giovedì 31 luglio 2008

Siriani

La cosa sorprendente di questa storia non e' il suo contenuto, ma il fatto che me l'abbiano raccontata tre persone diverse, che non si conoscono fra loro, in tre diversi momenti. Questo dice quanto questo episodio abbia inciso sulla memoria collettiva dell'isola.

C'e' stato un momento in cui a Trinidad andavano di moda i rapimenti. Con tutta la gente ricca che c'e', ci vuol poco ad avere la brillante idea di rapire qualcuno e chiedere un riscatto. Un cugino di un mio amico che viene da una famiglia facoltosa e' stato rapito l'anno scorso, aveva 20 anni. Me lo raccontava come fosse una cosa tutto sommato normale. "L'hanno tenuto una settimana, non so quanto abbia dovuto pagare mio zio per il riscatto, ma sicuramente un sacco di soldi. Spero solo che non l'abbiano toccato".

In questa girandola di sequestri, qualche ingenuo ha avuto l'idea di rapire la figlia di un potente Siriano. I cosiddetti "Siriani" sono la minoranza mediorientale di Trinidad, che in realta' comprende anche un buon numero di libanesi. Seguendo il loro innato intuito commerciale, si sono inseriti nella societa' Trinidina aprendo piccoli negozi di stoffe, e piano piano si sono estesi fino ad appropriarsi di praticamente tutti i grandi business dell'isola. Piu' o meno leciti. Oggi sono loro che tengono in pugno l'immenso traffico di droga, di armi e di esseri umani. Che gestiscono il fiume di denaro sporco che passa per l'isola.

I Siriani sono l'equivalente Caraibico della mafia: potente, ricca, spietata, e costruita su stretti vincoli di lealta' famigliare. Non si mescolano con nessuno, vivono come una casta separata. Vanno in giro con macchine dai vetri scuri e non si fanno mai vedere mai in giro. Ho fatto anche un syrian-tour, tempo fa. Mister K mi ha portato in macchina nei quartieri dove abitano per farmi dare un'occhiata alle loro ville, di una sontuosita' raccapricciante. A Newtown, a Cascade, in tutta la zona Ovest di Port of Spain in direzione di Chaguaramas. Sono moltissime, enormi, con piscine, colonne, parchi, guardie armate ai cancelli.

Ebbene, qualcuno tempo fa ha avuto l'idea di rapire una ragazzina appartenente ad una potente famiglia siriana. Non e' stato un colpo di genio, per cosi' dire. Non solo l'hanno dovuta rilasciare. Ma nei giorni successivi i rapitori in fuga sono stati scovati, uno ad uno, e brutalmente assassinati dai 'bravi" del signorotto.

Pirati

Oltre la punta nord-orientale di Trinidad ci sono delle piccole isole sparse che si protendono verso la costa del Venezuela. La gente ne parla dicendo "down the islands". Sono isolette brulle, non ci abita praticamente nessuno, c'e' solo qualche villa di qualche ricca famiglia Trinidina che ci va nel fine settimana. Mi piacciono tantissimo i loro nomi, ancora ispanici o indigeni: Hevos, Monos, Gaspar Grande, Chacachacare.

Ieri il musicista mi ha raccontanto una storia bellissima. Mi ha detto che l'ultima isola, quella piu' vicina all'America del Sud, l'isola piu' bella e piu' incontaminata, quella su cui non ci va mai nessuno. L'unica in cui non c'e' nemmeno una villa, c'e' solo una chiesetta antica e un antico ospedale e un lazzaretto. L'isola dal mare piu' azzurro, come Tobago. Apparteneva, tanto tanto tempo fa, alla sua famiglia.

Un suo antenato spagnolo era un pirata. Era stato mandato dalla Spagna, che a quel tempo controllava Trinidad, ad impadronirsi dell'isolotto. Lui ci era arrivato col suo galeone e l'aveva conquistato, e ancora adesso ci e' seppellito il suo corpo e quello di tanti altri membri della dinastia piratesca. Poi sono arrivati gli inglesi, che a quanto pare hanno soffiato alla famiglia il controllo di quel piccolo scoglio selvaggio, facendogli firmare un intricato documento con clausole a lettere piccoline.

mercoledì 30 luglio 2008

Sveglia

Stamattina sono stata svegliata dallo scroscio di un acquazzone tropicale. Ho aperto gli occhi nella mia stanzetta blu cobalto e verde acido, gia' infestata di luce alle sei di mattina. Mi sono fatta un Nescafe' raschiando il fondo del barattolo, mamma mia devo fare la spesa. Avevo un pezzettino di dolce rimasto dalla conferenza di ieri, in cui ho incontrato per caso Mister K. Che ha fatto ovviamente l'intervento piu' bello, sulla salute dei bambini negli orfanotrofi. Esco dalla mia stanza, Wilma era gia' ai fornelli. Sta seguendo un corso di cucina cinese e si cimenta con noodles e riso cantonese. Mi sono concessa il lusso di un quarto d'ora di notizie appena sfornate da BBC World, prima di andare al lavoro. Dal mio divano sono volata in Serbia, a Washington, a Beijing, ogni volta travolta da una tempesta di pensieri. Oggi ho voglia di lavorare al mio paper. In ufficio stanno bollendo cose interessanti, alleluja. Stasera il musicista mi porta a un concerto allo Shaker, non lo vedo da due mesi, sara' carino. Mi sono spruzzata il profumo, ho preso il cellulare. Ho riletto il messaggino che avevo appena ricevuto. Ho acceso il mio ipod, solo canzoncine italiane stamattina. Ho camminato fischiettando fino alla UN House, nell'aria ancora fresca di pioggia.

martedì 29 luglio 2008

Via

difese crollate
occhi nascosti

mani in alto! - aspetto
qualsiasi verdetto

tempesta - stanchezza
rimasta da sola

di me non resta
che una pozzanghera viola

lunedì 28 luglio 2008

Expiration date

romper le righe
di tutti i contorni

sciogliersi in sorsi
chiudere i forse
tuffarsi - annullarsi
sfiorirsi - sfiorarsi

affondare
nella neve - nell'acqua
finche' non rimane
piu' traccia

sabato 26 luglio 2008

Terry's Philosophy

Erano le cinque del mattino ed eravamo in macchina, solo io e lei. Mi aveva telefonato all'una di notte, chiedendomi dove fossi. Ero appena rincasata da un venerdi' sera senza infamia e senza lode al Coco Lounge, locale etseticamente gradadevole sulla Avenue, pieno di gente incamiciata dalla pelle chiara. Il posto sull'isola che piu' potrebbe somigliare a un locale di Milano, con le ovvie differenze. Con mia grandissima sorpresa, quell'ambiente mi aveva irritata da morire. L'avevo trovato cosi' ovvio, cosi' provinciale, cosi' vorrei-ma-non-posso. Dopo aver tentato di sfuggire alla noia abissale lasciando che un sedicente artista mi offrisse da bere, ho convinto la mia amica a rincasare.

Stavo aprendo la mia terza serratura quando ha chiamato Terry. Hai voglia di andare a ballare? Ho esitato un secondo, poi ho detto si'. Bisogna sempre dire di si'. Mezz'ora dopo ero allo Zen, a controbilanciare la serata con uno spettacolo opposto a quello che avevo assistito fino a quel momento. "Ecco dove vanno tutti i ragazzi neri il venerdi' sera", mi sono detta entrando. La discoteca enorme fa sempre uan certa impressione. Musica techno, un sacco di gente, ambiente dodgy. Luci colorate, coriandoli che piovono dall'altro, fumo bianco sparato ovunque. Il solito bacchanal di danze erotiche. Giovani che si divertono, giovani ubriachi, giovani che ti ballano addosso. E tu ci balli insieme, che e' tutto allenamento per il prossimo Carnevale. Io e Terry ci siamo divertite. Sorridevamo a tutti. Ballavamo con tutti.

Eravamo in macchina, esauste. Mi stava riaccompagnando a casa. "Hai presente quel ragazzino con la maglietta bianca, quello che praticamente e' diventato nostro amico?", mi ha detto. Si', avevo presente. "Non se lo aspettava, che fossimo simpatiche con lui. Non e' normale che una ragazza bianca e una ragazza alta, magra e red diano retta a un ragazzo nero. Questi ragazzi provano a parlarti sapendo gia' che verranno allontanati. E invece hai visto? Noi ci siamo divertite con loro". Io annuivo in silenzio, cominciavo a comprendere queste dinamiche. "Ma sai Vivi, io ho una filosofia di vita". Ha continuato lei. "Se quando parli con una persona, con qualunque persona, anche con un ragazzo in discoteca. Se mentre le parli la fai sentire come la persona piu' importante del mondo..." Ha fatto una pausa sorridendo, e poi ha completato la frase in modo candidissimo, ingenuo da non crederci. "Allora tutti saranno felici".

venerdì 25 luglio 2008

Vodou

Voudou: religione sincretistica basata sulle fedi aimistiche dei popoli dell'Africa Occidentale, del Congo e dell'Africa Centrale mischiate al Cristinesimo. Se ne trovano tracce in tutte le regioni toccate dalla diaspora africana, specialmente Haiti, la Repubblica Domenicana, Cuba e il Brasile, con varianti minori nel Sud degli Stati Uniti, in America Centrale e nelle altre isole caraibiche. A Trinidad e Tobago e in Jamaica e' conosciuta come culto Obeah, ed e' ormai praticato da sporatici gruppi ristretti di persone, per o piu' sperdute nelle zone rurali o centrali del paese, come rimasuglio culturale antico in uno stato che ha ormai pienamente abbracciato la modernita'.

Ebbene si'. Quando si atterra a Trinidad sembra di essere in un paese occidentale, con qualche arretratezza e qualche elemento di colore folcloristico qua e la' (i rasta, i taxi scalchignati, la musica alta nelle strade) ma tutto sommato ben avviato sulla strada della globalizzazione (superstrade, drive-in, cinema multisala, locali notturni). Eppure, si tratta pur sempre del Caribe. La modernizzazione non e' che uno strato culturale sottilissimo che copre decenni di magia, di spiritualita' afro, di riti di musica e sangue che la colonizzazione britannica non mai ha completamente estirpato.

Qualche settimana fa ero a un concerto con i miei due amici musicisti. Stavamo ascoltando Orange Sky, una band famosa sull'isola che occasionalmente fa anche qualche tournée negli Stati Uniti. Si tratta di un gruppo di 4-5 omaccioni con dreadlocks lunghi fino al sedere che cantano un raggae-rock abbastanza aggressivo ed energetico, che fa venire voglia di pogare. Dopo un'ora di concerto e di rasta sventolanti al Woodbrok Cafe', Chris mi ha detto con tono serissimo. "Lo sai perche' hanno tanto successo? Perche' hanno venduto l'anima al diavolo". Io l'ho guardato negli occhi di scatto, sorridendo. Che idea balzana! "No, Vivi, è la verità. Hanno venduto l'anima al diavolo, l'hanno pure ammesso pubblicamente. Hanno avuto il coraggio di farlo, e ora si godono il successo qui a Trinidad e anche un po' nel mondo". Non potevo credere che parlasse sul serio, che credesse davvero a quello che stava dicendo. E invece si', e' andato avanti per un'ora a parlarmi delle sue ricerche nel campo dell'occulto, e di come rituali sciamanici e spiritistici avessero un impatto sul mondo della musica. Io ascoltavo incantata, fingendo di crederci per non offenderlo. Era Chris, un ragazzo normalissimo, urbano, educato. Che credeva a queste cose.

Chris non e' l'unico esempio. Anche John - ragazzo di indubbia apertura mentale, che ha studiato ed ha viaggiato in giro per il mondo -non esita di tanto in tanto a parlare di dark forces. Di una ex-ragazza che gli ha fatto il malocchio. Del fatto che in un gruppo di preghiera cristiano a cui si era unito un pomeriggio per accompagnare un amico gli avevano detto che aveva intrappolato dentro si se' uno spirito malvagio. Lo dice sorridendo, con aria scettica. Pero' ne parla spesso. Forse teme che prima o poi lo spirito cattivo assuma il controllo della sua anima...

Crimine

Mi sono appena fatta una chiacchierata con Clarissa sulla scala esterna dell'ufficio dove lei va abitualmente a fumarsi la sua sigarettina. Mi ha detto che il tasso di omicidi quest'anno e' cresciuto del 78 percento. Che "stiamo peggio della Jamaica". Che "ti ricordi quando Neil ha annunciato a tutto l'ufficio di stare lontani dalle finestre, lunedi' pomeriggio? e' perche' c'era una sparatoria in corso, poi ti faccio vedere i buchi dei proiettili sulla facciata". Che martedi' mattina una signora che lavora alla banca di fronte e' venuta a dirci di stare attente, le avevano appena scippato la borsa, qui a Chancery Lane, in pieno sole. Che mercoledi' un membro dello staff ONU mentre tornava a casa in taxi e' stato portato in una stradina laterale, l'hanno fatto uscire, l'hanno spogliato, gli hanno tolto pure le mutande, gli hanno chiesto dove abita e che giorno riceve lo stipendio. "Praticamente piangeva al telefono mentre me lo raccontava". Io ascoltavo terrorizzata, era tanto tempo che non sentivo paura, mi sembrava di essermi abituata a tutto. "Vivi stai attenta". "Va bene".

giovedì 24 luglio 2008

Susanne e Miguel

La mia amica Susanne e' partita ieri mattina presto, dopo aver trascorso un paio di settimane qui con me. E' stato bello averla vicina, poterle spiegare questo paese, vedere nei suoi occhi e sentire nelle sue espressioni lo stesso sbigottimento e gli stessi entusiasmi che ho vissuto io quando ho speriementato le stranezze dell'isola per la prima volta. E' stato rassicurante, mi e' parsa una conferma della mia normalita'. E in un certo modo sapere che lei ha adorato stare qui per quindici giorni ma non starebbe mai a Trinidad per un periodo piu' lungo mi ha ricordato che tutto sommato la mia e' un'esperienza complessa. Nei momenti di scoraggiamento dovrei essere piu' tenera con me stessa.

Con la partenza di Susanne si chiude un ciclo che era iniziato con la mia partenza per il Nicaragua. Una lunga parentesi di internazionalita' in cui mi sono ricordata che Trinidad e' solo un'isola, che il mio soggiorno qui dura solo un anno, che non devo pretendere da me stessa di diventare una trinidina. Nessuno me lo ha chiesto e non me lo dovrei chiedere nemmeno io.

Il momento in cui questa semplice verita' mi e' saltata agli occhi in modo piu' lampante ed inequivocabile e' stato su un sofficissimo divano a San Jose' in Costa Rica, sulla terrazza di un ostello molto cool, pieno di backpackers europei, americani e canadesi. Ero con Miguel, ex-ragazzo e amico indissolubile che incontro in giro per il mondo. Ci eravamo ritrovati quel pomeriggio dopo mesi che non ci si vedeva - l'ultima volta era stata a Berlino, era gennaio ed era buio. Lui era arrivato all'ostellino di San Jose' dopo un viaggio di trenta ore, aveva ordinato due birre ghiacciate e si era seduto sul divano di fianco a me. E io per la prima volta da quando ero partita per il continente americano mi sentivo a casa.

In meno di un minuto, in modo repentino e assolutamente immotivato sono scoppiata in lacrime, non per la tristezza, ma per l'intensita' del tutto. Ho cominciato a raccontargli di getto e confusamente tutti i miei ricordi e le mie paure, i contrasti, i problemi, i successi, le assurdita' e soprattutto la totale precarieta' della mia vita a Trinidad. Precarieta' nel senso della sicurezza, delle amicizie fluttuanti, degli amori instabili, dell'alternanza di rabbia ed esaltazione, della mia strana passione carnale per quest'isola. Ho pianto tantissimo, con singhiozzi profondi, in una tempesta emozionale che mi ha lasciata spossata dopo un'ora di catarsi. Spossata e rasserenata, un arcobaleno dopo la tempesta, mentre Miguel mi accarezzava i capelli e mi diceva: "Don't worry Vivi. This is normal. This is all sooo normal".

mercoledì 23 luglio 2008

Mare

Settimana scorsa dopo il lavoro sono fuggita a Maracas. Ho preso telo e costume e mi ci sono precipitata, prima che calasse il sole. La solita vecchia Maracas, la spiaggia più banale di tutte, la più vicina in macchina da Port of Spain. Se ne parla come se niente fosse, senza nemmeno pensare che si tratta di una bellissima baia tropicale. E' stata la fuga pomeridiana della scorsa settimana farmelo ricordare, tutto d'un tratto.

Era un giorno infrasettimanale, la spiaggia era quasi vuota. C'era una luce chiara, tutto sembrava pulito. La bellezza nuda di quel paesaggio mi ha colpita come uno schiaffo, e mi ha obbligata a fermarmi li', in piedi nel vento, a riscoprire piano il fascino rovente di Maracas beach. Disegnata in una stupenda ansa verde, in centro ad una corona regolare di montagne coperte di bosco fitto, senza l'ombra di una casa. Un bacino quasi circolare di mare ondoso, che si apre all'oceano solo all'orizzonte lontano. La sabbia fine, le palme slanciate tutte in fila, i chioschetti colorati alle spalle.

L'acqua era verdissima, un color giada molto denso. Una speciale tonalita' che rifletteva il colore delle montagne intorno. Mentre facevo il bagno vedevo quel mare di giada che andava a limitare contro il piede dei monti, e le due masse di acqua e di terra si proseguivano l'un l'altra nella stessa identica tonalità cromatica. Bellissimo. Poi mi sono voltata verso il mare aperto e mi sono messa a osservare le onde che mi venivano incontro ritmicamente. Prima che si trasfomassero in ricami estesi di schiuma bianca si potevano distinguere i rotoli d'acqua che si gonfiavano tra gli spruzzi, così lucidi e trasparenti che sembravano fatti di vetro.

martedì 22 luglio 2008

Hijacked

Una sera lo stagista tedesco che lavorava al piano di sopra ha sbagliato a prendere una curva ed e' finito a Morvant. Era nuovo, sapeva che doveva stare attento, ma non pensava che si sarebbe cacciato nei guai per cosi' poco. Gli avevano gia' scassinato la macchina il mese prima, pensava che statisticamente la sua dose di sfighe fosse esaurita. Non che fosse un temerario, anzi era un tipo timidino e un po' squadrato, mi ricordo che in pausa pranzo gli dicevo "non ti preoccupare, all'inizio fa paura, ma poi ci si abitua". Eppure ha sbaglaito curva. Bello sbaglio. Bianco e con l'aria smarrita, se l'e' andata a cercare. Da dietro l'angolo sono subito usciti i tipi con le pistole e gliele hanno puntate in faccia. Non so come sia andata, non mi ha raccontato i dettagli. Quando l'ho visto la settimana successiva era ancora sotto shock. So solo che in un modo o nell'altro se ne e' tirato fuori, guidando sul marciapiede. Dopo dieci giorni ha preso armi e bagagli e se n'e' tornato in Germania.

Anche a Mister K era successa una cosa del genere. Stava andando a una festa con la sua ragazza, lo scorso dicembre. Aveva chiamato la padrona di casa per dirle di aprire il cancello. Voleva evitare di aspettare fuori con la macchina ferma, ma lei se n'e' dimenticata. Sara' stata una premonizione, ma sono venuti fuori i tipi. Con le pistole. Gliele hanno puntate addosso. Li hanno fatti scendere. Gli hanno fatto alzare le mani. Gridando, hanno minacciato di ammazzarli. Lui aveva solo paura che si portassero via lei, che gliela stuprassero, che gliela facessero fuori e gliela gettassero al bordo della strada. Era carina, tutta vestita a festa, sembrava una caramellina da scartare. Lui ha sangue freddo, per qualche motivo misterioso sa parlare con i criminali. Con le mani alzate si e' messo a farli ragionare. Erano giovani ed eccitati. Lui cercava di distrarli da lei. Li trattava con rispetto, ma anche con fermezza. Cercava di tenere in mano la situazione. La conversazione e' durata qualche lungo minuto, la situazione poteva sfuggire di mano ad ogni istante. Alla fine se ne sono andati portandosi via la macchina, lasciandogli la ragazza. Il veicolo e' stato ritrovato in seguito, parcheggiato nelle vicinanze. Magari volevano far passare un po' di tempo prima di prenderlo e rivenderlo.

lunedì 21 luglio 2008

Fabbriche

Una cosa che mi piace tanto a Port of Spain è la zona industriale.

Lo so che tutti la considerano orribile, e devo ammettere che qusta considerazione ha una sua buona ragione. La città avrebbe tutto il potenziale per essere considerata, se non una città d'arte secondo gli standard europei, quantomeno un bellissimo esempio di citta' dall'architettura caraibica. E' ricca di palazzi magnifici e di case d'epoca coloniali, che sono lasciate andare all'incuria del tempo. E svilita dall'assenza di un piano regolatore, ha visto sorgere selvaggiamente palazzoni grigi e brutti, eretti a casaccio tra le strade strette e i marciapiedi rotti. Ha visto costuire una centrale elettrica pachidermica, con tre minacciosissime ciminiere, proprio nel centro città. Ha visto dedicare gli spazi vicino al mare a grossi complessi industriali, a spianate per la raccolta di containers, a brutti colossi fumanti.

Eppure, dopo l'iniziale sconcerto per le strane scelte (o meglio: non-scelte) urbanistiche, ho cominciato a vedere una certa grazia in questi casermoni. Ho sempre avuto una strana attrazione per le fabbriche, specie quelle dismesse. Non ha nulla a che vedere con la moda trita e ritrita di trasformarle in loft da sogno. Mi piacciono proprio così, con tutti quei tubi e quelle scale a chiocchiola che si arrampicano sottili e si incrociano e si slanciano attorno alla grezza costruzione centrale. Mi piacciono le forme. E mi piace quando sono ferme, quando hanno smesso di lavorare, e rimangono nella città come detriti, come cattedrali antiche della produzione di massa. La morte getta un'ombra di fragilità quasi commuovente su questi colossi.

Da anni ormai ho la fantasia di prendere una di queste vecchie fabbriche e colorarla tutta con i colori più impensati. Blu, giallo, rosa, verde. Ogni tubo un colore. Alla fine sembrerebbe un giocattolo enorme, un inno all'infanzia. Quando passo davanti alle fabbriche di Port of Spain mi chiedo sempre come sarebbero, tutte ridipinte.

Ma forse la cosa che mi piace di più è quando ci passo di fianco di notte, in macchina. Allora non ho più bisogno di immaginarle di altri colori, sono bellissime così come sono. Grandi masse d'ombra, coperte di lucine gialle che ne segnano i profili, che ne illuminano gli angoli. Sembrano grosse navi addormentate, sembrano costellazioni solide cadute sulla città. Ce n'è una in particolare, che non è una fabbrica ma piuttosto un elemento di una raffineria, o qualcosa del genere. Insomma un'enorme struttura bianca, tutta di sbarre di ferro incrociate. E' fuori città, sulla strada per Chaguaramas, su una specie di pontile o piattaforma che penetra nel golfo di Paria. Non mi sono mai chiesta a cosa serva, nè mi interessa. So solo che quando la vedo di notte mi dico sempre che è bellissima, appoggiata sul mare con tutte quelle luci, leggera e austera come un castello di carte.

Omicidi

I Caraibi sono una delle zone piu’ violente del mondo. Escludendo i paesi in guerra, ovviamente. Parlo di violenza nelle strade, quantita’ di armi che girano, quantita’ di morti. E Trinidad e’ una delle isole peggiori, in nona posizione nel ranking mondiale dei paesi con il piu’ alto tasso di omicidi. Ogni giorno a Port of Spain le prime pagine dei giornali riportano un omicidio o due. Anche a Barbados ci sono un sacco di morti, ma i giornali hanno l’espresso divieto di pubblicare la notrizia in prima pagina per non spaventare i turisti. A Trinidad di turisti non ce n’e’ quasi, quindi tanto vale approfittare della curiosita’ morbosa della gente e scrivere articoli dettagliatissimi sullo stato dei cadaveri e sulle correlate storie di morte.

Gli omicidi toccano quasi sempre agli adolescenti maschi. Sono quasi sempre frutto di risse o vendette fra gang. E sono quasi sempre impuniti. Dati ufficiosi dicono che solo il 2 per cento degli assassini viene processato e imprigionato. Lo scenario di questi scontri sono normalmente le zone urbane periferiche, le favelas locali, in cui vivono soprattutto trinidini di discendenza africana. I motivi sono sempre gli stessi. Controllo del traffico di droga. Controllo del traffico di armi. Ma anche cose piu’ banali. Scaramucce tra leaders, offese. “Hai guardato la mia donna”, “hai riso di me”. “Mi hai mancato di rispetto, quindi ti ammazzo”.

La situazione sta peggiorando. A meta’ giugno il tasso di omicidi a Trinidad contava 115 morti in piu’ della stessa data nell’anno precedente. Si’, in piu’, non in tutto. In tutto erano 241. Fate il conto dei giorni. E contate che Trinidad e’ piccola, in tutto lo stato ci sono 1.2 milioni di persone, e questo include Tobago che ‘e molto piu’ tranquilla.

Orisha qualche mese fa e' tornata a casa e mi ha detto a mezza voce, sbucciando un'arancia. “Oggi hanno ucciso due dei ragazzini che erano stato nello YMCA un paio di anni fa. Fatti secchi a sangue freddo”. L'ha detto cosi', con tono neutro, come se mi stesse raccontando del colore delle scarpe che si era appena comprata. La notizia mi ha colpita, naturalmente. Non sapevo che cosa dire. Cercavo di immaginare come deve essere doloroso sapere che due ragazzini che hai visto tutti i giorni per sei mesi e che hai lottato per rieducare e reinserire in un contesto di vista normale si sono fatti uccidere nel giro di due anni. Lei mi guardava di traverso, spiava la mia reazione con una sorta di divertimento perverso. Quanto e' facile sconvolgerla!, dicevano i suoi occhi. “Mi dispiace tanto, Orisha, e' una notizia terribile. Quand’e’ il funerale?”. Lei ha risposo, durissima. “Non lo so ma non ci vado. E’ una perdita di tempo. Ne ho visti gia’ fin troppi, di funerali.” E l'argomento era chiuso.

venerdì 18 luglio 2008

Botte

Qui, a scuola picchiano i bambini. L'ho scoperto mesi fa, in una serata qualunque nel sottobosco con qualche amico di Orisha. Parlavano di quando erano alle elementari, di quando la maestra tirava fuori la riga. Non potevo credere a quelo che stavo sentendo, mi sembrava una cosa da Medio Evo. E da quel momento ho cominciato a sollevare l'argomento con frequenza, per capire quanto questa pratica fosse diffusa, ma soprattutto per sentire le opinioni della gente. "Ma certo, tutti le prendono, prima o poi", mi diceva una ragazza con una scrollatina di spalle. L'ho chiesto a molti, tutti hanno confermato, nessuno e' stato risparmiato. Chi piu' chi meno, tutti le hanno prese.

"Ma Vivi, devi capire che questa non e' l'Europa", mi diceva Trudy. "Qui i ragazzini non hanno rispetto. Crescono in strada, senza padri, senza figure di riferimento. Non sanno nemmeno cosa sia l'autorita'. Non ascoltano, disturbano, distruggono le sedie, le aule. Come si fa a tenerli sotto controllo senza il pugno di ferro? Come credi di poterli minacciare?", "Con una nota, un brutto voto?" ho azzardato io. Lei e' scoppiata a ridere. "Cosa vuoi che gliene importi ai piccoli delinquenti di un voto o di una nota? Cara grazia se vengono a scuola!". Il ragionamento a suo modo teneva, ma io ero agghiacciata. Semplicemente, non era una soluzione accettabile.

Man mano che proseguivo con le domande mi si formava un quadro piu' completo della situazione. I piu' fortunati venivano colpiti solo sulle palme delle mani. I piu' discoli ricevevano botte sul sedere. La cosa forse piu' scioccante e' stato scoprire che nella maggior parte dei casi non si trattava affatto di colpetti simbolici, ma di vera e propria violenza sui bambini. Un ragazzo grande e grosso con un sorrisone bianco sulla faccia nera ricordava di quando andava a scuola con cinque paia di pantaloni sovrapposti, perche' gia' sapeva che le avrebbe buscate, e cosi' avrebbe fatto meno male. Mi sono chiesta quanti pianti ingoiati stessero dietro alla sua risata indifferente.

Un'altra brutta scoperta e' stata l'arbitrarieta' di questo trattamento. Coloro che hanno frequentato scuole piu' o meno prestigiose hanno vissuto questa esperienza solo come metodo disciplinare, che per quanto aberrante aveva una sua logica. Ad ogni errore corrispondeva un numero preciso di botte, e punto. Era un sistema di giustizia. Ma i ragazzini piu' indisciplinati, o quelli che finivano nelle scuole peggiori, ricevevano un trattamento ben diverso.

Ne parlava anche Mister K in uno dei suoi shows nel cortile di casa, in cui lui regolarmente commenta i piu' delicati argomenti di attaulita' traducandoli in un linguaggio comprensibile ai suoi amici cannaioli. "I bambini vengono picchiati nella piu' assoluta impunita'. Da maestri che non fanno altro che sfogare le loro frustrazioni. Che ci godono. Pieno cosi' di maestri che ci godono". E faceva l'imitazione di una maestra sadica che picchiva, picchiava e godeva, e i suoi amici ridevano a quello spettacolino grottesco. Poi lui si zittiva per un secondo, pieno di rabbia. E su tutti loro passava un'ombra di qualche ricordo fugace a cui non potro' mai avere accesso.

Poesia

Ci saranno state una cinquantina di persone, non di piu’. Io me ne stavo seduta per terra con la mia birra offerta e il mio roti speziato, mentre la mia amica Susanne flirtava impercettibilmente con l’indiano. Era una bella serata fresca, il sole stava calando, e il piccolo pubblico ronzante ascoltava educatamente. Davanti al microfono si alternavano i giovani scrittori, che con un briciolo di emozione ci leggevano i loro ultimi pezzi scritti nella giungla. L’idea del seminario di scrittura era proprio questa: rinchiudere una ventina di poeti in erba in una bella casa nella foresta del nordest di Trinidad, dove tra esercizi di stile, meditazioni e scambi di energia avrebbero prodotto qualcosa di ispirato. Che poi avrebbero letto il sabato sera, davanti ad un piccolo pubblico attento, in uno spiazzo improvvisato di fianco alla strada che costeggia l’oceano. Gli artisti venivano da Trinidad, da Barbados, dalle Bahamas. C’era chi leggeva poesia, chi prosa, chi teatro. Nella maggior parte dei pezzi c’era molto humor, parecchi erano scritti in gergo popolare, qualcuno conteneva elementi di denuncia sociale. Alcuni erano divertenti, altri noiosi. Probabilmente l’unico elemento comune a tutti era l’orgoglio con cui erano letti. Faceva tenerezza.

Mentre me ne stavo li’ a lavorare sulla mia birra riflettevo su quanto e’ diverso il concetto stesso di poesia nel vecchio e nel nuovo continente. Non parlo di stile, di forma, di musicalita’. Parlo del modo in cui la poesia e’ vissuta dalla gente. Nella stanca Europa, in cui basta fare due passi per trovarsi a confronto con la Storia, in cui siamo nutriti fin da piccoli con classici letterari e in cui la cultura di una persona corrisponde alla profondita’ della sua conoscenza del passato, una "serata di poesia" e' qualcosa di totalmente diverso da cio' a cui stavo assistendo. Cercavo di ricordare qualche esempio di serata poetica a cui avevo partecipato a Milano. Forse il ricordo piu' bello e' legato ad una lectura Dantis di fine estate, in cui l'eminente critico letterario Sermonti aveva declamato un canto dell’Inferno dal pulpito di Santa Maria delle Grazie, a venti metri dal Cenacolo vinciano. Un esperienza estetica impareggiabile. "Che qui se la sognano, anzi non la sognano nemmeno perche' non hanno idea che una cosa del genere possa esistere", mi dicevo. Ma poi ho pensato anche che in fin dei conti tutta questa gran cultura ha il suo rovescio della medaglia. In un Italia cosi’ intrisa di arte e venerazione per i geni del passato chi mai oserebbe definire se stesso poeta, come facevano candidamente questi ragazzi? “Sono un poeta”. “Di professione: poeta”. Siamo seri. Suonerebbe ridicolo, se non arrogante. “Ma chi sei tu per definirti poeta? Lo sai chi sono i veri poeti?”, ci si sentirebbe dire ad ogni pie’ sospinto. Qui no, e' tutto diverso. E’ tanto piu’ facile definirsi poeti nella piccola Trinidad, su una strada sterrata di fianco al mare, in cui il passato non pesa, in cui esiste solo l'oceano, il tramonto e la giungla oscura.

Ero attraversata da pensieri contrastanti. Simpatia per questi giovni artisti. Ma anche fastidio per il loro modo incivilizzato di prendere sul serio i loro quattro versi. Pure un po’ di invidia, perche’ in fondo almeno loro osano dire la loro. E una punta di paternalismo: io che sono europea so che cosa e’ l’arte vera, e di certo non si trova qui. Il tutto avvolto in una coperta calda di gratitudine verso la vita per semplice il fatto di trovarmi li’, seduta su quel marciapiede e abbracciata alle mie ginocchia, con la brezza nei capelli, il sole che scendeva, e scoppi di contagiose risate caraibiche alle battute piu’ azzeccate.

Per smentire tutto quello che avevo pensato fino a quel momento, la serata si e’ conclusa con una sorpresa. Uno dei due premi nobel letterari di Trinidad e Tobago, lo scrittore Earl Lovelace, e’ apparso come un deus ex machina dal dolcissimo sorriso asiatico. Ne avevo sentito molto parlare, perche' oltre ad essree una grandissimo scrittore e' anche un personaggio attivo della vita dell'isola, specialmente per quanto riguarda la promozione della poesia tra i giovani trinidini. Era la prima volta che lo incontravo di persona. Eccolo li’, a Toco, nella verandina sulla strada. Incoraggiato da un applauso caloroso si e’ messo a leggere un brano del libro che sta per pubblicare. Un bellissimo pezzo d’amore, che scorreva fluido attraverso quella serata, in un inglese chiaro e figurativo. Bevendomi l’ultimo sorso di birra, sorridevo e pensavo: “Et voila’. Questa e’ poesia”.

martedì 15 luglio 2008

Di notte

La verita' uccide? Era impaziente stamattina. Gli ho tolto ore di sonno con le mie domande alcoliche. Durante la serata aveva notato che mi ero rabbuiata. Parlavo fitta con Susanne, che ha attraversato il mondo per vedermi, e da vera amica mi ascoltava e mi diceva senza mezzi termini quello che pensava dei miei dubbi. Lui voleva sapere quello che ci dicevamo. L'ho aspettato sveglia, c'erano troppe cose da chiedere. La paura e' umiliante. La sincerita' avvelena.

lunedì 14 luglio 2008

Terry

Ha ventitre' anni e ha una figlia di tre. E' una delle tantissime ragazze madri di Trinidad, che combattono ogni giorno per tirare su i loro bambini in modo decente senza avere un uomo accanto. Al contrario della maggior parte dei casi, Terry non e' stata sola dall'inizio. Erano sposati ed erano felici, ma poi un brutto giorno di un paio di anni fa lui e' morto in un incidente di moto.

Terry e' bellissima, sembra una modella. Alta e filiforme, con un sorriso dolcissimo e un impareggiabile stile etnico nel vestire, che bilancia lunghe gonne multicolori e semplicissime cannottierine grezze bianche o nere, quasi maschili. E' cosi' filiforme perche' da bambina non mangiava mai. Le faceva impressione tutto cio' che conteneva grasso, mangiava solo verdure crude.

Jil era francese, di vent'anni piu' vecchio di lei. La bambina lo adorava, lo riconosceva dal suo odore immediatamente, anche quando lui rientrava a Trinidad dopo settimane di viaggio. Terry parla di lui in continuazione, non l'ha dimenticato. Ne parla con naturalezza, come se esistesse ancora, come se facesse ancora parte della sua vita di tutti i giorni. "Cucinava benissimo, mi ha insegnato a mangiare", mi ha detto un giorno. "Cucinava cucina francese, mi preparava ogni sera piattini deliziosi". Gli occhi le sorridono quando lo ricorda.

Me lo immagino, lui, quarantenne scrittore e giramondo, che si innamora perdutamente di questa ninfa dei caraibi, innocente e festosa, piena di fragilita' nascoste e paura del cibo. L'ha presa e l'ha curata, dolcemente, ogni giorno con un piatto diverso. Dapprima con gli ingredienti piu' semplici. Poi, una volta guadagnata la sua fiducia, ha cominciato ad aggiungere elementi piu' elaborati, introducendo nel su corpicino latte e uova, carne e pesce, e poi formaggi, sughi, salse, ripieni, creme e pate'.

Eravamo in un posto bellissimo, sulla spiaggia di Grand Riviere nella costa nord, in un ristorante pittoresco circondato dalla pioggia scrosciante. "Quindici giorni dopo che lui e' morto, mentre stavo traslocando, mi sono messa a vuotare il frigo", mi raccontava. "E in fondo in fondo sai cos'ho trovato? Un piatto con degli avanzi dell'ultimo gratin di scampi fatto da lui". Sorride. "Volevo buttarlo ma poi ho pensato. Questa e' l'ultima volta che posso mangiare qualcosa che lui ha preparato per me. E cosi' l'ho tirato fuori, l'ho scaldato al microonde, e in mezzo a tutti gli scatoloni mi sono mangiata tutto quello che restava, lentamente, in suo onore."

venerdì 11 luglio 2008

Capelli

Uno dei tanti aspetti della perversa mentalita' razzista che striscia nel subconscio trinidino e' l'importanza data ai capelli. Tutti sanno come sono i capelli afro. Riccissimi e crespi. Per questo motivo vengono generalmente tenuti corti, o rapati a zero, o in rasta. Semplice. Ora, nella cozzaglia multietnica dell'isola capita che molti ragazzi e ragazze neri abbiano capelli ricci o ondulati, quindi diversi dai classici capelli afro. In quel caso significa che hanno almeno un parente, almeno un antenato, si sangue indiano, o asiatico, o ancora meglio europeo. In quel caso si dice che hanno "nice hair". E' motivo di orgoglio e lo espongono al meglio, perche' sanno che li fa risultare molto, ma molto piu' attraenti.

Razzismo

E' una societa' crudele, classista e razzista.

Ho gia' detto molto sulla crudelta', diro' in seguito del classismo. Oggi dedico due parole al razzismo, cioe' la discriminazione in base alla "razza" non solo intesa com etipo etnico ma anche come tono specifico di carnagione. In nuce, piu' si e' chiari meglio e'. Ecco qualche esempio.

In una televisione locale c'e' una pubblicita' che mostra questa scena. Un ragazzo che passeggia in un giardino a braccetto con la sua morosa si rende conto di essere osservato a distanza da un'ammiratrice. Lui la ignora. L'ammiratrice sconsolata entra in un negozio e si compra una crema. Skin lightener. Se la spalma sul viso. La crema ha effetto schiarente, il colore bruno della pelle si smorza. Torna al giardino, ritrova il tizio di cui sopra, sempre a braccetto con la morosa. Lui la vede e questa volta risponde al suo sguardo.

Ero in banca. Fila lunghissima, io dovevo fare un'operazione di pochi minuti. Ma d'altra parte la stragrande maggioranza della gente deve fare operazioni di pochi minuti. Decido di essere comunque sfacciata, vado al banco e chiedo di poter saltare la fila, senza fornire una ragione. Ma certo signorina, passi di qui. Non ne ho la certezza assoluta, ma penso che il colore sia stato determinante.

In palestra con Samira, lei decide di correre a piedi nudi sul tapis roulant. Arriva l'istruttore e le dice che e' contro il regolamento. Lei fa due moine e dice che le fanno male le scarpe. Lui si lascia convincere. Una ragazza che correva di fianco a noi ha detto che se lei non fosse stata bianca l'avrebbero certamente sbattuta fuori.

bianca

Per caso mi sono trovata a passare una serata sola con Marlon. Ci conoscevamo appena, eppure eravamo io e lui soli in questa discotechina di Tobago. Difficile comunicare in quel casino. Lui ragazzo selvatico, cresciuto senza andare a scuola, non abituato agli accenti stranieri. Io stentavo a distinguere parole inglesi nella sua parlata gergale. Eppure quando mi ha riaccompagnata a casa, tolti i rumori di sottofondo, una chiacchierata carina ce la siamo fatta. Dopo due minuti che ero entrarta in camera il mio telefono stava gia' squillando. "Marlon? Dimmi...". "Hey Viviana. Just meant to say. I like you even if you are white".

domenica 6 luglio 2008

Sud Africa

L'avevo chiamato mesi fa, quando ancora cercavo casa. Il fratello di un amico di Moe. Una di quelle persone di cui avevo avuto il nominativo e che avevo contattato con disinvoltura per avere qualche informazione sul mercato immobiliare, senza immaginare che poi le avrei incontrate veramente. Sembrava simpatico, ci siamo tenuti in contatto in modo molto loose per mesi, e dopo una serie di appuntamenti mancati ci siamo visti per un drink martedì scorso. Mi si è presentato un tipo molto più vecchio del previsto, sui quarantacinque anni. Mi ha portato in un albergo a cinque stelle, ma non per le stelle. Perchè è l'unico posto a Port of Spain dove si può prendere un aperitivo guardando il mare. Abbiamo cominciato a chiacchierare del più e del meno e ho scoperto che stavo parlando con un uomo dalla vita straordinaria.

Un avvocato che aveva vissuto a Port of Spain, New York, Londra, Bogotà e Johannesbourg. Che aveva lavorato per uno studio legale americano che annoverva tra i suoi clienti i maggiori partiti d'opposizione nei paesi governati da tiranni, e i maggiori gruppi di difensori di diritti civili oppressi dai loro governi. Ian era nella squadra del Sud Africa, ed è stato uno degli avvocati nientemeno che del partito di Nelson Mandela. Vedendomi brillare gli occhi dall'eccitazione ogni volta che toccava l'argomento, Ian ha cominciato a raccontarmi dei suoi quattordici anni di vita in Sud Africa, in cui ha vissuto da diretto testimone (anzi, da diretto protagonista) la rivolta contro l'apartheid, il primo voto democratico e i primi anni di governo del partito di Mandela. Mi ha raccontato dello spirito della gente negli anni novanta e di come si sono evolute le cose adesso. Mi ha spiegato come il partito aveva mandato giovani talenti all'estero a studiare nelle scuole europee, per poi richiamarli in patria dopo la vittoria, a governare. Mi ha detto dei rapporti fra inglesi e africaaners, fra neri sudafricani e immigrati dallo Zimbabwe. Un affresco affascinantissimo di un paese che lui ha vissuto profondamente, con le mani ben affondate nella politica, e in cui anche ora torna di frequente. Senza dimenticare di dare un colpo di telefono al suo amico presidente della repubblica.

Ma forse la cosa che mi e' piaciuta di piu' dei suoi racconti non e' stata la parte strettamente politica. Mi ha rqaccontato che anche se lavorava tantissimo come avvocato internazionalista, una delle sue grandi passioni e' sempre stata la buona cucina. Piu' di una volta ha tenuto cene di lavoro a casa propria, deliziando gli invitati con la sua esotica cucina caraibica. A quanto pare i complimenti erano tanti che ha deciso di aprire una specie di club-ristorante nella sua veranda, aperto solo uno o due giorni la settimana, che gestiva come un hobby. Erano una cosa intima, potevano venire solo una dozzina di persone alla volta, e lo stesso cliente non poteva tornare piu' di una volta ogni tre mesi. A differenza di un normale ristorante, i commensali cenavanno tutti insieme. Si presentavano durante l'aperitivo in piedi, per poi continuare a parlare e conoscersi durante il corso della serata. E dato che si trattava di politici, intellettuali, artisti e giornalisti, la veranda di Ian si trasformava in un ricettacolo di idee e dibattiti, una sorta di caffe' illuminista del settecento. Ma in Sudafrica, con cucina creola.

other bits of my travel

Marco. When he discovered that i was from Milan he almost screamed in delight, and he started to tell us about his life in his clownesque, hardly understandable Italian. We were in a pitoresque and deserted restaurant all made of woods at the edge of the cloud-forest, with an enormous window along the whole wall, showing the valley below us. We ended up there by chance, trying to sqeeze some sense out of an unfortunate day. The waiter was so bored and lonley and our visit was the best thing that could happen to him. He offered us tea. And showed us a nice path in the forest. When it started raining he came out to look for us with the umbrellas, and when we came back he welcomed us with warm towels and drinks. He told us about his italian origins and of his dreams of opening a museum of Leonardo da Vinci. While we were talking the fog started to rise and we understood why it's called "cloud forest". Within one hour we could see only white out of the window. He put on music for us and he shared a very precious ham that a friend of his sent him from Spain. He was showing us all his treasures, including one thing that I truly adore and that I can't find in this side of the world. A real, green and scented basil plant.

Butterflies. We were cycling fast on the red hilly road, the lake on the right, the volcano on the left. Some puddles were scattered along the way, and at the edge of each of them there were dozens of butterflies, drinking. And every time I cycled across one of the puddles, they would all start flying, all together, all around me, stretching their beautiful colours before my eyes.

Dinner. At Rita's party a young Italian diplomat offered us a precious bottle of real Chianti wine that he had sent directly from Tuscany. And an equally young Mexican who works in FAO brought a delicious delicacy from his country. The Nigerian from the International Organisation of Migrations started a debate on the role of the UN in development, and the Rita's boyfriend from Somalia added some political remarks, that I fully supported and defended against the Nigerian's skepticism. There I was, in a random country in the world with lots of fascinating people from random countries in the world, eating their food and chit-chatting world politics. I was excited and proud. I made it. It was like living a dream. But unexpectedly a little voice in a corner of my mind started to ask. Would this lifestyle make me happy forever? Living in this elitist, close, permanently-detached-from-the-country-they-live-in community, being a perpetual outsider, talking about the "locals". Locals. When I heard this word for the first time in my life I felt disgust for this whole international community world.