sabato 15 novembre 2008

Essequibo

Eccola. Dopo un assopimento di settimane, e' tornata con violenza, a risvegliarmi a me stessa. L'eccitazione. Stavo seduta sul fondo di una barchetta azzurra, coperta col mio asciugamano per non ripararmi dal freddo. Viaggiavamo veloci verso Parika, nel silenzio della notte. Tutti sanno che non si deve viaggiare sul fiume di notte, si rischia di colpire qualche tronco galleggiante e rompere la barca. Non sarebbe bello trovarsi nel cuore della notte e senza motore nel mezzo di questo immenso fiume amazzonico circondato dalla giungla.

Non era colpa nostra. Noi avevamo prenotato un tour con un agente turistico dei piu' rinomati, ma qualcosa e' andato storto. Non hanno organizzato un bus tutto per noi, ne' un traghettino. Abbiamo preso "i mezzi", come si direbbe a casa. Cioe' maxi-taxi saettanti senza ammortizzatori e barchette di legno per risalire il fiume, e cara grazia che c'erano i giubbotti di salvataggio. E poi tutto il tour non ha rispettato la tabella di marcia, siamo tornati in ritardo. Ci siamo trovati letteralmente a fuggire dalla Sloth Island, l'isola dei bradipi, lembo di terra emersa in mezzo al poderoso Essequibo. Abbiamo fatto una corsa per tornare a Bartica, la citta' fondata dai pionieri cercatori d'oro che sia avventuravano nell'interno. Ancora oggi Bartica e' una cittadina con atmosfera da far west, dicono che ogni tanto arrivino banditi che la tengono completamente sotto ostaggio per qualche ora, il tempo di fare razzia di tutto e scomparire di nuovo nella foresta. Selvatico, no? Poi a Bartica abbiamo preso l'ultima barca che ci avrebbe portato verso casa, mentre il sole stava quasi per tramontare. Ovviamente essendo l'ultima speranza per tutti quelli che erano rimasti ci hanno ricattato sul prezzo. Quindici dollari USA al posto che dieci. E va bene.

E poi il viaggio, lungo più di un'ora, sulla barchetta blu. La notte che scendeva, la foresta che scorreva veloce di fianco a noi, punteggiata dalle case degli amerindi, con piccole rampe e canoe intagliate a mano parcheggiate davanti. Il fiume era grandissimo, largo chilometri. Non si vedeva neanche l'altra sponda, era tutto pieno di isole. E la notte scendeva, la barca andava veloce. Intorno a noi uomini grezzi, dell'interno. Un paio di brasiliani che arrivavano da Lethem, che parlavano con uno strano accento del nord. Gli altri locali, ossuti, barbuti, che strascicavano il loro quasi incomprendibile inglese guyanese. Mi chiedevo chi fossero, come mai stessero percorrendo l'Essequibo a quell'ora tarda, che tipo di vita conducessero. Piccoli commercanti? Lavoratori di fatica? Fuggitivi? Mi sono accorta che non sapevo immaginarlo. Il timoniere illuminava l'acqua qualche metro davanti alla punta della barca con una torcia a batteria, non c'era nemmeno la luna, era impossibile vederci qualcosa.

Stavo schiacciata sul fondo della barca, con la schiena tra le ginocchia di Mister K, avvolta dall'asciugamano. Sentivo le sue mani stringere i miei polsi ogni volta che passava un'altra barca, nella direzione opposta. Faceva paura. Potevano essere pirati fluviali? Avrebbero rubato i nostri dollari americani? La mia macchina fotografica? Il vento mi ingarbugliava i capelli, la notte era nera, noi eravamo vicinissimi tra questi strani viaggiatori della sera. E in qualche modo era bellissimo, era magico, era stupendamente liberatorio. Una situazione di libertà estrema, di avventura, di aderenza integrale al cuore pulsante della vita. "Sono giovane" gridavano i miei pensieri a briglia sciolta, "sono viva. E questo cielo nero sopra al fiume e alla foresta mi dice chiaramente che il mondo intero, il mondo intero mi appartiene!".

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