mercoledì 30 aprile 2008
zut
Prigionieri nel cubo grigio: il suo terzo colore. Fabbriche e farfalle non servono più. Banalmente angelica - la crudeltà è a buon mercato. (Dita-giunco, elettricità sottile, solo un istante). Un sorriso di troppo per poterlo sopportare. Un bacio lanciato al vento, che si schianti a terra, in frantumi sull'asfalto. Svelta impugna le sue chiavi d'argento.
quote
"I want to wake up in the morning
in the kiss of daylight".
Just a mental fabrication.
Everything else
slowly falls into nothingness.
in the kiss of daylight".
Just a mental fabrication.
Everything else
slowly falls into nothingness.
domenica 20 aprile 2008
Cinema II
Dopo aver descritto la meravigliosa movie factory che trasmette film d'essay il giovedì sera, dedicherò qualche riga ad un altro cinema di Port of Spain, dallo stile diametralmente opposto. Si tratta del Globe, il cinema storico della città. Un vecchio edificio rossastro nella centralissima Park Street, con le solite locandine appese fuori.
La cosa particolare di questo cinema è che i film sono irrilevanti. Non si va al Globe per vedere questo o quel film. Si va per passare quattro ore di fila in un pomeriggio o una serata in cui non si ha nulla in programma. Dico quattro ore perchè con lo stesso biglietto si vedono due film, a conferma di quanto detto sulla marginale importanza di ciò che si vede. C'è una sala sola, quindi non c'è scelta. E i film sono immancabilmente bruttissimi. Polpettoni holliwoodiani della peggior specie, dalla commedia di serie B al musical all'attacco degli extraterresti.
Ma il Globe ha anche un grande fascino. C'è sempre poca gente e lotta per restare aperto, ultimo cimelio di una concezione del cinema che ormai è stata soppiantata dal più moderno e banalissimo multisala Movietown con centro commerciale annesso, proprio fuori città. Le sedie sono scomode e il locale è polveroso, ma c'è uno schermo sconfinato e la sala enorme odora di vecchio. Il biglietto per due film costa il prezzo ridicolo di 2 soli dollari USA, mentre l'americanissimo Movietown chiede normalmente 7-8 dollari per un solo film. C'è un barettino che offre cibo dall'aria sospetta, hot dog verdastri e le solite bibite dolcissime che vanno di moda nel Caribe. I pacchettini di pop-corn sono minuscoli ma costano 30 centesimi di dollaro e vengono dati in una carta marroncina come quella delle panetterie. E infine, proprio di fianco alla sale c'è un bel cartello grande con le istruzioni su come comportarsi nel caso arrivi all'improvviso un uragano.
E' il cinema dei poveri, il cinema del popolo, il cinema dei nostalgici. Senza nemmeno l'ombra dell'intellettualismo del cineclub, senza un millesimo del senso degli affari del multisala americano. La gente paga ed entra, senza farsi troppe domande. Costa così poco che se il fim non piace ce ne si può andare in qualunque momento senza troppi rimpianti. O in alterativa, si può decidere di restare e pensare ai fatti propri, mentre nella misteriosa sala buia le coppie si sbaciucchiano e i ragazzetti commentano ad alta voce le curve di tutte le attrici.
La cosa particolare di questo cinema è che i film sono irrilevanti. Non si va al Globe per vedere questo o quel film. Si va per passare quattro ore di fila in un pomeriggio o una serata in cui non si ha nulla in programma. Dico quattro ore perchè con lo stesso biglietto si vedono due film, a conferma di quanto detto sulla marginale importanza di ciò che si vede. C'è una sala sola, quindi non c'è scelta. E i film sono immancabilmente bruttissimi. Polpettoni holliwoodiani della peggior specie, dalla commedia di serie B al musical all'attacco degli extraterresti.
Ma il Globe ha anche un grande fascino. C'è sempre poca gente e lotta per restare aperto, ultimo cimelio di una concezione del cinema che ormai è stata soppiantata dal più moderno e banalissimo multisala Movietown con centro commerciale annesso, proprio fuori città. Le sedie sono scomode e il locale è polveroso, ma c'è uno schermo sconfinato e la sala enorme odora di vecchio. Il biglietto per due film costa il prezzo ridicolo di 2 soli dollari USA, mentre l'americanissimo Movietown chiede normalmente 7-8 dollari per un solo film. C'è un barettino che offre cibo dall'aria sospetta, hot dog verdastri e le solite bibite dolcissime che vanno di moda nel Caribe. I pacchettini di pop-corn sono minuscoli ma costano 30 centesimi di dollaro e vengono dati in una carta marroncina come quella delle panetterie. E infine, proprio di fianco alla sale c'è un bel cartello grande con le istruzioni su come comportarsi nel caso arrivi all'improvviso un uragano.
E' il cinema dei poveri, il cinema del popolo, il cinema dei nostalgici. Senza nemmeno l'ombra dell'intellettualismo del cineclub, senza un millesimo del senso degli affari del multisala americano. La gente paga ed entra, senza farsi troppe domande. Costa così poco che se il fim non piace ce ne si può andare in qualunque momento senza troppi rimpianti. O in alterativa, si può decidere di restare e pensare ai fatti propri, mentre nella misteriosa sala buia le coppie si sbaciucchiano e i ragazzetti commentano ad alta voce le curve di tutte le attrici.
venerdì 18 aprile 2008
Clarissa's birthday
E' stata una bellissima festa. Il complenno di Clarissa un mese dopo.
In realtà il lime è cominciato molto prima, quando siamo fuggite dal nostro stand verso le due del pomeriggio e in un moto di ribellione abbiamo deciso che non saremmo tornate in ufficio. Ci siamo rintanate in casa sua, fresca e legnosa nell'afa del pomeriggio. Mi piaceva stare seduta sul pavimento in quella stanzetta piena di libri, di polvere, di piccoli dettagli femminili, tazze da thé fiorate, cartoline colorate, poesie appese alle pareti e candele, in un ordine-disordine che mi metteva a mio agio. Sembrava di essere in una casa nel bosco, col sole cocente che entrava obliquo dalle finestre, dopo essere passato attraverso mille filtri di foglie, il verde carnoso delle piante oltre ai vetri, gli uccelli che gridavano assordanti nel giardino. Invece eravamo semplicemente a Woodbrook. Abbiamo parlato, continuando una conversazione cominciata lunedì sera con cinque bicchieri di vino e otto ore di parole ininterrotte, una conversazione esplosa come un vulcano dopo due mesi di reciproci sguardi circospetti. Lei ha letto ad alta voce il mio oroscopo, io ho letto ad alta voce il suo, sviscerandone ogni aspetto con precisione scientifica. Poi è arrivata Orisha, e abbiamo letto solo poesia.
Nel tardo pomeriggio abbiamo cominciato i preparativi per la festa, e siamo andate a comprare la pasta della pizza da Vittorio, uno dei 5 italiani sull'isola, ex leoncavallino fallito che ha aperto un ristorante fallimentare pieno di stereotipi sull'Italia a Port of Spain, per l'unica ragione che a suo parere Trinidad è l'isola piu' vera dei Caraibi. Tornate trionfanti con quel prezioso tesoro, abbiamo invaso la cucina e con essa lo spazio vitale dei coinquilini di Clarissa. Una ragazza madre trinidina che ha quasi sempre vissuto a Londra, con un misterioso accento misto che calza a pennello col suo sorriso dolce e meticcio. Un giovane scrittore inglese dal fascino un po' facile. Un dirompente trini alto alto e grosso grosso che balla benissimo e che per tutta la sera ci ha lanciato addosso brani di festosissima musica carnevalesca. E per finire il piccolo di sei anni, un bambino che sprizza simpatia da tutti i pori, abituato a vivere in quella casa di giovani giramondo con le porte sempre aperte, il vento nel soggiorno, e gente che va e viene senza ragione apparente.
E' stato lui a stendere la pizza, usando una bottiglia di vino vuota come mattarello, mentre Clarissa mi diceva che sicuramente era più bravo di me visto che io sono Padana ergo la pizza vera non so nemmeno che cosa sia. Lui era felicissimo mentre impastava con le manine infarinate, e noi gli ballavamo intorno con i bicchieri di vino in mano. Ha cominciato a venire gente, non molti ma molto ben scelti, e io mi sono trovata come sempre a tenere intere, articolate conversazioni con perfetti sconosciuti, nella veranda in legno bianco. La musica era alta, il vino si versava, noi sfornavamo una pizza dopo l'altra tra i gridolini entusiasti del nostro piccolo amico. L'atmosfera generale era un'improbabile combinazione di cool party e di family reunion, di eccitazione e rilassamento, c'era chi ballava sfrenatamente nel mezzo del soggiorno e chi stava spaparanzato sul divano a piedi nudi. Arrivavano e se ne andavano persone che non si è mai capito se fossero amici di Clarissa o meno, e ad un certo punto è arrivata anche la madre del conquilino trini, una signora sessantenne con unghie di cinque centimetri tutte di colori diversi e capelli negri ossigenati che ballava sorridendo, perfettamente a suo agio con la vita. C'è stata anche una bella torta per Clarissa, con le candeline colorate su cui lei ha soffiato e ha espresso un desiderio, come si fa quando si è piccoli.
Forse il momento più bello della serata è stato quando Clarissa, il piccolino ed io ci siamo trovati seduti in cerchio a gambe incrociate sul tappeto, a giocare a scopa con un mazzo di carte napoletane. Incredibile vedere quel bimbetto caraibico che giocava a quel gioco di carte che mi avevano insegnato secoli fa i miei nonni, e che per quanto ne so nel Bel Paese sta finendo nel dimenticatoio insieme ai dialetti. Clarissa lo chiamava sweep. Lui era un bravo allievo, ci ha battute entrambe, forse leggermente aiutato dal tasso alcolico nel nostro sangue. E a un certo punto non riuscendo a contenere tutta quella contentezza nel suo piccolo petto si è messo a ridere, ha buttato la testa all'indietro, e ha gridato a squarciagola: This is the best day of my life!
In realtà il lime è cominciato molto prima, quando siamo fuggite dal nostro stand verso le due del pomeriggio e in un moto di ribellione abbiamo deciso che non saremmo tornate in ufficio. Ci siamo rintanate in casa sua, fresca e legnosa nell'afa del pomeriggio. Mi piaceva stare seduta sul pavimento in quella stanzetta piena di libri, di polvere, di piccoli dettagli femminili, tazze da thé fiorate, cartoline colorate, poesie appese alle pareti e candele, in un ordine-disordine che mi metteva a mio agio. Sembrava di essere in una casa nel bosco, col sole cocente che entrava obliquo dalle finestre, dopo essere passato attraverso mille filtri di foglie, il verde carnoso delle piante oltre ai vetri, gli uccelli che gridavano assordanti nel giardino. Invece eravamo semplicemente a Woodbrook. Abbiamo parlato, continuando una conversazione cominciata lunedì sera con cinque bicchieri di vino e otto ore di parole ininterrotte, una conversazione esplosa come un vulcano dopo due mesi di reciproci sguardi circospetti. Lei ha letto ad alta voce il mio oroscopo, io ho letto ad alta voce il suo, sviscerandone ogni aspetto con precisione scientifica. Poi è arrivata Orisha, e abbiamo letto solo poesia.
Nel tardo pomeriggio abbiamo cominciato i preparativi per la festa, e siamo andate a comprare la pasta della pizza da Vittorio, uno dei 5 italiani sull'isola, ex leoncavallino fallito che ha aperto un ristorante fallimentare pieno di stereotipi sull'Italia a Port of Spain, per l'unica ragione che a suo parere Trinidad è l'isola piu' vera dei Caraibi. Tornate trionfanti con quel prezioso tesoro, abbiamo invaso la cucina e con essa lo spazio vitale dei coinquilini di Clarissa. Una ragazza madre trinidina che ha quasi sempre vissuto a Londra, con un misterioso accento misto che calza a pennello col suo sorriso dolce e meticcio. Un giovane scrittore inglese dal fascino un po' facile. Un dirompente trini alto alto e grosso grosso che balla benissimo e che per tutta la sera ci ha lanciato addosso brani di festosissima musica carnevalesca. E per finire il piccolo di sei anni, un bambino che sprizza simpatia da tutti i pori, abituato a vivere in quella casa di giovani giramondo con le porte sempre aperte, il vento nel soggiorno, e gente che va e viene senza ragione apparente.
E' stato lui a stendere la pizza, usando una bottiglia di vino vuota come mattarello, mentre Clarissa mi diceva che sicuramente era più bravo di me visto che io sono Padana ergo la pizza vera non so nemmeno che cosa sia. Lui era felicissimo mentre impastava con le manine infarinate, e noi gli ballavamo intorno con i bicchieri di vino in mano. Ha cominciato a venire gente, non molti ma molto ben scelti, e io mi sono trovata come sempre a tenere intere, articolate conversazioni con perfetti sconosciuti, nella veranda in legno bianco. La musica era alta, il vino si versava, noi sfornavamo una pizza dopo l'altra tra i gridolini entusiasti del nostro piccolo amico. L'atmosfera generale era un'improbabile combinazione di cool party e di family reunion, di eccitazione e rilassamento, c'era chi ballava sfrenatamente nel mezzo del soggiorno e chi stava spaparanzato sul divano a piedi nudi. Arrivavano e se ne andavano persone che non si è mai capito se fossero amici di Clarissa o meno, e ad un certo punto è arrivata anche la madre del conquilino trini, una signora sessantenne con unghie di cinque centimetri tutte di colori diversi e capelli negri ossigenati che ballava sorridendo, perfettamente a suo agio con la vita. C'è stata anche una bella torta per Clarissa, con le candeline colorate su cui lei ha soffiato e ha espresso un desiderio, come si fa quando si è piccoli.
Forse il momento più bello della serata è stato quando Clarissa, il piccolino ed io ci siamo trovati seduti in cerchio a gambe incrociate sul tappeto, a giocare a scopa con un mazzo di carte napoletane. Incredibile vedere quel bimbetto caraibico che giocava a quel gioco di carte che mi avevano insegnato secoli fa i miei nonni, e che per quanto ne so nel Bel Paese sta finendo nel dimenticatoio insieme ai dialetti. Clarissa lo chiamava sweep. Lui era un bravo allievo, ci ha battute entrambe, forse leggermente aiutato dal tasso alcolico nel nostro sangue. E a un certo punto non riuscendo a contenere tutta quella contentezza nel suo piccolo petto si è messo a ridere, ha buttato la testa all'indietro, e ha gridato a squarciagola: This is the best day of my life!
giovedì 17 aprile 2008
Assaggio d'Oriente
Sono salita in macchina con lui per andare a comprare qualcosa da mangiare, e sono subito stata affascinata dalla musica araba che regnava nell'abitacolo. Era uno dei volontari UNV, un medico egiziano che stava trascorrendo la giornata con me e Clarissa alla fiera sul mondo del lavoro organizzata per i liceali trinidini. "Tu non puoi capire questa musica", mi ha detto in tono in grave appena sono entrata. Una frase netta e profonda, con una venatura di tristezza. Una frase che parlava direttamente a me, senza convenevoli. Mi ha fatto ricordare come è mi immediato entrare in contatto con gli arabi, così placidi, così gravi, così diversi dal festoso popolo del Caribe. Mi ha fatto sentire autorizzata a fargli subito una domanda personale, così, senza nemmeno conoscerlo. "Ti manca casa?". Lui ha risposto con scandalosa sincerità. "No". Un sì sarebbe stato triste, ma quel no era terribile. Stava parlando a me. Poi ha aggiunto che sebbene fosse egiziano aveva quasi sempre vissuto in Canada. "So Canada is home for you"; "It's supposed to be", mi ha detto in un sospiro, senza vergognarsi della propria desolazione. Nonostante la sua negatività, quella conversazione mi stava calmando. Non mi stava chiedendo comprensione, non stava esigendo nulla da me, semplicemente dialogava. Domande vere, rispose vere. Quando abbiamo aperto le portiere per tornare al nostro stand siamo stati aggraditi da una fortissima musica soca dal solito ritmo sfrenato, vibrante e violento. Il Medio Oriente se ne sarebbe rimasto chiuso in macchina.
mercoledì 16 aprile 2008
Not-such-a-small-world
Difficile non sentirsi soli, ogni tanto.
Nella mia stanza con le tende blu comprate a Downtown Port of Spain, con i quadretti di gatti art nouveau di Montmartre, con il pacchetto quadrato di fiammiferi fregato al ristorante di Berlino, con il volantino del festival du court-métrage di Bruxelles che chissà perchè era rimasto in valigia, con le foto in bianco e nero di Lisbona ritagliate dal giornale distribuito nell'unica buona pizzeria di Baixa-Chiado, con la cartelletta comprata alla cartoleria dell'università di Salamanca e con la cartolina gialla del mio bar preferito di Ginevra appesa sopra al letto. Col mio computer che emette radiomontecarlo che-trasmette-direttamente-dal-principato-di-Monaco e mi fa pensare a quando torno in macchina a Milano alla fine di una serata. Scorro lentamente tutti i miei contatti messenger divisi per nazionalità, tutti categoricamente grigi perchè in Europa sono le quattro di notte.
Difficile quando penso che Ana è a Madrid a cominciare una vita nuova di zecca e non so nemmeno se abbia trovato casa, che Miguel è a qualche rassegna di cinema d'essay a San Paolo, che Yani è su un treno per Bologna che cerca di sopravvivere nonostante tutto, che Amy è in bilico fra due mondi, che ho perso traccia dei sogni di Giò proprio quando mi ha detto che era a un passo dal realizzarli, che Silvia scrive la sua tesi-capolavoro nel suo studio di Parigi. Che tutte le altre persone importanti che ho scovato e custodito come gemme sono ora disperse in città diverse e irreconciliabili. Che mio padre ha buttato il mio numero di telefono, che mia mamma e mio fratello ci sono sempre ma sono confinati alle iconcine di messenger e ai "lol" e ai quindici minuti di teleconferenza con la webcam una volta la settimana.
Difficile non sentirsi soli quando Orisha mi dice che non mi parla profondamente di sè perchè non abbiamo abbastanza ricordi accumulati per definirci amiche; quando Mas torna a dormire nello stesso letto dopo aver fatto finta di scappare e avermi quasi fatto impazzire, e capisco di essere stata la sola ingenua a cadere nella trappola psicologica di implorarlo di restare; quando la mia amica più calda si rivela fin troppo mediorientale e mi aggredisce perchè mi fraintende in continuazione; quando un invito al cinema è in realtà un monito alla cautela estrema per non essere fagocitata.
Quando mi trovo ad uscire con un gruppo di amici che non mi sono potuta scegliere, a cui mi sono aggrappata come a un treno preso al volo senza sapere la destinazione, giusto per non restare a terra; quando capisco che l'unica, l'unica, l'unica amicizia consapevolmente e liberamente scelta su quest'isola resterà per sempre un rapporto virtuale, e allora che diavolo di differenza c'è con gli amici in Europa; quando mi rendo conto che con Clarissa ci sono più somiglianze di quanto sembri e la vedo fragile e ferita, e ho paura di essere inevitabilmente destinata anche io ad accumulare tutta quella mole di fragilità, tutta quella massa di ferite.
Nella mia stanza con le tende blu comprate a Downtown Port of Spain, con i quadretti di gatti art nouveau di Montmartre, con il pacchetto quadrato di fiammiferi fregato al ristorante di Berlino, con il volantino del festival du court-métrage di Bruxelles che chissà perchè era rimasto in valigia, con le foto in bianco e nero di Lisbona ritagliate dal giornale distribuito nell'unica buona pizzeria di Baixa-Chiado, con la cartelletta comprata alla cartoleria dell'università di Salamanca e con la cartolina gialla del mio bar preferito di Ginevra appesa sopra al letto. Col mio computer che emette radiomontecarlo che-trasmette-direttamente-dal-principato-di-Monaco e mi fa pensare a quando torno in macchina a Milano alla fine di una serata. Scorro lentamente tutti i miei contatti messenger divisi per nazionalità, tutti categoricamente grigi perchè in Europa sono le quattro di notte.
Difficile quando penso che Ana è a Madrid a cominciare una vita nuova di zecca e non so nemmeno se abbia trovato casa, che Miguel è a qualche rassegna di cinema d'essay a San Paolo, che Yani è su un treno per Bologna che cerca di sopravvivere nonostante tutto, che Amy è in bilico fra due mondi, che ho perso traccia dei sogni di Giò proprio quando mi ha detto che era a un passo dal realizzarli, che Silvia scrive la sua tesi-capolavoro nel suo studio di Parigi. Che tutte le altre persone importanti che ho scovato e custodito come gemme sono ora disperse in città diverse e irreconciliabili. Che mio padre ha buttato il mio numero di telefono, che mia mamma e mio fratello ci sono sempre ma sono confinati alle iconcine di messenger e ai "lol" e ai quindici minuti di teleconferenza con la webcam una volta la settimana.
Difficile non sentirsi soli quando Orisha mi dice che non mi parla profondamente di sè perchè non abbiamo abbastanza ricordi accumulati per definirci amiche; quando Mas torna a dormire nello stesso letto dopo aver fatto finta di scappare e avermi quasi fatto impazzire, e capisco di essere stata la sola ingenua a cadere nella trappola psicologica di implorarlo di restare; quando la mia amica più calda si rivela fin troppo mediorientale e mi aggredisce perchè mi fraintende in continuazione; quando un invito al cinema è in realtà un monito alla cautela estrema per non essere fagocitata.
Quando mi trovo ad uscire con un gruppo di amici che non mi sono potuta scegliere, a cui mi sono aggrappata come a un treno preso al volo senza sapere la destinazione, giusto per non restare a terra; quando capisco che l'unica, l'unica, l'unica amicizia consapevolmente e liberamente scelta su quest'isola resterà per sempre un rapporto virtuale, e allora che diavolo di differenza c'è con gli amici in Europa; quando mi rendo conto che con Clarissa ci sono più somiglianze di quanto sembri e la vedo fragile e ferita, e ho paura di essere inevitabilmente destinata anche io ad accumulare tutta quella mole di fragilità, tutta quella massa di ferite.
martedì 15 aprile 2008
Jam session
Sabato sera Orisha mi ha riportata nella sala prove dei tre musicisti. Non ero entusiasta di andare, mi sembrava che fra tutti gli amici che mi aveva presentato i musicisti fossero quelli con cui avevo meno in comune, con cui mi sentivo meno a mio agio. Ma mi sono fatta coraggio e sono andata, "in fondo non sono qui per essere in situazioni familiari". Ed effettivamente è bastato tornare una seconda volta in quella stanza per sentirmi più tranquilla, per connettere meglio con loro tre. Un'ulteriore prova di quanto stia divetando fulminea nella capacità di adattamento.
Il rasta che conosce Orisha da anni le ha detto solo una frase. "C'è un microfono: usalo". Lei non se lo è fatto ripetere due volte, ed è così che ho fatto conoscenza con l'anima da star della mia rude coinquilina. A quanto pare lei era abituata ai microfoni. Mi aveva detto che tempo addietro era stata selezionata da un pool di poeti trinidini di fama mondiale, tra cui anche uno dei premi Nobel per la letteratura, e se ne andava in giro in una carovana con loro e altri giovani poeti e musicisti a declamare ai quattro angoli di Trinidad la loro arte. Mi aveva detto che secondo un ranking informale lei era stata giudicata la seconda giovane poetessa più promettente dell'isola. Poi aveva smesso, ed era per questo che tutti, ogni volta che la vedevano, le chiedevano quando sarebbe tornata alla ribalta.
Credo che proprio in questi giorni abbia cominciato a pensare alla possibilità di un comeback, e il tentativo numero uno è stato fatto sabato scorso nella saletta fumosa, con me come sola spettatrice. E' stato bello. I ragazzi suonavano una base. Chitarra, batteria, basso. Soft, d'accompagnamento. Lei parlava, recitava, a braccio, improvvisando in jam session. Certe frasi avevano senso, certe no. Inizialmente titubante, poi più sicura. Un'improvvisazione su un tema. Una declamazione in musica. Non avevo mai assistito ad un esperimento musicale di quel tipo.
La cosa più bella però è successa alla fine, quando lei ha dedicato una poesia a me. Vivi is in transition, il titolo. Già domenica scorsa, mentre guardavamo le nuvole, aveva cominciato a canticchiare Vivi is in transition, left the familiar faces behind, is all alone in Trinidad. Era una specie di scherzo. Sabato l'ha ripresa, e l'ha elaborata. Io ascoltavo quello parole in musica dirette a me, mentre gli altri suonavano concentrati. Descriveva la mia situazione. Mi diceva di non preoccuparmi. Mi diceva di vivere le cose giorno per giorno. Di prendere il mio tempo. Il rasta ha cominciato a farci gorgheggi, l'altro ragazzo effeti sonori. Orisha ripeteva il ritornello, e il terzo ci intercalava qualche assolo. Io sorridevo muta in un angolo, piena di gratitudine.
Era il modo di Orisha di starmi vicino. Non mi avrebbe sorriso, non mi avrebbe abbracciata, non mi avrebbe chiesto come è andata oggi. Ma mi stava dedicando una canzone in una buia sala prove in St. James, piena di cenere sul pavimento e di raccoglitori per uova ammonticchiati negli angoli.
Il rasta che conosce Orisha da anni le ha detto solo una frase. "C'è un microfono: usalo". Lei non se lo è fatto ripetere due volte, ed è così che ho fatto conoscenza con l'anima da star della mia rude coinquilina. A quanto pare lei era abituata ai microfoni. Mi aveva detto che tempo addietro era stata selezionata da un pool di poeti trinidini di fama mondiale, tra cui anche uno dei premi Nobel per la letteratura, e se ne andava in giro in una carovana con loro e altri giovani poeti e musicisti a declamare ai quattro angoli di Trinidad la loro arte. Mi aveva detto che secondo un ranking informale lei era stata giudicata la seconda giovane poetessa più promettente dell'isola. Poi aveva smesso, ed era per questo che tutti, ogni volta che la vedevano, le chiedevano quando sarebbe tornata alla ribalta.
Credo che proprio in questi giorni abbia cominciato a pensare alla possibilità di un comeback, e il tentativo numero uno è stato fatto sabato scorso nella saletta fumosa, con me come sola spettatrice. E' stato bello. I ragazzi suonavano una base. Chitarra, batteria, basso. Soft, d'accompagnamento. Lei parlava, recitava, a braccio, improvvisando in jam session. Certe frasi avevano senso, certe no. Inizialmente titubante, poi più sicura. Un'improvvisazione su un tema. Una declamazione in musica. Non avevo mai assistito ad un esperimento musicale di quel tipo.
La cosa più bella però è successa alla fine, quando lei ha dedicato una poesia a me. Vivi is in transition, il titolo. Già domenica scorsa, mentre guardavamo le nuvole, aveva cominciato a canticchiare Vivi is in transition, left the familiar faces behind, is all alone in Trinidad. Era una specie di scherzo. Sabato l'ha ripresa, e l'ha elaborata. Io ascoltavo quello parole in musica dirette a me, mentre gli altri suonavano concentrati. Descriveva la mia situazione. Mi diceva di non preoccuparmi. Mi diceva di vivere le cose giorno per giorno. Di prendere il mio tempo. Il rasta ha cominciato a farci gorgheggi, l'altro ragazzo effeti sonori. Orisha ripeteva il ritornello, e il terzo ci intercalava qualche assolo. Io sorridevo muta in un angolo, piena di gratitudine.
Era il modo di Orisha di starmi vicino. Non mi avrebbe sorriso, non mi avrebbe abbracciata, non mi avrebbe chiesto come è andata oggi. Ma mi stava dedicando una canzone in una buia sala prove in St. James, piena di cenere sul pavimento e di raccoglitori per uova ammonticchiati negli angoli.
Scale
Giovedì Jesus è tornato a casa ubriaco. Stavo parlando con Orisha nel sottobosco quando lui è entrato dal cancello, lentamente, scoodinatamente. Si è avvicinato, e mi imbarazzava vederlo così. Non ce la facevo a continuare la conversazone, me ne sono dovuta andare. Mentre tornavo verso le mie scale lui mi ha seguita. Mi ha chiesto di sedermi sui gradini. Mi ci sono seduta. Si è seudto di fianco a me. Mi ha detto delle frasi.
Mi diceva che era attratto da me. Lo sapevo già, ne avevamo già parlato, a lungo. Mi teneva la mano. Mi diceva. You are so tender. Lo diceva lentamente, a bassa voce. Mi diceva che il problema era che non mi vedeva mai. Gli dicevo che non volevo vederlo in quello stato, che non capivo perchè si voleva fare del male da solo. Mi chiedeva perchè non mi piaceva. Una domanda a cui non è mai possibile rispondere. Mi guardava. Mi diceva. You. Are. The. Person. That. I. Wish. I. Had. Me lo diceva piano, e ogni parola era un pugno. Mi diceva queste cose, e io stavo malissimo. Gli dicevo che era una conversazione inutile perchè l'indomani non avrebbe ricordato nulla. Lui negava. A un certo punto mi ha perfino detto che mi ha sognata. Anzi. Che ha sognato che. Ero. Incinta. Di. Lui. Che. Ero. La. Madre. Di. Suo. Figlio...
Il giorno dopo mi ha chiamato alla finestra e mi ha chiesto di scendere. Era sobrio, e si è scusato per tutte le cose che non avrebbe dovuto dirmi.
Mi diceva che era attratto da me. Lo sapevo già, ne avevamo già parlato, a lungo. Mi teneva la mano. Mi diceva. You are so tender. Lo diceva lentamente, a bassa voce. Mi diceva che il problema era che non mi vedeva mai. Gli dicevo che non volevo vederlo in quello stato, che non capivo perchè si voleva fare del male da solo. Mi chiedeva perchè non mi piaceva. Una domanda a cui non è mai possibile rispondere. Mi guardava. Mi diceva. You. Are. The. Person. That. I. Wish. I. Had. Me lo diceva piano, e ogni parola era un pugno. Mi diceva queste cose, e io stavo malissimo. Gli dicevo che era una conversazione inutile perchè l'indomani non avrebbe ricordato nulla. Lui negava. A un certo punto mi ha perfino detto che mi ha sognata. Anzi. Che ha sognato che. Ero. Incinta. Di. Lui. Che. Ero. La. Madre. Di. Suo. Figlio...
Il giorno dopo mi ha chiamato alla finestra e mi ha chiesto di scendere. Era sobrio, e si è scusato per tutte le cose che non avrebbe dovuto dirmi.
Partenza
Sono appena tornata a casa da una lunghissima serata con Clarissa. Entro dal cancello e vedo Mas. E' molto che non parlo con lui, da quando mi sono avvicinata a Jesus mi sembra che fra noi si sia creato un muro. Sembra che lui mi abbia detto "o me o lui". Lo saluto brevemente, faccio per salire le scale, e lui mi chiama standendomi la mano. "Vivi, ti volevo salutare, questa è l'ultima volta che mi vedi". Io mi volto incredula. "Che cosa?". "Me ne vado". "Cosa vuol dire che te ne vai?". "Vedi la macchina qui fuori? Ho già caricato tutto. Non posso più stare qui". C'è davvero una macchina là fuori, io mi allarmo. "Ma cosa significa, perchè? E' a causa di Jesus?". "E' a causa di tutto, è tanto che me ne voglio andare". "Ma dove vai?" "Non so" "Come non sai? Che cosa dici? Mas, ti prego, non fare sciocchezze. Te ne stai andando veramente? Perchè non ti prendi un po' di tempo finchè non trovi un'altra sistemazione? Dove stai scappando?" "Ho già svuotato la stanza". "Fammela vedere. " Andiamo in camera sua, la stanza era vuota. "Dio mio, Mas, cosa farai?". "Non so". "Dove dormirai?". "Me la sono sempre cavata, sono in giro da quando ho undici anni". "Mas perchè non dormi qui stanotte e poi ne parliamo?". "No". "Dove dormirai stanotte?". Mi venva da piangere. "Da mia madre". "Dove abita?". "In un'altra città". "Ti ci porta il tuo amico in macchina?". "Sì". "E starai lì stabile?". "Non credo". "Dove andrai?" ."Non so". "Mas promettimi che non dormirai in starada". "Non posso". "Prometti". "Non posso". "Promettimi che mi chiami". Silenzio. "Promettimi che mi chiami se hai problemi". Toglie lo sguardo. "Prometimi che mi chiami il primo giorno che non dormi sotto un tetto". Mi guarda. "Mas, io non conto niente per te, siamo stati coinquilini per due mesi, ci siamo parlati 5 o 6 volte, tu non sai nulla di me, io non so nulla di te, ma se mai c'è stata un minimo di... simpatia. Ti chiedo solo questo. Chiamami il primo giorno che non dormi sotto un tetto". Silenzio. "Ti chiedo solo questo, Mas". Lui tira fuori il cellulare. "Ridammi il tuo numero, Vivi". Glielo ridò. Mi dà in mano le sue chiavi. Poi esce dal cancello, senza più salutare.
domenica 13 aprile 2008
Stalkers
Un altro fenomeno fondamentale per comprendere la cultura trinidina è quello dello stalker. Lo stalker è colui (o colei) che ossessivamente e inopportuamente contatta, chiama, tampina un'altra persona da cui è morbosamente attratto. Il tristo fenomeno dello stalker è diffuso in tutto il mondo, ma qui è paricolarmente acuto, o almeno molto più acuto che in Europa. E' difficile trovare una ragazza che non ne abbia avuto esperienza, indipendentemente dal suo oggettivo grado di sex appeal.
A volte lo stalker comincia con una telefonata a un numero casuale, e se capita che gli risponde una ragazza con una voce sufficientemente eccitante i contatti possono continuare, insistentemente e indefinitamente. A volte addirittura lo stalker chiama perchè sentire quella specifica voce femminile gli consente di terminare il suo viaggio solitario verso l'orgasmo. La maggior parte delle volte però lo stalker conosce la vittima, almeno superficialmente. Una mia collega che ha lavorato con degli ex detenuti per un workshop se ne è trovati due ad infiammarle il telefono. Ci sono anche stalker dello stesso sesso, ovviamente. La proprietaria della casa di Maracas Bay dove ho passato il weekend di Pasqua è diventata uno degli stalkers di Orisha, la chiama, la va a trovare al lavoro. Nella maggior parte dei casi non sono persone pericolose, solo fastidiose. Dal punto di vista di chi è tampinato. Solo molto sole, dal punto di vista di chi tampina.
Questa modalità di interagire è uno dei frutti marci di questa società difficile. Dell'individualismo che schiaccia i più deboli ai margini. Di una carnalità molto presente. Del mordi e fuggi così esplicito nei rapporti umani. E la situazione che si crea è perversa. Lo stalker si presenta come vittima del fascino dell'amata. Però con la sua presenza non richiesta, ossessiva e impositiva è in realtà il vero oppressore. E più l'amata sarà educata e sensibile, meno lei vorrà fare del male al suo persecutore, più lui ne approfitterà per accerchiarla. E' una situazione odiosa perchè obbliga alla cattiveria, obbliga a mandare al diavolo. Obbliga anche chi non vuole a fare parte del mondo crudele di chi opprime lo stalker e lo riduce a cercare nel tampinamento una via d'uscita alla solitudine. Ancora una volta, mangiare o essere mangiati, con parole d'amore come condimento.
A volte lo stalker comincia con una telefonata a un numero casuale, e se capita che gli risponde una ragazza con una voce sufficientemente eccitante i contatti possono continuare, insistentemente e indefinitamente. A volte addirittura lo stalker chiama perchè sentire quella specifica voce femminile gli consente di terminare il suo viaggio solitario verso l'orgasmo. La maggior parte delle volte però lo stalker conosce la vittima, almeno superficialmente. Una mia collega che ha lavorato con degli ex detenuti per un workshop se ne è trovati due ad infiammarle il telefono. Ci sono anche stalker dello stesso sesso, ovviamente. La proprietaria della casa di Maracas Bay dove ho passato il weekend di Pasqua è diventata uno degli stalkers di Orisha, la chiama, la va a trovare al lavoro. Nella maggior parte dei casi non sono persone pericolose, solo fastidiose. Dal punto di vista di chi è tampinato. Solo molto sole, dal punto di vista di chi tampina.
Questa modalità di interagire è uno dei frutti marci di questa società difficile. Dell'individualismo che schiaccia i più deboli ai margini. Di una carnalità molto presente. Del mordi e fuggi così esplicito nei rapporti umani. E la situazione che si crea è perversa. Lo stalker si presenta come vittima del fascino dell'amata. Però con la sua presenza non richiesta, ossessiva e impositiva è in realtà il vero oppressore. E più l'amata sarà educata e sensibile, meno lei vorrà fare del male al suo persecutore, più lui ne approfitterà per accerchiarla. E' una situazione odiosa perchè obbliga alla cattiveria, obbliga a mandare al diavolo. Obbliga anche chi non vuole a fare parte del mondo crudele di chi opprime lo stalker e lo riduce a cercare nel tampinamento una via d'uscita alla solitudine. Ancora una volta, mangiare o essere mangiati, con parole d'amore come condimento.
Postilla
Non è per rovinare il post di ieri, ma mi sento in dovere di specificare un dettaglio che sull'onda dell'entusiasmo non ho affatto lasciato trasparire. Il vero motivo per cui Micheal e l'Artista ci stavano portando fuori era perchè fondamentalmente miravano a farci finire nei loro letti. E' pure venuto fuori in modo abbastanza inequivocabile, ad un certo specifico momento. Questo non toglie nulla al fascino della serata. Era solo per dire che non siamo amici, e con tutta probabilità appena le cose saranno abbastanza chiare da parte nostra - forse lo sono già? - svaniranno magicamente, così come sono comparsi.
sabato 12 aprile 2008
The perfect night
Sono le otto di mattina e si è appena conclusa una delle più fantastiche notti che io mi ricordi. Nonostante tutto non sono ancora stanca, e ho voglia di registrare queste belle sensazioni prima che si diluiscano nel sonno.
Mi ha invitato Micheal, a sorpresa. Un amico di Orisha molto in vista nella scena ONG trinidina, che copre un'alta posizione in un'organizzaione importante e che compare in televisione praticamente tutte le settimane. Lo conosco relativamente poco, ma essendo estroversissimo mi lancia l'idea di unirmi a lui per andare a un concerto in un localino di cui avevo sentito parlare molto bene. Accetto volentieri portandomi dietro la mia amica iraniana, una vera bomba sociale, fragorosa e salace. Lui passa a prendermi in compagnia del suo amico Artista, uno dei più grandi giovani pittori inglesi che espone regolarmente a Parigi-Londra-New York, convertitosi ad abitare a Trinidad. La serata comincia benissimo nella sua fenomenale Land Rover. Un'enorme jeep verde militare in cui il solo fatto di stare seduti sul sedile dà la sensazione di essere degli eroi di un film.
Il locale è molto figo, piccolo, tutto bianco e nero, con un minuscolo palchetto e la gente stipata in piedi. Sembra di essere stati catapultati in un localino trendy di Barcellona o del Bairro Alto di Lisbona. I concerti in realtà erano tre, di tre band di cui non ricordo nulla se non il fatto che sono famose e che suonano benissimo. E soprattutto che suonano musica rock, proprio come in Europa, e al diavolo questa soca che si sente ovunque e che non so mai ballare. E balliamo, eccome se balliamo! Senza cena e con tre birre e chissenefrega degli antibiotici. Balliamo, balliamo, balliamo senza interruzione, ed è così bello e facile poter ballare a modo mio... Sono così felice, la musica è così normale, il posto è così perfetto. A un certo punto addirittura una ragazza mi viene vicino e mi dice: "I love your dancing". Meraviglioso ricevere un compimento da una donna.
Ballo con tanta gente, con la mia amica, con Micheal, con l'Artista. Micheal è simpaticissimo e sembra che abbia un'intesa speciale con la mia amica iraniana. L'Artista vibra con l'atmosfera del locale, anche se non può liberarsi di quella patina britannica che esclude che possa ballare veramente bene. E mentre ballo con loro penso che è bellissimo passare la serata con la mia amica meravigliosa e con quei due ragazzi così interessanti, così di successo, così cool e trovarmici bene, ed erano pure carini... e allo stesso tempo avere la sensazione liberatoria di non essere veramente attratta da nessuno dei due, di non avere bisogno di giocarci, di avere solo voglia di dirvertirci tutti insieme. Tutto è uno scherzo, una festa, facciamo un milione di foto. Quando il locale accende le luci alle 4:30 mi rendo conto che abbiamo ballato per circa cinque ore senza sosta. Non esiste nulla di più bello al mondo...
Facciamo un po' di liming nel locale mentre i camerieri puliscono il bancone, e i ragazzi carpiscono altre due fanciulle. La prima una tipina molto hip che ha un negozio di tatuaggi e che sta per aprire uno spazio artistico espositivo. La seconda niente meno che miss Trinidad and Tobago, ovviamente uno schianto di ragazza, e pure simpatica. Ripartiamo tutti e sei in jeep e ci dirigiamo come sempre a St James, il regno dei chioschetti notturni con tutte le cibarie delizose dove tutti i nottambuli finiscono le loro serate. Il nostro gruppetto emana un'atmosfera da festa, da serata pienissima, da alchimia di gente che non si conosce nemmeno e che miracolosamente sta pasando una serata eccezionale. Il sole sta sorgendo, noi mangiamo squalo fritto e diciamo un sacco di nonsense.
E a quel punto, quando chiunque avrebbe ringraziato il cielo della serata eccezionale e sarebbe tornato a casa felice e contento, a noi parte l'idea di andare in spiaggia. Così, estemporanea. Senza fare un referendum nè un sondaggio di opinioni saltiamo sulla megajeep e l'Artista si dirige precipitosamente verso la strada che porta al mare. Sono le sei passate, c'è la luce fresca del primo mattino, e noi sei in questa macchina da rambo ci troviamo da un momento all'altro in questo stradino in mezzo alla campagna trinidina, stretto e sterrato, circondato da palme e manghi e montagne fitte di foresta tropicale.
Arriviamo alla spiaggia, un'insenatura nel verde che è stata ricavata artificialmente dagli Americani quanto hanno messo le loro basi a Trinidad durante la seconda guerra mondiale. Ovviamente ci chiediamo chi avrebbe fatto il bagno, e ovviamente nessuno lo vuole fare veramente. Tranne l'Artista folle che vuole tutto dalla vita. E tranne me, che se vedo il mare non ce la faccio a trattenermi. E senza pensarci due volte mi tuffo nell'acqua vere e tiepida di quell'insenatura. Esco al volo, mi ri-infilo subito jeans e maglietta, e poi seduta di fronte al mare rimango qualche minuto a godermi la sensazione multipla e stupenda dei muscoli stanchi per le danze, del sale sulla pelle, del profumo del mare, degli amici che dicono che non si aspettavano che mi tuffassi davvero. E io prendo in giro Michael e gli dico lame, lame, lame per non esserti buttato!
A quel punto finalmente ci riavviamo verso Port of Spain, ancora increduli per la notte lunghissima e magnifica che abbiamo appena vissuto. Riaccompagnamo a casa tutti, uno per uno, rimango io per ultima. Non sono per niente stanca. Salto fuori dalla macchina con le scarpe in mano, come una piccola selvaggia. Mi sento tutta rischiarata da una sensazone limpidissima di eccitazione e felicità.
Mi ha invitato Micheal, a sorpresa. Un amico di Orisha molto in vista nella scena ONG trinidina, che copre un'alta posizione in un'organizzaione importante e che compare in televisione praticamente tutte le settimane. Lo conosco relativamente poco, ma essendo estroversissimo mi lancia l'idea di unirmi a lui per andare a un concerto in un localino di cui avevo sentito parlare molto bene. Accetto volentieri portandomi dietro la mia amica iraniana, una vera bomba sociale, fragorosa e salace. Lui passa a prendermi in compagnia del suo amico Artista, uno dei più grandi giovani pittori inglesi che espone regolarmente a Parigi-Londra-New York, convertitosi ad abitare a Trinidad. La serata comincia benissimo nella sua fenomenale Land Rover. Un'enorme jeep verde militare in cui il solo fatto di stare seduti sul sedile dà la sensazione di essere degli eroi di un film.
Il locale è molto figo, piccolo, tutto bianco e nero, con un minuscolo palchetto e la gente stipata in piedi. Sembra di essere stati catapultati in un localino trendy di Barcellona o del Bairro Alto di Lisbona. I concerti in realtà erano tre, di tre band di cui non ricordo nulla se non il fatto che sono famose e che suonano benissimo. E soprattutto che suonano musica rock, proprio come in Europa, e al diavolo questa soca che si sente ovunque e che non so mai ballare. E balliamo, eccome se balliamo! Senza cena e con tre birre e chissenefrega degli antibiotici. Balliamo, balliamo, balliamo senza interruzione, ed è così bello e facile poter ballare a modo mio... Sono così felice, la musica è così normale, il posto è così perfetto. A un certo punto addirittura una ragazza mi viene vicino e mi dice: "I love your dancing". Meraviglioso ricevere un compimento da una donna.
Ballo con tanta gente, con la mia amica, con Micheal, con l'Artista. Micheal è simpaticissimo e sembra che abbia un'intesa speciale con la mia amica iraniana. L'Artista vibra con l'atmosfera del locale, anche se non può liberarsi di quella patina britannica che esclude che possa ballare veramente bene. E mentre ballo con loro penso che è bellissimo passare la serata con la mia amica meravigliosa e con quei due ragazzi così interessanti, così di successo, così cool e trovarmici bene, ed erano pure carini... e allo stesso tempo avere la sensazione liberatoria di non essere veramente attratta da nessuno dei due, di non avere bisogno di giocarci, di avere solo voglia di dirvertirci tutti insieme. Tutto è uno scherzo, una festa, facciamo un milione di foto. Quando il locale accende le luci alle 4:30 mi rendo conto che abbiamo ballato per circa cinque ore senza sosta. Non esiste nulla di più bello al mondo...
Facciamo un po' di liming nel locale mentre i camerieri puliscono il bancone, e i ragazzi carpiscono altre due fanciulle. La prima una tipina molto hip che ha un negozio di tatuaggi e che sta per aprire uno spazio artistico espositivo. La seconda niente meno che miss Trinidad and Tobago, ovviamente uno schianto di ragazza, e pure simpatica. Ripartiamo tutti e sei in jeep e ci dirigiamo come sempre a St James, il regno dei chioschetti notturni con tutte le cibarie delizose dove tutti i nottambuli finiscono le loro serate. Il nostro gruppetto emana un'atmosfera da festa, da serata pienissima, da alchimia di gente che non si conosce nemmeno e che miracolosamente sta pasando una serata eccezionale. Il sole sta sorgendo, noi mangiamo squalo fritto e diciamo un sacco di nonsense.
E a quel punto, quando chiunque avrebbe ringraziato il cielo della serata eccezionale e sarebbe tornato a casa felice e contento, a noi parte l'idea di andare in spiaggia. Così, estemporanea. Senza fare un referendum nè un sondaggio di opinioni saltiamo sulla megajeep e l'Artista si dirige precipitosamente verso la strada che porta al mare. Sono le sei passate, c'è la luce fresca del primo mattino, e noi sei in questa macchina da rambo ci troviamo da un momento all'altro in questo stradino in mezzo alla campagna trinidina, stretto e sterrato, circondato da palme e manghi e montagne fitte di foresta tropicale.
Arriviamo alla spiaggia, un'insenatura nel verde che è stata ricavata artificialmente dagli Americani quanto hanno messo le loro basi a Trinidad durante la seconda guerra mondiale. Ovviamente ci chiediamo chi avrebbe fatto il bagno, e ovviamente nessuno lo vuole fare veramente. Tranne l'Artista folle che vuole tutto dalla vita. E tranne me, che se vedo il mare non ce la faccio a trattenermi. E senza pensarci due volte mi tuffo nell'acqua vere e tiepida di quell'insenatura. Esco al volo, mi ri-infilo subito jeans e maglietta, e poi seduta di fronte al mare rimango qualche minuto a godermi la sensazione multipla e stupenda dei muscoli stanchi per le danze, del sale sulla pelle, del profumo del mare, degli amici che dicono che non si aspettavano che mi tuffassi davvero. E io prendo in giro Michael e gli dico lame, lame, lame per non esserti buttato!
A quel punto finalmente ci riavviamo verso Port of Spain, ancora increduli per la notte lunghissima e magnifica che abbiamo appena vissuto. Riaccompagnamo a casa tutti, uno per uno, rimango io per ultima. Non sono per niente stanca. Salto fuori dalla macchina con le scarpe in mano, come una piccola selvaggia. Mi sento tutta rischiarata da una sensazone limpidissima di eccitazione e felicità.
venerdì 11 aprile 2008
Dottore
L’altro ieri sono andata dal dottore. Io odio I dottori, odio le medicine, odio prendermi cura della mia salute, ma ci sono dovuta andare. E come mi e’ gia’ successo piu’ di una volta, mi sono trovata con mia grandissima sorpresa a pensare che quello specifico dottore non era affatto un personaggio detestabile e vigliacco. Anzi mi sembrava posato, intelligente, professionale, Era intento a cercare di capire cosa avessi, mi faceva domande precise, mi spiegava le varie ipotesi, mi raccontava piccoli dettagli interessanti sul corpo umano. Abbiamo perfino fatto una breve chiacchierata sulla situazione della classe medica a Trindad, dei suoi rapporti con il governo, con l’ONU, con la shiera di medici volontari internazionali gestiti da Clarissa. Insomma un bel contatto.
Eppure mentre mi auscultava non potevo non pensare a quello che mi aveva detto Karen proprio prima che uscissi dall'ufficio. “Oh, vai dal dottore ONU? E’ anche il mio medico di famiglia, lo conosco bene. Un bravo dottore. Ma sai una cosa? E’ anche un appassionato di armi, va a sparare al circolo tutti i weekend. Ha sempre una pistola nel cassetto del suo studio. Un giorno una banda di ragazzi e’ entrata per cercare di derubarlo, e lui con molto sangue freddo ha impugnato la sua arma e ha sparato. In faccia. Al ragazzo che stava di fronte. Legittima difesa. Non dirgli che te l’ho detto, mi raccomando!”, ha ammiccato in conclusione. Io ero senza parole.
Eccola tutta qui, l’anima di Trinidad. Complessa, nascosta, misteriosa. Chi e’ chi? Dottore e assassino. Legittima difesa, d’accordo. Ma dottore e assassino. Mi auscultava il petto, mi spiegava come prendere le medicine, aveva tratti indiani e un accento pulito. Aveva sparato in faccia ad un ragazzo, la sedia su cui stavo seduta si era macchiata di sangue. Paese crudele, paese violento, paese del mistero insondabile. Mi spaventa e mi attrae, come la fiamma delle candele su cui mi piace appoggiare le dita e aspettare che si anneriscano, per poi allontanarle in uno scatto appena il fuoco raggiunge la carne viva.
Eppure mentre mi auscultava non potevo non pensare a quello che mi aveva detto Karen proprio prima che uscissi dall'ufficio. “Oh, vai dal dottore ONU? E’ anche il mio medico di famiglia, lo conosco bene. Un bravo dottore. Ma sai una cosa? E’ anche un appassionato di armi, va a sparare al circolo tutti i weekend. Ha sempre una pistola nel cassetto del suo studio. Un giorno una banda di ragazzi e’ entrata per cercare di derubarlo, e lui con molto sangue freddo ha impugnato la sua arma e ha sparato. In faccia. Al ragazzo che stava di fronte. Legittima difesa. Non dirgli che te l’ho detto, mi raccomando!”, ha ammiccato in conclusione. Io ero senza parole.
Eccola tutta qui, l’anima di Trinidad. Complessa, nascosta, misteriosa. Chi e’ chi? Dottore e assassino. Legittima difesa, d’accordo. Ma dottore e assassino. Mi auscultava il petto, mi spiegava come prendere le medicine, aveva tratti indiani e un accento pulito. Aveva sparato in faccia ad un ragazzo, la sedia su cui stavo seduta si era macchiata di sangue. Paese crudele, paese violento, paese del mistero insondabile. Mi spaventa e mi attrae, come la fiamma delle candele su cui mi piace appoggiare le dita e aspettare che si anneriscano, per poi allontanarle in uno scatto appena il fuoco raggiunge la carne viva.
martedì 8 aprile 2008
Viola
Sto passando un po' di tempo con me stessa, e sento che mi fa bene. Ho bisogno di ricentrarmi, di ritrovare il mio equilibrio, di smettere di far dipendere il mio benessere dalla compagnia di altri. Sono un paio di giorni che per combinazione o per scelta non sto con le persone che sento più vicine a me, che vado alla ricerca di una stabilità più autonoma e profonda.
Era tanto che non mi sedevo nel giardino dietro casa. Oggi mi sono messa lì, nella luce viola del tramonto, a riformularmi. Ho cercato di rilettere e mettere insieme i pezzi delle mie sensazioni. Non sto male qui, gorgogliava il mio flusso di coscienza, devo solo superare questa eccessivo desiderio di identificazione con questo posto. Sono diversa, devo accettarlo. Ultimamente mi sto tradendo, mi vedo impegnata ad imitare le persone con cui sto, a farmi una colpa della mia differenza. Mi vedo scivolare nell'abitudine fragile della docilità estrema, mi faccio trasportare in spiaggia, mi faccio guidare da Orisha, mi faccio vedere timida e arrendevole e talmente dolce che nessuno potrebbe rifiutarmi - implorando riconoscimento - appoggiandomi ingiustamente a quel paio di persone gentili che mi sorreggono...
Il sole calava, il cielo sempre più viola, io immobile. Una delle cose che mi disturba di più è che nessuno mi conosce, nessuno sa chi io sia davvero, a nessuno interessano le mie storie. Come posso creare un'intimità con qualcuno se non posso raccontare di me, della mia famiglia, di Miguel, dei miei viaggi, dei miei ricordi sparpagliati sulla cartina dell'Europa? Riflettevo. Forse a loro non interessa la "storia raccontata", forse la grande differenza culturale sta proprio qui. Forse la mia matrice europea mi dice che è la nostra Storia che ci definisce, che è la Storia che definisce ogni identità, in questa incrostatura di hegelismo che mi ha passato il liceo classico. Forse invece qui la storia è solo passato inerte, inutile e inessenziale - la storia non conta - quello che conta è quello che sono qui, ora, con il mio calore, con il mio carattere.
Ce l'ho un carattere, nasconderlo non mi servirà a nulla. Sento che ho quasi finito il mio esercizio, ho quasi ritrovato il mio baricentro. Il sole è tramontato. Ora di andare a buttare via questa maschera da Lucia Mondella.
Era tanto che non mi sedevo nel giardino dietro casa. Oggi mi sono messa lì, nella luce viola del tramonto, a riformularmi. Ho cercato di rilettere e mettere insieme i pezzi delle mie sensazioni. Non sto male qui, gorgogliava il mio flusso di coscienza, devo solo superare questa eccessivo desiderio di identificazione con questo posto. Sono diversa, devo accettarlo. Ultimamente mi sto tradendo, mi vedo impegnata ad imitare le persone con cui sto, a farmi una colpa della mia differenza. Mi vedo scivolare nell'abitudine fragile della docilità estrema, mi faccio trasportare in spiaggia, mi faccio guidare da Orisha, mi faccio vedere timida e arrendevole e talmente dolce che nessuno potrebbe rifiutarmi - implorando riconoscimento - appoggiandomi ingiustamente a quel paio di persone gentili che mi sorreggono...
Il sole calava, il cielo sempre più viola, io immobile. Una delle cose che mi disturba di più è che nessuno mi conosce, nessuno sa chi io sia davvero, a nessuno interessano le mie storie. Come posso creare un'intimità con qualcuno se non posso raccontare di me, della mia famiglia, di Miguel, dei miei viaggi, dei miei ricordi sparpagliati sulla cartina dell'Europa? Riflettevo. Forse a loro non interessa la "storia raccontata", forse la grande differenza culturale sta proprio qui. Forse la mia matrice europea mi dice che è la nostra Storia che ci definisce, che è la Storia che definisce ogni identità, in questa incrostatura di hegelismo che mi ha passato il liceo classico. Forse invece qui la storia è solo passato inerte, inutile e inessenziale - la storia non conta - quello che conta è quello che sono qui, ora, con il mio calore, con il mio carattere.
Ce l'ho un carattere, nasconderlo non mi servirà a nulla. Sento che ho quasi finito il mio esercizio, ho quasi ritrovato il mio baricentro. Il sole è tramontato. Ora di andare a buttare via questa maschera da Lucia Mondella.
lunedì 7 aprile 2008
Dead poets society
Sotto la mia inistenza Orisha ha finalmente ceduto. Ieri sera mi ha portata al suo circolo di poesia. Era una frequantatrice abituale, tempo fa. Ora ha quasi smesso, ma io l'ho pregata, e lei non ha potuto dirmi di no. E come sempre succede con Orisha, ho avuto una serata assolutamente fuori dalle righe.
Innanzitutto il viaggio. Dato che il posto e' fuori Port of Spain abbiamo preso un pulmino che ci ha portate al paese vicino. O forse dovrei dire un disco-pulmino, dato che dentro era tutto tappezato di pelle nera e lucine rosse lampeggianti sul soffitto e sui lati, con la solita musica a manetta. E proprio di fianco al mio sedile c'era un grazioso cartellino con scritto: "Dear customers, I know that the ambience is nice, but please leave the love making for outside". Fantastico.
Dopo una ventina di minuti siamo arrivate al famoso "circolo di poesia", che tanto per cambiare non aveva nulla a che vedere con la sua definizione. Era una bar, per farla breve. Grande, fumoso, clientela tutta nera del tipo nero. Un minuscolo palchetto e gente che si esibiva a turno. Era pieno, la gente era interessata, i gruppi o i solisti salivano a cantare, a rappare, a declamare versi. Alcuni in modo assolutamente dilettantesco, altri in modo piu' serio. Interessante, senza dubbio.
Orisha conosceva praticamente tutti, mi presentava a destra e a manca, ma mi lasciava anche per i fatti miei. C'era un ragazzo carino con gli occhi dolci che ha cantato un paio di canzoni dopo aver parlato con noi nell'atrio, e sia a noi sia sul palco ha raccontato di quella volta che e' stato trattenuto a Londra perche' credevano che fosse un immigrato clandestino, mentre invece stava solo cambiando un aereo. Non so perche' ma mi ha fatto tenerezza il tono epico con cui sbandierava questa storia cosi' ordinaria, e mi ci sono in un certo senso specchiata, dato che io in fondo sto facendo la stessa cosa su questo blog.
Dopo un po' Orisha mi ha detto che ce ne stavamo andando, che saremmo tornate a Port of Spain con un gruppo di musicisti suoi amici. Io come al solito non ho fatto domande e l'ho seguita docilmente fuori, infilandomi nella loro macchina. Erano un gruppo strano. Il leader del gruppo, un rastone magro magro con occhiali neri e cappello enorme, ubriaco fino al midollo, che urlava nonsense a squarciaglola in macchina, facendoci ridere tutti. Un autista che non ha spiaccicato parola. Un bassetto sulla cinquantina che cercava di parlare con me. Un trini bianco con l'aria un po' nerd e la maglietta dei ramones. Piu' io e lei, quindi eravamo in sei, spiaccicati sul sedile posteriore. E ridendo e scherzando il rasta si e' fatto un'ulteriore boccia di rum e cola mentre stava appollaiato sulla gamba di Orisha.
Non siamo andati a casa, ma bensi' nella loro sala prove, una stanza lurida e incasinatissima, con qualche vecchia sedia, strumenti sparsi in giro, uno stereo, dei computer vecchi, assi di legno per terra e soprattutto pile e pile di contenitori per uova accatastate negli angoli, in vana attesa di essere usati per isolare acusticamente le pareti. Hanno comprato del fumo, il bianco se ne stava per i fatti suoi a pensare alla musica, Orisha come sempre chiacchierava e rollava ed era il centro di tutto, il vecchio si e' messo a suonare intensamente la sua chitarra per almeno un'ora, ispirandoci un po' tutti, il rasta era completamente fuori di testa, ballava e si agitava e ruggiva e grugniva e faceva lo scemo. Non posso descrivere la serata in un continuo ma solo in immagini sparse, dato che ero stanca morta, lottavo per rimanere sveglia e sotto gli effetti di tutto mi chiedevo cosa diavolo ci facessi in quello stranissimo posto con quella stranissima gente a quell'ora di domenica sera, e pregavo che Orisha non volesse dormire li'.
Quando finalmente ce ne siamo andati e' successa l'ultima assurdita' della notte. Io e Orisha ci interrogavamo su come rincasare, e miracolosamente un taxi si fermato proprio davanti al nostro naso. Era il figlio del chitarrista vecchio, che ha un taxi, e che passando di li' per caso aveva rionosciuto suo papa' e si era fermato a salutarlo. In un atmosfera da festa di famiglia ritrovata, io e Orisha ci siamo fatte riaccompagnare a casa gratis.
Innanzitutto il viaggio. Dato che il posto e' fuori Port of Spain abbiamo preso un pulmino che ci ha portate al paese vicino. O forse dovrei dire un disco-pulmino, dato che dentro era tutto tappezato di pelle nera e lucine rosse lampeggianti sul soffitto e sui lati, con la solita musica a manetta. E proprio di fianco al mio sedile c'era un grazioso cartellino con scritto: "Dear customers, I know that the ambience is nice, but please leave the love making for outside". Fantastico.
Dopo una ventina di minuti siamo arrivate al famoso "circolo di poesia", che tanto per cambiare non aveva nulla a che vedere con la sua definizione. Era una bar, per farla breve. Grande, fumoso, clientela tutta nera del tipo nero. Un minuscolo palchetto e gente che si esibiva a turno. Era pieno, la gente era interessata, i gruppi o i solisti salivano a cantare, a rappare, a declamare versi. Alcuni in modo assolutamente dilettantesco, altri in modo piu' serio. Interessante, senza dubbio.
Orisha conosceva praticamente tutti, mi presentava a destra e a manca, ma mi lasciava anche per i fatti miei. C'era un ragazzo carino con gli occhi dolci che ha cantato un paio di canzoni dopo aver parlato con noi nell'atrio, e sia a noi sia sul palco ha raccontato di quella volta che e' stato trattenuto a Londra perche' credevano che fosse un immigrato clandestino, mentre invece stava solo cambiando un aereo. Non so perche' ma mi ha fatto tenerezza il tono epico con cui sbandierava questa storia cosi' ordinaria, e mi ci sono in un certo senso specchiata, dato che io in fondo sto facendo la stessa cosa su questo blog.
Dopo un po' Orisha mi ha detto che ce ne stavamo andando, che saremmo tornate a Port of Spain con un gruppo di musicisti suoi amici. Io come al solito non ho fatto domande e l'ho seguita docilmente fuori, infilandomi nella loro macchina. Erano un gruppo strano. Il leader del gruppo, un rastone magro magro con occhiali neri e cappello enorme, ubriaco fino al midollo, che urlava nonsense a squarciaglola in macchina, facendoci ridere tutti. Un autista che non ha spiaccicato parola. Un bassetto sulla cinquantina che cercava di parlare con me. Un trini bianco con l'aria un po' nerd e la maglietta dei ramones. Piu' io e lei, quindi eravamo in sei, spiaccicati sul sedile posteriore. E ridendo e scherzando il rasta si e' fatto un'ulteriore boccia di rum e cola mentre stava appollaiato sulla gamba di Orisha.
Non siamo andati a casa, ma bensi' nella loro sala prove, una stanza lurida e incasinatissima, con qualche vecchia sedia, strumenti sparsi in giro, uno stereo, dei computer vecchi, assi di legno per terra e soprattutto pile e pile di contenitori per uova accatastate negli angoli, in vana attesa di essere usati per isolare acusticamente le pareti. Hanno comprato del fumo, il bianco se ne stava per i fatti suoi a pensare alla musica, Orisha come sempre chiacchierava e rollava ed era il centro di tutto, il vecchio si e' messo a suonare intensamente la sua chitarra per almeno un'ora, ispirandoci un po' tutti, il rasta era completamente fuori di testa, ballava e si agitava e ruggiva e grugniva e faceva lo scemo. Non posso descrivere la serata in un continuo ma solo in immagini sparse, dato che ero stanca morta, lottavo per rimanere sveglia e sotto gli effetti di tutto mi chiedevo cosa diavolo ci facessi in quello stranissimo posto con quella stranissima gente a quell'ora di domenica sera, e pregavo che Orisha non volesse dormire li'.
Quando finalmente ce ne siamo andati e' successa l'ultima assurdita' della notte. Io e Orisha ci interrogavamo su come rincasare, e miracolosamente un taxi si fermato proprio davanti al nostro naso. Era il figlio del chitarrista vecchio, che ha un taxi, e che passando di li' per caso aveva rionosciuto suo papa' e si era fermato a salutarlo. In un atmosfera da festa di famiglia ritrovata, io e Orisha ci siamo fatte riaccompagnare a casa gratis.
domenica 6 aprile 2008
Blanchisseuse
Come contrappunto a qualche giorno di stanchezza emotiva, ieri mi è stata regalata una splendida giornata di profondo, limpido ristoro.
Sono stata portata a Banchisseuse, una bella spiaggia della costa nord, una ventina di minuti più in là di Maracas Bay. Maracas, essendo vicina a Port of Spain, è considerata la "liming beach", la spiaggia in cui si socializza. Con sempre un sacco di gente, famiglie, chioschetti, gruppi di amici che giocano a calcetto e bambini che fanno castelli di sabbia. Se invece si cerca il contatto puro con la natura basta spingersi in una delle spiagge successive, tutte diverse e tutte bellissime, e soprattutto assolutamente deserte. Ieri a Blanchisseuse ci saranno state una dozzina di persone, di cui cinque eravamo noi. La marea era così alta che le onde mangiavamo tutta la spiaggia, fino alla parete di roccia che la limitava da dietro. Per questo per quanto stessimo lontani dall'acqua bastava un'onda lunga per bagnarci i piedi, in un brivido rinfrescante.
Il mare era alto, schiumoso e ruggente. Due di noi si sono spinti al lagro con le tavole da surf e hanno preso delle belle onde, mentre noi li osservavamo scivolare sull'acqua e intimamente pensavamo che non deve esistere una sensazione più bella al mondo di quella di spare in piedi sull'orlo di quel fragore. Abbiamo fatto un bagno lunghissimo e stancante, saltando, prendendo schiaffi, immergendoci sotto queste onde mirabolanti che veniano da tutte le direzioni. Era così bello, così semplice, così puro e giocoso. L'acqua era bianca di schiuma, il sole batteva, Karen e Rodrigo si facevano foto con la macchina subacquea. Tutto era leggerissimo.
Sono anche riuscita a fare un po' di body-surfing, buttandomi su un'onda a braccia aperte e guardando la costa, e scivolandoci sopra senza bisogno della tavola. Ci sono riuscita quattro o cinque volte, ed è stato così elettrizzante che mi veniva da ridere. Un'onda mi ha addirittura riportata fino al bagnasciuga, dopo avermi fatto volare per circa venti metri. Tutto leggerissimo...
Il ritorno è stata come al solito un'ora di strada magnifica, nella foresta, nelle montagne. Abbiamo seguito il mare, abbiamo passato le palme di Maracas, abbiamo preso la spettacolare strada verde con luce verde con riflessi verdi che riporta a casa. Ero in macchina da sola con uno dei surfisti, un ragazzo semplice e ossuto che fa il marinaio. Mi lasciavo portare dolcemente attraverso quelle curve, mentre lo ascoltavo raccontare della vita di mare, della sua unica traversata oceanica, e dei pesci che cambiano colore quando lottano per non farsi pescare.
Sono stata portata a Banchisseuse, una bella spiaggia della costa nord, una ventina di minuti più in là di Maracas Bay. Maracas, essendo vicina a Port of Spain, è considerata la "liming beach", la spiaggia in cui si socializza. Con sempre un sacco di gente, famiglie, chioschetti, gruppi di amici che giocano a calcetto e bambini che fanno castelli di sabbia. Se invece si cerca il contatto puro con la natura basta spingersi in una delle spiagge successive, tutte diverse e tutte bellissime, e soprattutto assolutamente deserte. Ieri a Blanchisseuse ci saranno state una dozzina di persone, di cui cinque eravamo noi. La marea era così alta che le onde mangiavamo tutta la spiaggia, fino alla parete di roccia che la limitava da dietro. Per questo per quanto stessimo lontani dall'acqua bastava un'onda lunga per bagnarci i piedi, in un brivido rinfrescante.
Il mare era alto, schiumoso e ruggente. Due di noi si sono spinti al lagro con le tavole da surf e hanno preso delle belle onde, mentre noi li osservavamo scivolare sull'acqua e intimamente pensavamo che non deve esistere una sensazione più bella al mondo di quella di spare in piedi sull'orlo di quel fragore. Abbiamo fatto un bagno lunghissimo e stancante, saltando, prendendo schiaffi, immergendoci sotto queste onde mirabolanti che veniano da tutte le direzioni. Era così bello, così semplice, così puro e giocoso. L'acqua era bianca di schiuma, il sole batteva, Karen e Rodrigo si facevano foto con la macchina subacquea. Tutto era leggerissimo.
Sono anche riuscita a fare un po' di body-surfing, buttandomi su un'onda a braccia aperte e guardando la costa, e scivolandoci sopra senza bisogno della tavola. Ci sono riuscita quattro o cinque volte, ed è stato così elettrizzante che mi veniva da ridere. Un'onda mi ha addirittura riportata fino al bagnasciuga, dopo avermi fatto volare per circa venti metri. Tutto leggerissimo...
Il ritorno è stata come al solito un'ora di strada magnifica, nella foresta, nelle montagne. Abbiamo seguito il mare, abbiamo passato le palme di Maracas, abbiamo preso la spettacolare strada verde con luce verde con riflessi verdi che riporta a casa. Ero in macchina da sola con uno dei surfisti, un ragazzo semplice e ossuto che fa il marinaio. Mi lasciavo portare dolcemente attraverso quelle curve, mentre lo ascoltavo raccontare della vita di mare, della sua unica traversata oceanica, e dei pesci che cambiano colore quando lottano per non farsi pescare.
venerdì 4 aprile 2008
Pausa
Penso di dover prendere una pausa da questo delirio di scrittura.
Gli eventi non hanno smesso di accadermi. La guardia mi continua a regalare frutta. Jesus mi cerca senza paura. Orisha mi abbracciata, una volta, in un momento di crisi. Sto lavorando tanto, ho un progetto. Ieri sera sono andata alla fabbrica dei film con Orisha e altre persone interessanti, tra cui un artista famoso ingese che ha deciso di fare di Trinidad la sua casa. Siamo rimasti ben oltre la fine del film, c'eravamo solo noi in quella stanza enorme e un dj che metteva musica bellissima e le luci spente e sul telo il film in bianco e nero che continuava a scorrere e noi ballavamo con le nostre birre in mano.
Ma passo anche molto tempo sola, a passeggiare, a leggere. Anzi no, non riesco nemmeno a leggere, prendo il libro in mano e poi mi distraggo col rumore dei miei stessi pensieri. Posso anche passare delle ore sola in camera a pensare forsennatamente, un flusso ininterrotto.
Succedono anche altre cose, non dicibili, non esprimibili. Continuo a sentirmi un'estranea, a non riuscire a entrare in contatto profondo con la gente. I miei rapporti sono caratterizzati da una superficialita' destabilizzante. Mi sento chiusa nella mia pelle.
A volte mi sembra che qualcuno mi si avvicini, ma io non posso fidarmi di chi non conosco. E infatti ho gia' evitato di farmi del male, piu' di una volta, per un soffio, per un po' di prudenza che mi pareva quasi eccessiva e poi si e' rivelata, puntualmente, appena sufficiente.
Gli eventi non hanno smesso di accadermi. La guardia mi continua a regalare frutta. Jesus mi cerca senza paura. Orisha mi abbracciata, una volta, in un momento di crisi. Sto lavorando tanto, ho un progetto. Ieri sera sono andata alla fabbrica dei film con Orisha e altre persone interessanti, tra cui un artista famoso ingese che ha deciso di fare di Trinidad la sua casa. Siamo rimasti ben oltre la fine del film, c'eravamo solo noi in quella stanza enorme e un dj che metteva musica bellissima e le luci spente e sul telo il film in bianco e nero che continuava a scorrere e noi ballavamo con le nostre birre in mano.
Ma passo anche molto tempo sola, a passeggiare, a leggere. Anzi no, non riesco nemmeno a leggere, prendo il libro in mano e poi mi distraggo col rumore dei miei stessi pensieri. Posso anche passare delle ore sola in camera a pensare forsennatamente, un flusso ininterrotto.
Succedono anche altre cose, non dicibili, non esprimibili. Continuo a sentirmi un'estranea, a non riuscire a entrare in contatto profondo con la gente. I miei rapporti sono caratterizzati da una superficialita' destabilizzante. Mi sento chiusa nella mia pelle.
A volte mi sembra che qualcuno mi si avvicini, ma io non posso fidarmi di chi non conosco. E infatti ho gia' evitato di farmi del male, piu' di una volta, per un soffio, per un po' di prudenza che mi pareva quasi eccessiva e poi si e' rivelata, puntualmente, appena sufficiente.
martedì 1 aprile 2008
Rum
L'altra sera il ragazzo di Claire mi ha ufficilamente iniziata alla degustazione del rum.
Conoscendo Claire, non mi aspettavo affatto che il suo compagno fosse questo grosso, stravagante, rumoroso animale da festa con una vera passione per i liquori caraibici. Lei così perfettina, lui così sfrenato. Un'ennesima dimostrazione di quanto sono lontana dal capire questa gente. Ci hanno accolto a casa loro con l'aria disinvolta di chi ha sempre amici intorno, e quando Claire ha menzionato che io non avevo ancora assaggiato il rum locale lui mi ha detto senza esitare: "Seguimi". E mi ha portata in cucina.
"Ascoltami bene. Le vedi tutte queste bottiglie? Questa è la sezione dei rum. Ora io nel corso della serata te li farò assaggiare uno dopo l'altro, e alla fine tu mi dirai quello che ti è piaciuto di più". Salta velocissimo e prende una bottiglia mezza piena che stava in cima alla credenza. "Cominciamo con questo, di Barbados". Prende un bicchiere e lo immerge in una cassa di ghiaccio che casualmente stava in mezzo alla cucina. "E'un rum dolce, quindi lo mischio solo alla soda". Me ne fa un bicchiere pieno, e io lo assaggio subito. Non c'è che dire, è buono.
La serata intanto si comincia a scaldare, arriva gente, lui comincia a giostrarsi tra i suoi mille ingredienti liquidi e a preparare cocktails personalizzati per ogni invitato. Alla fine del mio bicchiere lo raggingo in cucina: "Grazie Miki, era buonissimo, un po' forte..." "Vuoi che ti prepari un cocktail un po' più leggero?" "Mah, veramente...", e lui mi fa l'occhiolino: "You want to stick to the rums, eh? I like that!! Ora quelli di Trindad. Prima prova questo, a me piace di più, anche se a maggior parte della gente preferiebbe l'altro". "Come mai preferirebbe l'altro?" "Perchè costa meno, è il Fernandez, il rum famoso dell'isola, molto più mainstream... Ora questo èun rum secco, te lo mischio a soda e ci metto un po' di coca per addolcirlo... E una spruzzatina di lime, pronta? Via!"
La sala ormai è piena, la gente chiacchiera, io parlo con la ragazza di fianco cercando di non perdere la concerntrazione sul mio prezioso drink. Faccio fatica a scendere sotto lo strato della coca e capire il vero sapore di questo rum più secco, e quando finalmente ci riesco non mi piace, mi sembra amaro. Poi però verso la fine del bicchiere capisco che in realtà è più buono di quello di Barbados. Interessante. Avanti un altro.
"Ora il Fernandez, lo devi provare...." e al primo sorso capisco la differenza tra il rum più buono e quello più diffuso, da espotazione. Mentre sorseggio questo terzo distillato incominciamo a giocare a tabù, e io tra me e me prego che il mio turno venga il più tardi possibile. A tabù ci ho giocato solo una volta, al liceo. Sobria. E in italiano.
Il gioco dei rum mi intriga più di quello delle parole. "Miki, fatto. Cosa mi fai provare adesso?" "Eccoci, ora un rum giamaicano". Come sempre riempie il bicchiere all'orlo, mi taglia una cannuccia e la infilza nel ghiacchio tritato. Io intanto chiedo spiegazioni. "Quale isola caraibica ha dato origine al rum?" "Il rum è diffuso ovunque, non c'è nessuna isola che può arrogarsene la paternità. Ma se ci dovesse essere, sarebbe la Giamaica, dato che è la prima che ha iniziato a coltivare la canna da zucchero... Bevi questo". Bevo un sorso e mi sembra subito di sentire un sapore speciale, molto aromatico, molto profumato...
Nella stanza accanto il gioco va avanti, arriva il mio turno, io non faccio male come temevo. Intanto Miki entra ed esce portando cocktail coreografici bianchi e neri per i nuovi arrivati, urlando le risposte a raffica e facendoci guadagnare punti. Io sento che l'alcohol mi sta un po' destabilizzando, e mi godo il mio stato di spensieratezza. La mia unica preoccupazione è la scelta. Sarò mai capace di decidere quale è il mio rum preferito? Sono tutti diversi, e tutti buonissimi...
Alla fine del quarto bicchiere sono ubriaca, ma per nulla al mondo vorrei smettere questo bellissimo gioco. "Miki ci sono". "D'accordo! Ora questo, della Guyana. Solo con soda." E versa generoso. Io lo assaggio, ma comincia subito a girarmi la testa. Mi manca la dolcezza della coca, ho paura di non riuscire a finire il bicchiere. E' di nuovo il mio turno per giocare a tabù, faccio del mio meglio per stare in piedi. Il gioco sta per finire, la serata è agli sgoccioli, e io mi concentro in un utimo sforzo per cercare di ricordare tutti i sapori, uno dopo l'altro.
Finalmente il gioco finisce, abbiamo perso. Nel casino generale tutti cominciano lentamente ad avviarsi verso casa. Io mi accorgo di non aver ancora deciso. Vediamo, il primo era buono, ma quello di Trinidad era forse meglio, e il giamaicano... Interrompendo i miei ragionamenti Miki mi chiede il verdetto. "Allora, signorina. Quale ti è piaciuto di più?". Io esito un attimo. "Sono tutti buonissimi, grazie infinite per questa esperienza... Forse quello che mi ha colpito di più è stato il giamaicano...". Lui sorride divertito e mi dà una pacca sulla spalla. "D'accordo Vivi. La prossima volta ti offro subito quello!"
Nel mio ultimo barlume di lucidità penso che è stato davero generoso da parte sua farmi assaggiarei suoi tesori. Storta e felice della vita, mi concerntro per imbroccare la porta e esco da quella casa.
Conoscendo Claire, non mi aspettavo affatto che il suo compagno fosse questo grosso, stravagante, rumoroso animale da festa con una vera passione per i liquori caraibici. Lei così perfettina, lui così sfrenato. Un'ennesima dimostrazione di quanto sono lontana dal capire questa gente. Ci hanno accolto a casa loro con l'aria disinvolta di chi ha sempre amici intorno, e quando Claire ha menzionato che io non avevo ancora assaggiato il rum locale lui mi ha detto senza esitare: "Seguimi". E mi ha portata in cucina.
"Ascoltami bene. Le vedi tutte queste bottiglie? Questa è la sezione dei rum. Ora io nel corso della serata te li farò assaggiare uno dopo l'altro, e alla fine tu mi dirai quello che ti è piaciuto di più". Salta velocissimo e prende una bottiglia mezza piena che stava in cima alla credenza. "Cominciamo con questo, di Barbados". Prende un bicchiere e lo immerge in una cassa di ghiaccio che casualmente stava in mezzo alla cucina. "E'un rum dolce, quindi lo mischio solo alla soda". Me ne fa un bicchiere pieno, e io lo assaggio subito. Non c'è che dire, è buono.
La serata intanto si comincia a scaldare, arriva gente, lui comincia a giostrarsi tra i suoi mille ingredienti liquidi e a preparare cocktails personalizzati per ogni invitato. Alla fine del mio bicchiere lo raggingo in cucina: "Grazie Miki, era buonissimo, un po' forte..." "Vuoi che ti prepari un cocktail un po' più leggero?" "Mah, veramente...", e lui mi fa l'occhiolino: "You want to stick to the rums, eh? I like that!! Ora quelli di Trindad. Prima prova questo, a me piace di più, anche se a maggior parte della gente preferiebbe l'altro". "Come mai preferirebbe l'altro?" "Perchè costa meno, è il Fernandez, il rum famoso dell'isola, molto più mainstream... Ora questo èun rum secco, te lo mischio a soda e ci metto un po' di coca per addolcirlo... E una spruzzatina di lime, pronta? Via!"
La sala ormai è piena, la gente chiacchiera, io parlo con la ragazza di fianco cercando di non perdere la concerntrazione sul mio prezioso drink. Faccio fatica a scendere sotto lo strato della coca e capire il vero sapore di questo rum più secco, e quando finalmente ci riesco non mi piace, mi sembra amaro. Poi però verso la fine del bicchiere capisco che in realtà è più buono di quello di Barbados. Interessante. Avanti un altro.
"Ora il Fernandez, lo devi provare...." e al primo sorso capisco la differenza tra il rum più buono e quello più diffuso, da espotazione. Mentre sorseggio questo terzo distillato incominciamo a giocare a tabù, e io tra me e me prego che il mio turno venga il più tardi possibile. A tabù ci ho giocato solo una volta, al liceo. Sobria. E in italiano.
Il gioco dei rum mi intriga più di quello delle parole. "Miki, fatto. Cosa mi fai provare adesso?" "Eccoci, ora un rum giamaicano". Come sempre riempie il bicchiere all'orlo, mi taglia una cannuccia e la infilza nel ghiacchio tritato. Io intanto chiedo spiegazioni. "Quale isola caraibica ha dato origine al rum?" "Il rum è diffuso ovunque, non c'è nessuna isola che può arrogarsene la paternità. Ma se ci dovesse essere, sarebbe la Giamaica, dato che è la prima che ha iniziato a coltivare la canna da zucchero... Bevi questo". Bevo un sorso e mi sembra subito di sentire un sapore speciale, molto aromatico, molto profumato...
Nella stanza accanto il gioco va avanti, arriva il mio turno, io non faccio male come temevo. Intanto Miki entra ed esce portando cocktail coreografici bianchi e neri per i nuovi arrivati, urlando le risposte a raffica e facendoci guadagnare punti. Io sento che l'alcohol mi sta un po' destabilizzando, e mi godo il mio stato di spensieratezza. La mia unica preoccupazione è la scelta. Sarò mai capace di decidere quale è il mio rum preferito? Sono tutti diversi, e tutti buonissimi...
Alla fine del quarto bicchiere sono ubriaca, ma per nulla al mondo vorrei smettere questo bellissimo gioco. "Miki ci sono". "D'accordo! Ora questo, della Guyana. Solo con soda." E versa generoso. Io lo assaggio, ma comincia subito a girarmi la testa. Mi manca la dolcezza della coca, ho paura di non riuscire a finire il bicchiere. E' di nuovo il mio turno per giocare a tabù, faccio del mio meglio per stare in piedi. Il gioco sta per finire, la serata è agli sgoccioli, e io mi concentro in un utimo sforzo per cercare di ricordare tutti i sapori, uno dopo l'altro.
Finalmente il gioco finisce, abbiamo perso. Nel casino generale tutti cominciano lentamente ad avviarsi verso casa. Io mi accorgo di non aver ancora deciso. Vediamo, il primo era buono, ma quello di Trinidad era forse meglio, e il giamaicano... Interrompendo i miei ragionamenti Miki mi chiede il verdetto. "Allora, signorina. Quale ti è piaciuto di più?". Io esito un attimo. "Sono tutti buonissimi, grazie infinite per questa esperienza... Forse quello che mi ha colpito di più è stato il giamaicano...". Lui sorride divertito e mi dà una pacca sulla spalla. "D'accordo Vivi. La prossima volta ti offro subito quello!"
Nel mio ultimo barlume di lucidità penso che è stato davero generoso da parte sua farmi assaggiarei suoi tesori. Storta e felice della vita, mi concerntro per imbroccare la porta e esco da quella casa.
Iscriviti a:
Post (Atom)