che raccolgono un olio speciale, nel mezzo delle quali di innalza una piccola miccia infuocata. Tutte queste luci vengono sparpagliate per i cortili, allineate sui davanzali e appoggiate sui balconi di tutte le case indiane. E in un istante, il paese si veste tutto di scintille d'oro vivo. (Picture courtesy of carnivalismas.blogspot.com)

Social butterfly revisited

Molto e' cambiato negli ultimi tempi a Port of Spain. Tutta la mia vita sociale, tutta la mia vita tout court (come direbbe il mio professore di storia del liceo) e' stata radicalmente ridimensionata. La mia attitudine, il mio modo di fare con la gente. Se in meglio o in peggio ancora non lo so, forse e' ancora da determinarsi.

Il cambiamento piu' apparente e' puramente quantitativo. Esco molto meno. C'era un tempo in cui uscivo tutte le sere, ma proprio tutte. Anche quando non ne avevo voglia, per paura della solitudine, per paura della noia. Ora e' il contrario, rifiuto gli inviti, non ho voglia di conoscere gente nuova. Sono nauseata da questi contatti superficiali, lo scambio di battute, dammi il tuo numero. Queste persone che vedi una volta o due, con cui non parli praticamente di nulla, tipo come-ti-chiami-dove-lavori-ma-che-interessante-le-nazioni-unite-ma-dimmi-un-po'-come macchina-aziendale-ti danno-un-carro-armato? Poi ti restano come "contatti", gente che incontrerai per strada o al bar o a una festa a caso e ti dara' un bacino sulla guancia e ti fara' un sorriso come se fosse una vera gioia rivederti e poi dopo trenta seconda gli argomenti saranno gia' esauriti allora-aspetta-un-secondo-che-mi-vado-a-prendere-una-birra, ti giri e poi non torni piu'. Basta.

Non faccio l'eremita, continuo a sentire e vedere le persone che mi piacciono. La scrematura estrema dell'orda di pseudoamici e communities di questo provincialissimo mondo trinidino. In cui la superficialita' e' dovuta perche' protegge dall'invasione voyeristica della propria vita privata. In cui si e' coniato il verbo "to lime" che vuol dire praticamente passare del tempo insieme senza diventare amici, senza scambiarsi nulla di vero. In cui l'autenticita' genera imbarazzo.

Ho tenuto quelle tre, quattro persone per cui nutro del rispetto. E pure dell'affetto, porca miseria. Non saranno molte, ma sono quelle giuste. E a me per adesso va bene cosi.

martedì 4 novembre 2008

Mamma

E' venuta la mamma!!! Partita stamattina presto, dopo un ultimo caffe' nel soggiorno di Wilma... Le ho fatto fare di tutto. Festa indiana per Divali con i miei amici, cenetta a Tamnak Thai e a Veni Mange, un giorno a Tobago tutto a Pigeon Point, i Caroni swamps, il week-end a Grande Riviere, il roti, il centro naturale Asa Wright con escursione nella foresta, un pomeriggio a Maracas, un viaggio in macchina attraverso la Northern Range, il bake and shark, Port of Spain by day and by night, un drink a Chaguaramas e una fuga a Maqueripe, un tuffo a las Cuevas e uno sotto una cascata. Alla fine era esausta! Stanca ma felice... Chi altro mi vuole venire a trovare?

mercoledì 22 ottobre 2008

Il culto di Shango IV


A quel punto della celebrazione, era ora di offrire del cibo a Shango. Mi avevano spiegato che lui poteva accettarlo o meno. Se lo avesse accettato, tutto sarebbe andato per il meglio. Non mi hanno detto cosa sarebbe successo se non lo avesse gradito.

Olio, bacche e semi erano sparsi sul pavimeno. Zollette di zucchero bruciavano negli angoli. Tutti noi tenevamo in mano candele colorate la cui cera si scioglieva lentamente sulle nostre mani, sui nostri vestiti. Al centro dello spazio quadrato si agitavano gli impossessati. Ricordo nitidamente una ragazza che indossava un vestito rosso con pallini bianchi. Aveva vagamente l'aria di un pagliaccio. Lei era una delle persone possedute in modo piu' violento, si agitava in modo terribile, danzava in modo vorticoso.

Non sapevo bene che fare, i miei conoscenti mi davano istruzioni che io seguivo senza battere ciglio. Quando mi hanno invitata ad entrare una seconda volta nella cappella, ci sono andata mio malgrado. Mi hanno fatto posare la candela sul pavimento, esprimere un desiderio. All'uscita ci siamo dovuti inginocchiare, e abbiamo camminato in ginocchio fin dentro al quadrato mistico. Faceva un po' male, e soprattutto non volevo toccare quel pavimento. Non sapevo se mi piaceva quello che stavo facendo. Le persone intorno a me si preoccupavano per me, non volevano che stessi scomoda. Mi hanno proposto di sedermi, ma in fin dei conti io ho preferito restare in ginocchio, comportarmi come tutti gli altri.

Dei piatti erano stati preparatoi per Shango. Piatti colmi d'olio con dei piccoli pezzi indistinti di carne o verdura infuocati. Uno dei posseduti si e' avvicinato al piatto, ha preso in mano i fuochi e li ha mangiati. Shango aveva approvato il nostro cibo.

L'olio continuava a essere sparso, gli altri indemoniati tuffavano le mani nei piatti e poi accarezzavano i volti degli astanti. Io speravo che nessuno accarezzasse me, ma una signora indemoniata con le mani gocciolanti ha imbrattato d'olio tutto il mio viso. Eravamo tutti lucidi e unti e con un turbante in testa e col cuore che batteva. Un'altra signora andava in giro con un piatto fondo colmo d'olio e lo dava da bere a tutti. Tutti bevevano dal bordo dello stesso piatto, decine di persone. Quando si e' avvicinata a me, io non ce l'ho fatta. L'ho guardata con aria terrorizzata e ho fatto cenno di no con la testa. Non riuscivo a bere olio crudo poggiando le labbra su quel piatto lurido. Lei e' rimasta un po' delusa, poi mi ha fatto il segno di una croce sulla fronte ed e' passata oltre, gia' dimentica di me.

Piano piano, la musica ha cominciato a scemare, la luce del giorno era ormai forte. Ognuno ha ripreso possesso del proprio corpo, non c'era piu' olio da spargere. Erano le sette, il rituale era finito, e noi ci siamo incamminati lentamente verso la macchina.

Il culto di Shango III

La seconda sessione della notte e' stata piu' animata, forse perche' dedicata espressamente a Shango. Ancora tamburi, ancora danze, ancora formule in lingue segrete ripetute in continuazione. Uncle Matthiew e' stato ri-posseduto, altri l'hanno seguito, molti sono andati in trans. Nel complesso, il tutto si e' fatto piu' intenso e febbrile e una certa tremenda spiritualita' si faceva di minuto in minuto piu' percepibile. Io venivo toccata in modo gradualmente piu' violento da quanto mi circondava.

Quando sono ritornata allo spazio celebrativo dopo aver preso una piccola pausa, non mi sono posizionata immediatamente alle spalle dei celebranti, dove stavano i miei conoscenti. Piuttosto, mi sono fermata per qualche minuto nello spazio di fronte, in modo da poter vedere piu' da vicino e piu' direttamente i movimenti di coloro che si erano stati posseduti. Mi sono messa ad osservare una donna anziana. Come tutti gli altri prima di lei, aveva gli occhi sbarrati e un'aria demoniaca. Danzava in modo violento e pareva che non fosse lei a dirigere i propri passi. Ho incrociato il suo sguardo per una frazione di secondo, e in quell'attimo ho pensato cio' avevo negato fino a quel momento. Che c'era davvero uno "spirito altro" dento a quel corpo di vecchia. Non era lei stessa, in una fase di trascendenza della propria personalita'. Non era lei stessa, presa dalla musica e dal ritmo e dall'auto-suggestiione fino a perdere il controllo del proprio corpo. Ne ho avuto un'impressione molto netta. C'era qualcos'altro che si agitava dentro di lei.

Ancora adesso non so cosa pensare, la mia formazione illuministica mi dice che si', si trattava di atto di grande portata spirituale che ha trascinato molti dei presenti ad un livello di contatto con se' stessi e con il proprio spirito che va ben al di la' della soglia del cosciente. Mi dico che si trattava di un viaggio ai confini della propria mente e della propria essenza di umani, come avviene in molti rituali religiosi. In fondo, tutti sanno che la sfera cosciente della mente e' una piccolissima parte rispetto a cio' che siamo davvero. Eppure in quel momento, in quell'istante di contatto di sgardi, sono stata certa che si trattasse di qualcosa di piu'. Che ci fosse un essere demoniaco dentro al corpo di quella donna, che la manipolava dall'interno come una marionetta...

La celebrazione ha raggiunto il livello piu' alto di intensita' verso l'ora dell'aurora. L'olio si spargeva a fiumi, il suo odore impregnava tutto. Ci hanno distribuito candele colorate e a piccoli gruppi siamo entrati scalzi in una picola cappella al lato dello spazio quadrato, con un altare, immagini della Vergine e altri oggetti magici. Mi dava fastidio stare a piedi nudi in quel posto, non avrei voluto toccare nulla. Dentro alla cappella di agitava una ragazza posseduta, ed era cosi' vicina che mi inquietava. Dentro di me speravo con tutte le mie forze che non si avvicinasse, che non mi guardasse, che non mi toccasse. Tutti ripetevano le loro formule, e io ne avevo paura.

Il culto di Shango II

Tre o quattro tamburi impartivano un ritmo serrato, vibrante e africano. Ragazzi agitavano maracas e aggiungevano una nota sabbiosa al ritmo delle percussioni. Donne, uomini e bambini in bianco si raccoglievano all'interno dello spazio quadrato e camminavano in circolo, in direzioni alternate. Al centro del cerchio giacevano alcuni oggetti magici. Il sangue nero dei partecipanti li spingeva istintivamente a muoversi al ritmo della musica. Io me ne stavo immobile, candida e Europea, seduta sulla panca che circondava lo spazio del culto, e osservavo con occhi sgranati tutto quello che mi accadeva intorno.

Lo Spirito non ha tardato a manifersarsi. Dopo una mezz'ora scarsa di danze, "qualcosa" si e' impossessata di Uncle Matthew, il padrone di casa. A quanto pare lui viene sempre posseduto per primo. Lui ha cominciato a danzare in modo strano, muovendosi come un demone, come un folletto. Io lo osservavo e pensavo che stava facendo finta, che si era allenato a muoversi a quel modo in anni di pratica. I tamburi continuavano a suonare, un sacco di gente si raccoglieva intorno al nostro spazio, donne accendevano candele e distribuivano zucchero. Uncle Matthew danzava vorticosamente, muovendo gli arti in modo angoloso, tenendo gli occhi sbarrati. Teneva in mano un machete, che appoggiava sulla testa e sulle spalle delle persone raccolte intorno a lui, senza smettere di danzare. Dopo un po' e' svenuto, e' stato raccolto ed e' stato con delicatezza dai suoi familiari, io mi chiedevo preoccupata cosa stesse succedendo. Joshua mi ha sussurrato all'orecchio: "Lo Spirito se n'e' andato".

I tamburi non hanno mai smesso di suonare. I piu' vecchi e saggi tra i partecipanti, quelli che custodivano al meglio la memoria degli antenati, gradivano formule spiritiche e magiche che poi tutti ripetevano ritmicamente, insistentemente, all'infinito. Chiamavano gli spiriti con frasi segrete in lingue africane dimenticate. L'atmosfera si inspessiva, io venivo incoraggaiata a battere le mani "Battile piu' forte!", per entrare a far parte del ritmo universale prodotto dai tamburi e dalle nenie incomprensibili che parevano preghiere.

Sempre piu' persone si disperdevano in quei ritmi, alcune sono andate in trans. Un uomo ha cominciato a muoversi convulsamente, febbrilmente, dolorosamente. Non riusciva a controllare il suo corpo, non si poteva arrestare. E poi lo stesso e' successo ad una ragazza, che mi ha particolarmente impressionata. E' crollata a terra, mentre il suo corpo subiva convusioni che parevano insopportabili. Si rotolava sul pavimento, velocissimiamente, sbattendo sulle gambe delle donne vicine. Sembrava un pesce fuori dall'acqua, sembrava avesse un attacco epilettico. Nel frattempo, i tamburi continuavano a battere, le maracas a vibrare. Quel ritmo incessante continuava ad influenzare la pulsazione del nostro cuore.

La cerimonia era interminabile, ricordo una grande stanchezza. Osservavo gli spiriti entrare ed uscire dalle persone, le guardavo danzare, le guardavo giocare con i coltelli, ungersi di olio. Varie fasi della notte corrispondevano a varie divinita', che venivano adorate attraverso vari oggetti. Maceti, coltelli, candele. Olio d'oliva veniva sparso ovunque, per terra, sulla fronte delle persone spiritate, sui loro piedi. Quell'odore oleoso si mescolava all'odore di capra in una combinazione nauseante, io mi sentivo esausta.

Io dal mio angolo riflettevo su quello che stava accadendo. Pensavo che il potere della ritmicita' stava suggestionando tutti. Che era impressionante vedere come la gente entrava in trans. Che era formidabile vedere come alcuni eletti raggiungessero uno stadio di incoscienza in cui parevano mossi da uno spirito demoniaco. Era un rituale primitivo, e io ne facevo parte. Era un'esperienza allucinante. Verso le quattro di notte ci siamo fermati per una pausa, e io sono crollata dal sonno e dal disagio.

Il culto di Shango I

Venerdi' notte sono stata a un rituale Orisha.

Orisha e' una religione caraibica, nata dalla fusione dei culti africani e il cattolicesimo. Siccome l'amministrazione britannica e coloniale proibiva agli schiavi africani di celebrare i loro culti animisti (provenienti principalmente dalla Nigeria e dall'Africa Occidentale), loro sono stati costretti a praticarli in segreto, mescolandoli a preghiere cattoliche e chiamando i loro demoni con nomi di santi. La religione Orisha e' presente in quasi tutto il continente americano, sotto diverse declinazioni. Si chiama Candomble' in Brasile, Santeria nel sud degli Stati Uniti d'America, Voodoo ad Haiti. A Trinidad ha mantenuto il nome originale: Orisha. E la principale divinita' si chiama Shango.

I culti Orisha avvengono di notte e sono piuttosto ermetici. Ogni tribu' li celebra in luoghi e tempi differenti. Quella a cui mi sono aggregata vive in un villaggio sperduto del centro di Trinidad e celebra una settimana di culto ogni anno ad Ottobre, per quattro notti consecutive, dal martedi' al venerdi'. I culti iniziano a mezzanotte e terminano verso le sette del mattino, e ogni notte si rende omaggio a una o piu' divinita'. Ogni notte si sacrifica un animale, normalmente un gallinaceo o una capra. Solo ogni quattro anni si uccide un bovino. L'ultima notte e' la piu' importante perche' e' dedicata a Shango in persona, e non avviene nessun sacrificio.

Siamo arrivati verso le undici in una casa di campagna gremita di gente. All'ingresso della corte c'era acceso un grande fuoco, e negli angoli del giardino c'erano piccole cappelle o spazi in cui si raccoglievano gli elementi utili al rituale (bottiglie, coltelli, bastoni e olio) in composizioni tanto affascinanti che mi sarebbe piaciuto estrarle e portarle direttamente alla Tate Modern di Londra. Tutto era impestato di un forte odore di capra, io temevo di prendermi qualche malattia e cercavo di decifrare la strana atmosfera che impregnava ogni cosa. Donne lavoravano febbrilmente in cucina per il ricevimento che sarebbe sguito alla cerimonia, e ogni tanto uscivano con vassoi colmi di fette di torta. Io non ho avuto il coraggio di toccare cibo.

Come tutti gli altri, ero vestita tutta di bianco. Indossavo una gonna ampia e lunga e una maglia fine. Una ragazza bellissima mi ha avvolto la testa in un turbante dorato, alla maniera africana. Quando mi sono vista allo specchio mi sono impressionata per quanto un semplice dettaglio potesse camabiare tanto radicalmente la mia immagine. Ovviamente ero l'unica persona dalla pelle bianca, e mi sentivo osservata alternatamente con simpatia e con sospetto. Tutto mi sembrava strano ed eccitante. Osservavo con impazienza lo spazio quadrato al centro del cortile all'interno della quale sarebbe avvenuto il culto. Mi chiedevo se sarebbero davvero comparsi gli spiriti demoniaci, se si sarebbero davvero impossessati dei corpi delle persone.

Verso mezzanotte, i tamburi hanno cominciato a suonare per chiamarci tutti a raccolta...

martedì 21 ottobre 2008

Community Leaders

Qui i capi delle gangs di delinquenti vengono chiamati "community leaders". In effetti sono dei leaders, nel senso che comandano loro. Della loro community, certo, del loro ghetto. Ma non solo. Questi capi hanno anche un certo potere quasi politco, nelle loro aree di dominio. Ne sono in qualche modo amministratori e rappresentanti. Nulla succede senza che loro lo vogliano. Le autorita' devono parlare con loro prima di poterci entrare. E poi ancora. Hanno un potere legale, dettano le regole, amministrano la giustizia. Avvengono tante efferatezze tra bande rivali, ma all'interno di un certo territorio i capi mantengono il controllo, e in un certo senso la sicurezza. Alcuni sono acclamati e venerati, sono visti come dispensatori di favori e di protezione. Donde la definizione di community leaders.

Qualche hanno fa il Governo ha deciso di fare una mossa furba. Ha chiamato i cosiddetti leaders a rapporto. Ha indagato su chi fossero, ha scritto loro una bella letterina, ha detto che li riconosceva come autorita' sul territorio e li ha invitati ad un incontro, tutti insime appassionatamente, con i media e tutto l'ambaradan delle visite ufficiali. Questi leaders, che nella maggior parte dei casi sono dei bulli semi-analfabeti e piuttosto suscettibili al plauso pubblico, vi ci sono precipitati. Fieri di essere riconosciuti come autorita' semi-ufficali nientemeno che dal Governo. Ci sono andati tutti, una ventina scarsa. Gli ufficiali li hanno accolti e fotografati. Non e' semplice vederli bene in faccia, normalmente. La visita ufficiale ha reso tutto piu' semplice, eccoli che sorridono alla macchina fotografica.

Tutto questo sara' successo tre anni fa. Da allora, chissa' come e chissa' perche', i community leaders sono stati tutti uccisi. Uno ad uno, con lentezza e precisione.

Dilemma

Sabato sera e' stato ucciso un ragazzo al Corner Bar. Non so se si capisce. Come dire che uno viene ucciso sabato sera sui Navigli. Ora la domanda e' questa. Io cosa faccio? Ci ritorno al Corner bar o e' meglio di no?

lunedì 20 ottobre 2008

Sex

Ieri non sono andata in ufficio. Ho passato tutto il giorno ad un workshop su Gender and Volunteerism organizzato per tutti gli UNV. Gli UNV attivi qui a Trinidad and Tobago sono molti, e la maggior parte proviene da paesi in via di sviluppo. Quindi il solo fatto di trovarsi attorno ad un tavolo con gente di tutti gli angoli d'Africa e ascoltare cosa loro abbiamo trovato culturally shocking a Trinidad e' stato a dir poco interessante.

A quanto pare la cosa che questi professionisti della Sierra Leone, dell'Uganda e della Nigeria hanno riportato come piu' scioccante in assoluto e' stata la mancanza di pudore delle persone. E' vero, questo e' un paese a soglia di sessualita' molto alta. La sessualita' si sente e vede ovunque. I dottori UNV si dichiaravano sorpresi del fatto che le pazienti entrassero nei loro studi e descrivessero con dovizia di particolari e linguaggio specifico i loro sintomi riguardo alle "parti private", come dicevano loro. Senza nemmeno arrossire un pochettino. E sono stati anche disturbati dal fatto che una ragazza minorenne non avesse nulla in contrario al fatto che il padre assistesse ad una sua visita ginecologica. Loro non lo volvano permettere, ma hanno dovuto cedere.

Per caso proprio domenica stavo guardando un video interessante sulla cultura Trinidina (o come dice Cristian, Trinitaria) chiamato "girls behaving bad in Trinidad". Un film di un'ora e mezza ininterrotta che mostra ragazze disinibite alle feste in preparazione al Carnevale. Si andava bel oltre al solito wining, che comporta lo strusciare ritmico del proprio sedere sul "davanti" di qualunque ragazzo, anche in trenini di tre o quattro persone. A partire da questa pratica di base alcune ragazze si danno in performance che lasciano davvero a bocca aperta, puro sesso con vestiti addosso. In piedi, sdraiati per strada, da davanti, da dietro, con la gamba arrotolata sul tipo, in braccio, a testa in giu'. Di tutto.

In realta' non si tratta proprio di una novita'. Avevo visto gia' molto con i miei stessi occhi, a feste varie. Ma in qualche modo vedermi il tutto condensato in un solo video e poi sentire i racconti scandalizzati del poveri dottori africani mi ha fatto ripensare a fondo alla sproporzione del potere del sesso su questa benedetta Isola.

venerdì 17 ottobre 2008

Lezione

Ieri ho avuto una conversazione che mi ha molto disturbata con Clarissa. Tanto che non pensavo di scriverne, come non scrivo di tutte le cose che mi toccano in modo molto profondo. Ma dopo ore di pensieri e rielaborazioni ne ho preso le distanze, e penso di poterla trasformare in un'altra lezione di vita che quest'isola, in modo spesso un po' crudele, mi sta offrendo.

A quanto pare girano brutte voci su di me. Nello specifico, gira voce che io sono una bugiarda. "La gente" non si fida di me. Questa "gente" non e' stata ne' numerata ne' nominata, dietro al paravento del "io non tradisco nessuno". E non serve esattamente uno psicologo per capire che una minaccia vaga fa ben piu' paura che una minaccia specifica. Specialmente quando e' articolata in frasi carine tipo "conta quanti amici e avevi all'inizio e quanti ne hai ora: forse c'e' qualcosa che non va", "guarda che me l'hanno detto in tanti", "oramai la tua reputazione ti precede".

Ecco il riassunto delle mie riflessioni in merito.

1. Bugiarda. E' questo che si dice di me. Le uniche bugie che posso aver detto sono piccole cose. Tipo "non posso piu' andare in spiaggia con te perche' sono fuori citta'" o "non posso uscire con te perche' non sto molto bene". Magari non era vero, ma mi pareva brutto fare il bidone. Qui il bidone lo fanno tutti, e forse lo reputano meno offensivo della piccola bugia di circostanza. Clarissa ha confermato. Si trattava in tutti i casi di piccole cose. Mai bugie maligne, mai bugie da stronza. Questo mi deve bastare per sentirmi con la coscienza a posto.
2. Qualche volta saro' pure stata sgamata. Magari quando ho detto che ero fuori citta' poi sono stata vista in giro da un amico dell'amico che poi glel'ha detto. Amen.

3. L'ambiente conta. Qui il mondo e' piccolo, la gente mormora. Parlare male della gente e' il passatempo piu' antico del mondo. E poi io sono il target perfetto. Ragazza. Straniera. Temporanea. Relativamente popolare, o almeno lo ero. La classica tipa che all'inizio tutti vogliono conoscere e con cui tutti sono gentili, e poi diventa facile capro espiatorio.

4. E poi un'ultima cosa, che non ho pensato da sola ma che mi e' stata fatta notare. Come ho spesso detto, qui ho sempre trovato piu' facile legare con ragazzi che con ragazze. Mi illudevo che con i ragazzi ci potesse essre un'amicizia normale, invece in un modo o nell'altro arrivava sempre il momento in cui capivano che non ero interessata e sparivano. Ho deciso allora di non andare in giro a sbandierare che avevo gia' qualcuno per la testa. Non negavano quando me lo chiedevano, non ho fatto nulla di attivo per nasconderlo, ma diciamo che non ne parlavo per prima. Per questi "amici" la verita' sara' saltata fuori da altre fonti, e avra' destato del dispetto. E forse e' a questo che pensano quanto dico che sono menzognera, non alle scuse per non andare agli appuntamenti...

E ora le conclusioni:

1. Basta bugie bianche. Non vale la pena nemmeno di sforzarsi a costruirle. Di' che non hai voglia di uscire. Tanto qui la gente e' insensibile, la sensibilita' viene solamente fraintesa.

2. La reputazione e' fritta? Un sano chissenefrega. Qui conto sulla punta delle dita di una mano le persone con cui ho avuto empatia da quando sono atterrata in Febbraio. Il resto erano solo "contatti", con cui mi sono trovata a uscire per non annoiarmi. E tra l'altro fra un po' me ne vado e chi li rivede piu', 'sta banda di cafoni?

3. L'avevo gia' osservato, me lo ripeto con vigore. Meglio soli che male accompagnati. Non cercare il riconoscimento negli altri, solo in quelle poche persone in cui hai stima. Non devi essere amica di tutti. Non devi piacere a tutti. Non devi lasciarti leggere da tutti. Tutelati. Sii meno trasparente. Sii meno espressiva. Non dire tutto quello che pensi. Non mostrare tutto quello che provi. Non devi essere interessata in tutti. I ragazzi fraintenderanno il tuo entusiasmo per qualcos'altro. Le ragazze non lo capiranno, saranno sospettose, lo troveranno strano. Mostrati distaccata, mostrati normale. Sii impermeabile, sii intoccabile. Risparmiati per chi sa come trattarti. Per chi non ti attacchera' semplicemente per lo sfizio di sentirsi potente. Per chi non scomparira' dalla tua vita appena scopre che non sei disponibile. Per chi non ti sputtanera' alla prima occasione, tanto per avere qualcosa di cui chiacchierare.

mercoledì 15 ottobre 2008

Buone nuove

Lui resta qui.

lunedì 13 ottobre 2008

Ladri

Stanotte verso le cinque vengo svegliata da delle voci. Grida e rumori. Voci di uomini, giovani, vicinissimi. E rumore di una macchina accesa, qui davanti al cancello, e piatti rotti. Mi alzo di scatto, saltogiù dal letto, sbircio fuori dalla porta della mia stanza. Vedo la luce accesa in soggiorno. Io l'avevo spenta, ne sono sicura. Ci metto un microsecondo a realizare. Merdamerdacazzomerda. Oddiomiodiodiodio. Ladri. Ci sono i ladri. Sono a casa da sola i questi giorni, Wilma è andata in Canada da sua figlia per cinque settimane. Avranno controllato la casa, pensano che sia vuota. Ci sono i ladri in casa!

Chiudo subito a chiave la porta della mia stanza. Prendo il cellulare. E' scarico, porca miseria! Mi guardo intorno, dove mi nascondo? Nell'armadio. Mi metto dentro. Oddio-oddio-oddio. Sono in maglietta e mutandine, se mi trovano così mi stuprano. Merda. Sto in silenzio, chiusa dentro. Continuo freneticamente a cercare di accendere il cellulare, senza riuscirci.

Mi chiedo se la porta chiusa desterà sospetti. Mi sento molto lucida, nonostante stia tremando. Mi accorgo che sto tremando solo quando tiro fuori la batteria del cellulare e la rimetto dentro, per vedere se si rianima un attimo. "No, anche la camera di Wilma è chiusa a chiave, e non c'è dentro nessuno. Penseranno che le porte sono tutte chiuse, in generale". Poi però rifletto. "In camera mia c'è il letto disfatto, capiranno che qualcuno c'è. Mi cercheranno e mi troveranno". Poi mi rassicuro da sola. "Potrebbe essere disfatto da ieri o da ierilaltro. Chi controlla la casa sa che spesso non dormo qui." Sono terrorizzata, mi shiaccio sul fondo buio dell'armadio.

Passa qualche minuto, non succede nulla.
Forse se ne sono andati.
Strano, non hanno neanche controllato le camere.
Forse sapevano cosa volevano, l'hanno preso e sono fuggiti.
Forse era qualcuno che conosceva la casa.
Mi pare di sentire dei rumori.
Sono ancora qui.

Penso. Se arrivano e mi trovano non li guardo in faccia, chiudo gli occhi per non essere una possibile testimone, alzo le mani e li prego di non ammazarmi. Ne parlavo ieri. Qui quando ti derubano ti ammazzano, meglio un testimone in meno che la coscienza pulita. Ci sono in giro tante di quelle armi e le pallottole costano poco. Le pallottole costano poco. Le pallottole costano poco. Questa frase continuava a riecheggiare nella mia testa.

Passa qualche altro minuto. Decido di uscire dall'armadio e cercare di ricaricare il cellulare. Ragiono in modo lucido e freddo. Non è troppo arrischiato? Decido di no. Se li sento forzare la mia porta mi ributto dentro. Mi alzo, vedo che la luce in soggiorno è ancora accesa. Sono ancora qui. Mi sembra di sentire rumori dalla cucina. Metto il cellulare in carica, al buio, tremando. Si accende. Penso che il numero della polizia sia 999, ma so che chiamare la polizia qui non serve praticamente a niente. Mi diranno che non hanno macchine. Mi diranno che non c'è nessuna pattuglia in zona. Ne ho parlato mille volte, con mille persone. Tutti mi hanno detto che la polizia non arriva mai. Decido che se devo fare una chiamata sola mi conviene chiamare K, lui poi chiamerà chi di dovere. Digito il suo numero, lo sveglio. "I'm hiding, there are thives at home, yes, now, right now, please do something", dico sottovoce. Appena attacco mi nascondo di nuovo. C'è poca aria,. So che se passa ancora qualche minuto senza che mi trovino probabilmente sarò salva.

Mi torna in mente la conversazione di ieri con Cristian, che mi ha detto che un giorno era entrato in un negozio di mattina presto al centro commericale e c'erano i ladri. Gli avevano puntato la pistola alla tempia, lo avevano legato insieme a tutti i commessi e al gestore del negozio. Mi ha descritto la situazione, la paura che ha avuto. Per fortuna ne era uscito illeso. Mi viene anche in mente anche la storia di Katrina, una signora che conosco che martedì è stata bloccata di fronte a casa sua, in un quartiere residenziale alle 3 del pomeriggio, era stata picchiata e derubata. L'ho vista 2 giorni dopo, ancora piena di lividi. Ovviamente avevano controllato i suoi orari, sapevano che stava tornando. "Come sanno che casa mia è vuota", penso con un brivido.

C'è silenzio, decido di uscire di nuovo per mettermi i jeans che sono sulla sedia. Penso ai movimenti che farò prima di uscire dal nascondiglio. Vengo fuori senza fare rumore, mi vesto, sistemo un attimo il letto in modo che a prima vista sembri fatto, per far credere che la casa è davvero vuota. Poi prendo una coperta e mi ci avvolgo nell'armadio, magari penseranno che sono una vecchia valigia. Penso in fretta. Penso che non sarò mai più a casa da sola. Neanche Clarissa c'era stata, a casa sua da sola. Aveva chiamato Orisha, "per compagnia e per sicurezza". Le ragazze bianche le controllano. Questa settimana hanno ammazzato due turisti svedesi a Tobago. L'anno scorso sempre a Tobago hanno ucciso l'amica italiana di Cristian, lui ci aveva parlato al telefono la mattina stessa. Le ragazze bianche le controllano. Le case vuote pure.

Dopo un minuto sento il rumore familiare della macchina di K che arriva sparata davanti casa. Sento bussare forte alla porta d'ingresso. Aspetto, non succede nulla. Cerco di capire se i ladri sono ancora in casa. Mi pare di no. Aspetto. Nulla. Bussano di nuovo. Non c'è più nessuno. Mi alzo, vado in soggiorno. Arrivo alla porta. Vedo che è chiusa, con tutti i luccheti chiusi. Come è possibile?

Sono sconcertata. Non era vero niente. Non ci posso credere, non ci sono mai stati i ladri, era stato un incubo. Voci sognate, così come i rumori. La luce l'avrò lasciata accesa io. Un incubo terribile e reale. Dio-mio-che-paura-che-ho-avuto. Apro la porta, esco di casa. In piedi davanti al cancello c'erano Mister K e Marlon - entrambi un fascio di nervi. Mi vedono uscire, mi chiedono all'unisono se sto bene. Io mi sento svenire. Prima di tutto per il rilascio di adrenalina. E poi per il dispiacere di averli spaventati a morte a causa di un trucco della mia immaginazione. Evidentemente tutta la paura accumulata in mesi di storie dell'orrore era finita direttamente nel mio inconscio. Clinicamente parlando, la perdita della capacita' di interpretare correttamente la realta' e' una delle possibili e piu' comuni manifestazioni di una situazione di stress prolungato.

venerdì 10 ottobre 2008

Curfew parties

Vediamo se così riesco a far capire cosa intendo per "cultura del Carnevale". Nel 1990 qui c'è stato un colpo di stato. Probabilmente l'unico evento politico degno di nota dall'indipendenza nel 1962. Il colpo di stato è durato pochi giorni ed è stato organizzato da un gruppo estremista islamico. Il che è stranissimo, perchè tra africani e indiani, gli islamici normalmente sono i più sottotono.

Comunque il dato interessante è che la gente ricorda due cose fondamentali del coup. La prima è che in televisione passavano sempre e soltanto La Sirenetta (sì, quella della Disney!). E la seconda è che c'erano i curfew parties, le feste del coprifuoco. Quando i terroristi hanno indetto un coprifuoco generale dal tramento all'alba, la prima cosa che i Trinidini hanno pensato di organizzare sono state delle mega-feste che durassero dalle 6 di sera alle 6 di mattina. Già era eccitante trovarsi in uno stato di simil-guerra. Ma vuoi mettere il divertimento di andare a una festa in cui è obbligatorio resistere fino al far del giorno?

martedì 7 ottobre 2008

La palude magica

Ci saro' andata un mesetto fa, ma il ricordo e' rimasto lucido e intatto nella mia mente come olio su tela. Gli swamps. Ovvero le paludi.

I Caroni swamps sono una grande palude pochi chilometri a sud di Port of Spain, che si visita su piccole barche di legno attaverso un intricato intreccio di rivoli verdi. Ci sono andata in gita domenicale con Lila e Mister K, e ne sono rimasta affascinata in modo infinatemtne superiore alle aspettative. L'inizio del nostro piccolo itinerario e' stato piu' o meno come previsto. La barca si spingeva lenta lungo il corso d'acqua circondato dalle mangrovie, c'era molta umidita' e pareva di essere protagonisti di uno di quei film stile Indiana Jones, in cui c'e' sempre una scena su un fiume tropicale. Ha addirittura piovuto, grossi goccioloni equatoriali, e noi tre ce ne stavamo stretti sotto la cerata, ridendo della nostra sfortuna metereologica. Poi pero' la pioggia e' cessata, e il paesaggio ha cominciato a modificarsi sotto i nostri occhi.

Senza alcun tipo di preavviso ci siamo ritrovati in un ambiente meraviglioso, che ci ha lasciato totalmente senza parole. Dietro un'ansa del piccolo fiume, si e' aperto un grande lago di palude, in cui la nostra barchetta piccolissima si sperdeva completamente. L'acqua era ferma e lucida, e rifletteva la foresta circostante in uno specchio perfetto. Tutto risultava magicamente e simmetricamente doppio. La Northern Range si vedeva in lontananza, verde e muschiosa. Piccole isole si rilazavano in mezzo all'acqua, brulicanti di vita e di foglie. Noi avanzavamo piano, lasciando nell'acqua un solco leggero che spariva subito, come se fossimo una barca fantasma, come se fossimo un ologramma.

La cosa piu' bella era il cielo. Grande, limpidissimo, aperto. Lo guardavamo da sotto, sentendoci schiacciati sulla superficie lucida dell'acqua. Era tardo pomeriggio, il celeste perfetto era striato di nuvole ampie e stracciate, inconsistenti e drammatiche. Cielo lontano e immobile, come un grande telo dipinto al confine di un'immensa cupola vuota. La luce era chiara, fresca, argentata. Il silenzio era impossibile. L'aria era immobile e pulita, sembrava che tutto fosse scolpito nel vetro. Si avvicinava l'ora del tramento, e la barca si e' fermata in un punto qualunque per una buona mezz'ora. Noi siamo rimasti in silenzio, ad ammirare il lento declinare della luce verso sfumature luminescenti d'oro e di rosa.

Ogni tanto quell'ambiente magico di acqua e di luce veniva solcato dagli scarlet ibis, uccelli simbolo di Trinidad e Tobago. Animali bellissimi, un po' simili ai fenicotteri rosa, con la differenza che sono un poco piu' piccoli e che - come dice il nome - sono scarlatti. Un rosso fiamma di una tonalita' irripetibile. Gli scarlet ibis tornano sempre agli swamps al tramonto, dopo essere stati per tutto il giorno alla ricerca di cibo in Venezuela. Ne abbiamo visti tantissimi, che volavano in piccoli gruppi allineati, rossi ed eleganti attraverso il cielo terso. Nessuno osava parlare, li puntavamo solo con il dito, appena ne vedevamo uno nuovo.

Ce ne siamo stati li', avvolti da quell'incantesimo, senza pensare a nulla. Lasciavamo solo che la sera si sviluppasse sotto i nostri sguardi attenti. Minuto dopo minuto, tutto si gonfiava di pigmenti dorati e di riflessi iridescenti.

lunedì 6 ottobre 2008

The Avenue

Era tanto che volevo scrivere un post sui baretti dell'Ariapita Avenue, il viale dei locali a Woodbrook. Ma ho preso la decisione soltanto durante la serata di addio di Lea, quando la avenue ce la siamo attraversata tutta, dall'inizio alla fine, sbirciando e esplorando uno per uno i bar della capiatale. Ognuno con la sua sfaccettatura, stile e pubblico, costituiscono un mix di ambienti e atmosfere che rappresentano molto accuratamente la diversità sociale dell'isola.

Abbiamo cominciato a More Vino. Forse uno dei posti più carini, dall'aria chic e internazionale. Si vende come posto raffinato dove bere un bicchiere di buon vino. A dir la verità non sono mai riuscita a trovare un vino accettabile a More Vino, anche se lo fanno pagare 50 TT a bicchiere. Ma per me vale comunque la pena di passarci qualche ora per l'atmosfera gradevolissima. Il posto è bello, ha una grande terrazza con pavimento di legno chiaro, piante curate e graziose decorazioni. Servizio perfetto, stuzzichini buoni, prezzi un po' rialzati, clientela solo bianca o facoltosa o finto-facoltosa, ma tutto sommato nemmeno troppo pretenzioso. Esauriti i nostri bicchieri (generosamente offerti da un anonimo del tavolino di fianco: deve essere un'abitudine nazionale...), siamo passate davanti a Satchmo, jazz-bar-ristorante ridicoulously expesive, più o meno sullo stesso stile. Il jazz è buono, il cibo meno.

Ci siamo fermate a Squeeze, uno dei miei posti preferiti. Quando lo dico non ci crede mai nessuno, perchè tutti si aspettano che una ragazza bianca e colta frequenti posti piu' pettinati, come i due appena descritti. Invece a tutti gli Europei piace Squeeze, perchè non è menoso e soprattutto perchè è molto alternativo, concetto che qui non esiste proprio. E' un localino piccolissimo (da qui il nome), in cui la clientela trasborda sempre sul marciapiede. Tutti stanno seduti su casse di bibite vuote, bevono birrette e se la contano su. Ah, dimenticavo. E' un bar gay.

Subito dopo ci sono i due locali più emblematici della Avenue, il Coco Lounge e il Cro Bar. Fa sorridere perchè sono uno davanti all'altro e basta girare lo sguardo di centottanta gradi per vedere la differenza di colore della gente. Red al Coco Lounge, black al Cro Bar. Il primo è un bel locale ricavato da una casa dall'architettura coloniale, con terrazza. L'ingresso si paga, la musica è un po' alta, è sempre pieno. E' un posto molto piacevole, esteticamente uno dei migliori. Se non fosse che ci va gente che vorrebbe tanto, ma tanto, essere bianca. Vi si percepisce lo sforzo collettivo dell'arrampicata sociale. Il Cro Bar è meno prezioso, più semplice. A me piace, ci sono andata qualche volta a bere qualcosa di pomeriggio. Ci sono grandi divani e tavolini all'aperto, atmosfera rilassata, spazioso e senza pretese. La sera però è un po' infrequentabile. Va bene che mi piacciono gli ambienti misti, ma di notte assume un'aria un po' losca. Centinaia di ragazzi - chissà perchè quasi tutti maschi - che bevono, parlano, ridono, e magari cominciano una rissa.

Dopo aver superato le colonne d'Ercole dei due bar rivali, ci siamo fermate ai chioschetti che vendono street food. Ci siamo fatte un bel bicchiere di corn soup, zuppa di mais assolutamente deliziosa che si vende ad ogni angolo. E poi ci siamo divise un po' di stuzzichini, resistendo alla tentazione di mangiare un kebab fatto al momento. Mentre ce ne stavamo sulle panchine ci chiedevamo come mai nel mezzo della notte ci fossero in giro tanti bambini, e commentavamo tristemente il ruolo minimale delle famiglie dei bimbi delle classi più basse. Poi siamo passate davanti al bordello cinese (ufficilmente un centro di massaggi), e abbiamo proseguito.

La avenue era quasi finita. Ci siamo spiente fino in fondo, giusto per vedere il Corner Bar. Un locale abbastanza nuovo dall'aria metropolitana, insolita attenzione al design, un bello spazio interno con divani neri in ambiente verde acido. Il proprietario è un barbone-capellone che fa personaggio solo per l'aspetto, il bar ampio luccica di bottiglie illuminate da sotto, le finestre enormi danno sulla strada come fossero vetrine. Il posto è bello, purtroppo la musica è sempre davvero troppo alta, tanto che l'unico modo per godersi la serata è comprare i drinks dentro e poi berli di fuori.

Per questo abbiamo deciso di ritornare un po' sui nostri passi, in uno dei locali che alla fine preferisco sempre: lo Shakers. Lo preferisco nonostate la musica anni ottanta, nonostante il servizio mediocre, nonostante (sic!) la clientela che vorrebbe essere bianca (e se si va il martedì sera è pessimo, si chiama socializers night e ci sono solo, ma solo bianchi). Ma alla fine mi piace sempre per un motivo molto semplice. Il posto è bello. Ricavato da una graziosissima casa coloniale tutta in legno dipinto di bianco. Circondato da un cortile fresco, riparato da una siepe folta, con qualche albero vivo, vero e palpitante di linfa verde. Punteggiato di tavolini e sedie sistemati in ordine casuale. Se si va un po' presto, quando ancora non è troppo pieno, vi si può respirare piano la notte fresca del Caribe.

domenica 5 ottobre 2008

Cena in casa

Quanto mi mancava, una bella cenetta in casa fra amici! L'atmosfera intima e privata dell'abitazione, un po' di buon vino, conversazioni interessanti. Non mi ero accorta di quanto mi mancavano finchè non ne ho fatte un paio qui a Trinidad, nelle ultime settimane. La cena in casa non fa parte della cultura locale. Nella cultura del Carnevale per divertrsi si esce e vive la notte fino all'ultima goccia, fino al primo raggio di sole.

Qualche tempo fa Sissy ha invitato me e Lea a cena. Si trattava di una lezione di cucina, ho insegnato loro a fare gli gnocchi. Ci siamo divertite un sacco, ne abbiamo fatti un casino. Abbiamo parlato, ci siamo raccontate, ci siamo confrontate sulle nostre sensazioni rispetto a Trinidad, all'ONU, al lavoro. Tre ragazze europee che reagiscono in modo simile a simili stimoli, con simile sensibilità. Molto rinfrescante. Peccato che gli gnocchi non siano venuti, le patate non andavano bene. Quando l'ho detto al cuoco Cristian si è messo a ridere, anche a lui la prima volta non sono venuti con le patate locali. E con Cristian abbiamo fatto la seconda cenetta, a casa di K. Una semplice pasta all'arrabbiata, delle bruschette, il gelato alla fine. Abbiamo apparecchiato in terra e abbiamo mangiato sul pavimento, a gambe incrociate, chiacchierado del più e del meno, sentendoci amici.

Venerdì invece è stato da Felix. Era tempo che diceva ai suoi amici che non ne poteva più di sfinirsi allo Zen tutti i santi weekend, che voleva organizzare una cena tra sole persone che hanno qualcosa da dire. Ha chiamato una coppia di suoi amici storici, Rashma e Sasha, più Terry (con la piccola Neena e Alastair a fine serata), Sissy, una ragazza dolce di nome Kimi e me (con Mister K a inizio serata). We clicked. Abbiamo parlato di politica, di viaggi, di società. Di noi, di lavoro, di arte. Seduti sui divani, in piedi in cucina, passeggiando nella veranda. Ci siamo detti a vicenda quanto è difficile creare situazioni di questo genere a Trinidad, quanto è difficile (anche per Terry e Rashma che sono Trinidine) trovare amiche femmine con cui non esiste rivalità, trovare amici maschi senza secondi fini. Ci siamo ripromessi a vicenda che il gruppo continuerà ad esistere. Casa di Felix sarà un punto di ritrovo. Se tutto andrà come vorrei, potrò dire di aver finalmente trovato delle persone con cui mi identifico.

Civilizzazione

In Italia il centro commerciale o shopping mall è percepito come un luogo funzionale. Un sacco di negozi messi insieme, con anche il supermercato, e un parcheggio grande annesso. Nessuno, tranne forse qualche sociologo, pensa che i centri commerciali siano dei posti con particolare fascino. Nessuno, tranne a volte i ragazzini di periferia che non sanno dove andare, ci trascorre il sabato pomeriggio come se fosse un parco di divertimenti. Qui a Trinidad sì. Mentre l'Italiano alla ricerca della vecchia bottega, del negozietto privato, del ristorantino tipico, il Trinidino va a pranzo con gli amici nello spiazzo bianco-lattiginoso dei centri commericali, dove innumerevoli tavolini di plastica sono circondati da ogni genere di fast food.

E' una mentalità a cui guardavo con disprezzo, come segno di progresso tardivo e di incivilizzazione. Inutile aspettarsi di trovare qui la raffinatezza europea. Il Trinidino considera eccitante il solo fatto di trovarsi in un luogo dall'apparenza moderna, che lo faccia sentire "civilizzato". In modo del tutto analogo, il Trinidino trascura il fantastico clima tropicale per rinchiudersi in bar e discoteche al chiuso con aria condizionata. Fa molto USA, immagino. Per questo motivo uffici e ristornanti sono sempre più freddi, e più sono chic più l'aria condizionata è sparata alta. I baretti coi tavolini di fuori si contano sulla punta delle dita, e non esistono posti dove ballare sotto le stelle, tranne forse uno nella più turistica Tobago. E poi ancora, sempre per sentirsi civilizzati, i Trinidnini stanno cominciando a vestirsi all'Americana. Non mi riferisco ai soliti pantaloni larghi da rapper, ma anche a giacche imbottite e stivali di pelle o di pelo alti fino al ginocchio. Col caldo che fa!

Certamente l'argomentazione della civilizzazione ha un grande peso. Però piano piano mi sono resa conto che dietro l'amore per lo shoping mall c'è anche qualcosa di più. Me ne sono accorta quando ho cominciato pure io, che i centri commericali li odio, a volerci andare. A non vedere l'ora di andarci, addirittura. Perchè contrariamente alla caraibica downtown, l'insipido mall per lo meno è un posto pulito. Ha il pavimento tirato a lucido. Senza nessuno seduto in terra tra i rifiuti che chiede l'elemosina. Senza musica alta, senza disordine. Senza uomini che ti mangiano con gli occhi ad ogni angolo, idipendentemente da come vai in giro vestita. E' un posto dove non è necessario stare all'erta, dove tutto, per una volta, è normale. E soprattutto, contariamente a tutto il resto della città, dentro ad uno shopping mall ci si sente al sicuro.

L'importanza del Carnevale

La cultura di Trinidad viene spesso definita "cultura del Carnevale". Cultura del bacchanal, parola tipicamente trinidina che non è necessaro tradurre. Ho già scritto in precedenza che in un anno senza stagioni e senza cambiamenti di clima il ritmo è scandito da quest'unico tremendo evento che coinvolge e sconvolge tutta la società, anche chi non vi partecipa. I primi eventi iniziano ad Agosto, e in seguito una serie di feste e occasioni si susseguono a distanza sempre più ravvicinata finchè, una volta che si è tolto di mezzo il Natale, non si fa altro che pensare e prepararsi alla grande orgia collettiva del Carnevale. In ufficio è stato già distribuito il calendario delle fetes, parola rimasta francese che indica le feste fino a notte inoltrata che precedono il Carnevale. Per tutto gennaio e febbraio ci saranno fetes ogni venerdì e ogni sabato. E negli ultimi dieci giorni ci saranno feste ogni singola sera, fino allo sfinimento.

Il Carnevale costa. I costumi sono carissimi, quelli semplici vengono tra i 350 e i 500 dollari americani, a seconda della band. E le fetes costano 50 USD a botta (ma con free drinks tutta la notte). Per questo le banche propongono i Carnival loans, prestiti espressamente finalizzati a vivere appieno il Carnevale, che vengono poi ripagati gradualmente durante il resto dell'anno. Alcuni decidono di non pagare l'affitto nel mese di Febbraio, altrimenti non ci stanno dentro. Spesso e volentieri i landlords capiscono e chiudono un occhio.

La preparazione al Carnevale è l'unica cosa che i Trinidini fanno per tempo, l'unica cosa in cui sono puntuali. Tutti prenotano i propri costumi con mesi di anticipo. Tutti si preparano scientificamente un programma di fitness per non sfigurare in bikini. Un mesetto fa volevo prenotarmi un costume in una delle bands di grido. Visto che non ho agganci che mi permettano di assicurami un posto, ho dovuto seguire la triste procedura di fare la corsa all'ultimo costume su internet. La band ha annuciato che avrebbe aperto le iscrizioni online il giorno 16 agosto, esclusivamente tra le 6 e le 8 di sera. Io alle 6 ero pronta, carta di credito alla mano, misure di vita-seno-fianchi espresse in pollici annotate diligentemente sul quaderno. Io lo giuro, ho provato a cliccare più velocemente possibile. Ma ciononostante non ce l'ho fatta. Alle 6:10 era tutto esaurito.

lunedì 29 settembre 2008

Beheaded

La polizia a Trinidad fa paura. E' corrotta e incapace per il singolo cittadino. E' istigatrice di ulteriore violenza per i criminali. Qualche mese fa un amico di un amico di un amico ha sparato a un poliziotto. Il poliziotto era andato a trovare la sua amante, e l'aveva trovata a letto con questo. Si e' arrabbiato e gli ha puntato la pistola di servizio. Il ragazzo ha reagito, ha lottato, e' riuscito a prendere l'arma, a ferire il poliziotto e scappare con la pistola. La settimana scorsa e' stato trovato morto. Decapitato. Non e' una cosa che si vede tutti i giorni, neanche a Port of Spain.

Certo, non si puo' dire con certezza che sia stata la polizia, ma diciamo che non e' da escludere. La decapitazione e' una misura un po' eccessiva, ma magari e' stato fatto per depistare le indagini. O magari e' andata in un altro modo, ancora piu' comodo per l'agente in uniforme. Il poliziotto potrebbe aver scoperto a quale gang appartenea il ragazzo, ed essere andato a istigare i rivali. Succede spesso, la polizia lascia volentieri che si ammazzino fra loro. A volte basta un incoraggiamento e una promessa di non perseguire gli assassini. A volte li pagano pure.

Cuochi

Il cuoco di Piero si chiama Alee. Alee e' un bel ragazzo rasta afro-americano, che viene da Washington DC. E' arrivato a Trididad con la sua giovane moglie, anche lei rasta, una bellisima mulatta. Hanno due slendidi bambini, lei di 10 anni, lui di 9. Con la pelle d'oro, gli occhi vivaci, e lunghi rastini selvaggi che gli cadono sulle spalle. Tutta la famiglia sta da Piero nel week-end, mentre in settimana i gentori lavorano e i figli vanno a scuola in citta'.

Stavamo bevendo una bottiglia di vino rosso buona (che rarita' a Trinidad!) nella sala coi portici sulla spiaggia, e ascoltavamo una conversazione culinaria. C'era fra noi anche Christian, un ragazzo italiano simpatico e sensibile che dopo una serie di traverie si e' trovato capo-chef di Prime, il miglior ristorante dei Caraibi, qui a Port of Spain. Alee e Christain chicchieravano di nuovi progetti, cose da fare insieme. Era bello starli a sentire, cosi' appassionati del loro lavoro. Alee ci aveva appena preparato delle tartine con burro di frutto della passione e pesce con polenta. Tutto delizioso, e tutto generosamente offerto da Piero, come fossimo vecchi amici. Alee diceva che il suo progetto per la cucina di Piero era di far venire fuori, in modo quasi socratico, tutto il potenziale delle talentuose ma poco raffinate cuoche locali. Bastava introdurre un piccolo tocco esperto ai loro piatti tradizionali, e tutto sarebbe stato perfetto.

Alee e' partito nel pomeriggio con tutta la sua tribu'. Christian invece e' rimasto con noi, e in poche ore siamo diventati amici. Abbiamo nuotato, abbiamo bevuto, abbiamo guardato il tramonto sul mare tutti insieme. Abbimao riso e abbiamo parlato. E' stato un bellissimo pomeriggio, nessuno di noi voleva tornare a casa. Stavamo facendo i bagagli promettendoci di vederci presto, quando e' arrivata la telefonata di Piero da Port of Spain. "Ragazzi, restate una notte in piu', mi siete tutti simpatici. Restate senza pagare, cosi' ci vediamo quando torno. E poi domattina faremo colazione insieme all'alba, prima che partiate per andare a lavorare a Porto di Spagna". Cosi' e' stato, e abbaimo passato una serata inattesa e regalata giocando a trini-briscola e guardando le stelle...

Baby turtles

Siamo scesi per cena troppi tardi, la cucina era gia' chiusa. Piero ci ha offerto un po' di gelato di cocco fatto dalla sua cuoca, e ci ha parlato della vita a Grande Riviere. La nostra chiacchierata e' stata interrotta da Dave, un uomo silenzioso che ha appena cominciato a lavorare per lui. In realta' Piero non aveva bisogno di personale, ma Dave e' arrivati e ha chiesto lavoro. Piero ha risposto che non ne aveva bisogno, ma lui si e' esso a lavorare lo stesso. Alla fine della giornata, Piero gli ha detto va bene. Resta quindici giorni e poi vediamo cosa si puo' fare. Dave sta con lui da tre giorni, non parla quasi mai, se ne sta nella sua stanzetta e lavora tanto. Ieri ha portato su le sue diue bambine, due negrette piccolissime. E lui se ne va in giro per il portico tenendole per mano, tutto orgoglioso.

Non voleva interromperci, ma non ha potuto farne a meno. "There are one hundred baby turtles on the beach!", ha esclamato concitato. Grande Riviere e' una delle spiagge al mondo in cui arrivano piu' tartarughe a deporre le uove. Ora siamo fuori stagione, e per questo non ci sono ne' guardie ne' turisti. Ma mentre le mamme stanno al largo, le uova si schiudono, e le piccole tartarughine cominciano la loro corsa verso il mare... Piero gli ha subito detto di prenderne piu' che poteva, di metterle in un secchio. Ce le ha fatte vedere, erano piccolissime e bellissime, potevano stare sul palmo di una mano. E' incredibile pensare che quelle che sopravviveranno diventeranno degli animali enormi, pesanti centinaia di chili e lunghi quasi due metri.

Dopo averle osservate per un po' siamo andate a metterle in mare. Le abbiamo depositate delicatamente sul bagnasciuga, e con la luce dei cellulari le abbiamo attratte verso le onde. Era buffo vedere come ci seguivano, si precipiatavano a rotta di collo verso la luce, poi quando vedevano le onde grandi si spaventavano e tornavano indietro. Alla fine ce l'abbiamo fatta, le tartarughine sono andate in acqua. E noi ci siamo sentiti per un attimo come dei piccoli eroi.

Piero

Piero era un fotografo. Si faceva spedire ai quattro angoli della terra, 2-3 settimane alla volta, e fotografava. Non era facile in una ventina di giorni scarsi riuscire ad immergersi in una realta' completamente etsranea, comprendere una situazione geopolitica complessa, immedesimarsi in un luogo e in un popolo sconosciuti, e riuscire a racchiudere tutto in una fotografia, uno scatto, un'istante catturato alla realta'. E non era facile viaggiare vorticosamente, accompagnando ogni volta un giornalista diverso, in un turbinio di colori-odori-sapori-concetti nuovi senza nessuno con cui condividerli. Ma Piero era un professionista, lavorava per un'agenzia francese che serviva Panorame e L'Espresso, il Times Magazine, Le Figaro e chi piu' ne ha piu' ne metta. Un professionista instancabile. Fin quando non ha messo piede a Trinidad.

Piero e' arrivato a Trinidad quidici anni fa, per fare un servizio di fotografie-ritratto al premio Nobel per la Letteratura Derek Walcott per Marie-Claire. Ha fatto un giro alla punta nord-est dell'isola, dove si incontrano il Mar dei Carabi e l'Oceano Atlantico. Ha attraversato i villaggi di Toco, Sans Souci, Monte Video. E' arrivato a Grande Riviere, un paesino di trecento anime con una bella spiaggia pulita e deserta dove sfociava un piccolo fiume lento e con tutto intorno la foresta. E li' si e' fermato.

Piero ha costruito un meraviglioso albergo sulla spiaggia, talmente i armonia con l'ambiente che sembra che sia emerso dalla sabbia insieme ai mandorli e ai gigli selvatici. Rustico, semplice, di buonissimo gusto. Con una grande sala tutta apera ai lati, circondata da portici che incorniciano l'orizzonte marino in quadri viventi. Tavoli di legno fatti fare da lui, arte locale alle pareti, pavimento in pietra su cui si cammina a piedi nudi. Le camerette sono carine e spartane, ognuna di un colore diverso, con tante finestre e pezzi sparsi di artigianato locale. Tutto intorno ci sono alberi piantati da lui, in uno stile apparentemente casuale, naturale, che rispetta il carattere rigoglioso della natura caraibica. Fiori e frutti ovunque. E ovunque ci sono statue e totem di legno che emergono ironicamente tra le foglie, come grossi funghi. La sintesi perfetta tra arte e natura. Tantoche una volta il suo albergo e' stato usato per un ritiro di un gruppo di artisti, che come ringraziamwento per l'ospitalita' si sono lasciati alle spalle un sacco di murales sulle pareti delle stanze, dentro le docce, dietro le porte.

Deve essere stato difficile fermarsi qui, dopo una vita di viaggi con base a New York. Stare a Grande Riviere tra gente semplicissima, con un'esperienza di mondo che spazia al massimo una ventina di chilometri. Costruire tutto da solo, renderlo bello, utilizzare solo materiali naturali, non usare nessun pesticida, mantenere l'habitat intatto. Deve essere stato difficile farsi accettare come straniero nella comunita' locale, senza venire isolato ma anzi essendo amato e rispettato. Tutti lo adorano, al villaggio. Lo considerano un saggio, alcuni quasi lo trattano come un padre. Deve essere stato difficile passare da una vita di liberta' totale alla responsabilita' morale di essere un punto di riferimento per un villaggio intero, in una qualunque isola caraibica...

Appena siamo arrivati a Mt. Plaisir Piero ci ha fatto vedere i suoi alberi, ci ha fatto assaggiare i suoi frutti. Uno grande e giallo chiamato golden apple. Delle castagne tropicali, delle piccole prugne. Ci ha portato a vedere il suo terreno, dove si sta piano piano costruendo una casa nella foresta con un balcone talmente enorme e piatto e non-finito che mi sembrava di essere in una casa sugli alberi. Ci ha fatto vedere la sua serra, dove coltiva basilico e prezzemolo, cavoli e insalata e frutti diversi di tutto il mondo. Ogni tanto qualcuno gli porta una pianta nuova, e lui la mette nel suo giardino. Proprio l'altro giorno ha scoperto che uno di questi alberi ha dato luce ad un frutto nuovo, che non esiste nei manuali di biologia. Un frutto grandissimo con polpa densa e arancione, dal sapore misto tra mango e pesca. Ne fara' dei buonissimo frullati.

Alla fine del nostro giro Piero ci ha guidato attraverso un sentierino tortuoso, con l'erba alta fino al ginocchio, fino all'ansa del fiume. Ci siamo tuffati nell'acqua fresca, mentre si avvicinava la sera. Gli aberi intorno erano gia' neri d'ombra, mentre il cielo era ancora azzurrissimo con nuvole bianche, come in quadro di Magritte. Quando siamo usciti tutti gocciolanti lui mi ha guardato con gli occhi che ridevano e mi ha detto: "Hai capito adesso perche' ho deciso di stare qui? Per tutto questo!"