Stanotte verso le cinque vengo svegliata da delle voci. Grida e rumori. Voci di uomini, giovani, vicinissimi. E rumore di una macchina accesa, qui davanti al cancello, e piatti rotti. Mi alzo di scatto, saltogiù dal letto, sbircio fuori dalla porta della mia stanza. Vedo la luce accesa in soggiorno. Io l'avevo spenta, ne sono sicura. Ci metto un microsecondo a realizare. Merdamerdacazzomerda. Oddiomiodiodiodio. Ladri. Ci sono i ladri. Sono a casa da sola i questi giorni, Wilma è andata in Canada da sua figlia per cinque settimane. Avranno controllato la casa, pensano che sia vuota. Ci sono i ladri in casa!
Chiudo subito a chiave la porta della mia stanza. Prendo il cellulare. E' scarico, porca miseria! Mi guardo intorno, dove mi nascondo? Nell'armadio. Mi metto dentro. Oddio-oddio-oddio. Sono in maglietta e mutandine, se mi trovano così mi stuprano. Merda. Sto in silenzio, chiusa dentro. Continuo freneticamente a cercare di accendere il cellulare, senza riuscirci.
Mi chiedo se la porta chiusa desterà sospetti. Mi sento molto lucida, nonostante stia tremando. Mi accorgo che sto tremando solo quando tiro fuori la batteria del cellulare e la rimetto dentro, per vedere se si rianima un attimo. "No, anche la camera di Wilma è chiusa a chiave, e non c'è dentro nessuno. Penseranno che le porte sono tutte chiuse, in generale". Poi però rifletto. "In camera mia c'è il letto disfatto, capiranno che qualcuno c'è. Mi cercheranno e mi troveranno". Poi mi rassicuro da sola. "Potrebbe essere disfatto da ieri o da ierilaltro. Chi controlla la casa sa che spesso non dormo qui." Sono terrorizzata, mi shiaccio sul fondo buio dell'armadio.
Passa qualche minuto, non succede nulla.
Forse se ne sono andati.
Strano, non hanno neanche controllato le camere.
Forse sapevano cosa volevano, l'hanno preso e sono fuggiti.
Forse era qualcuno che conosceva la casa.
Mi pare di sentire dei rumori.
Sono ancora qui.
Penso. Se arrivano e mi trovano non li guardo in faccia, chiudo gli occhi per non essere una possibile testimone, alzo le mani e li prego di non ammazarmi. Ne parlavo ieri. Qui quando ti derubano ti ammazzano, meglio un testimone in meno che la coscienza pulita. Ci sono in giro tante di quelle armi e le pallottole costano poco. Le pallottole costano poco. Le pallottole costano poco. Questa frase continuava a riecheggiare nella mia testa.
Passa qualche altro minuto. Decido di uscire dall'armadio e cercare di ricaricare il cellulare. Ragiono in modo lucido e freddo. Non è troppo arrischiato? Decido di no. Se li sento forzare la mia porta mi ributto dentro. Mi alzo, vedo che la luce in soggiorno è ancora accesa. Sono ancora qui. Mi sembra di sentire rumori dalla cucina. Metto il cellulare in carica, al buio, tremando. Si accende. Penso che il numero della polizia sia 999, ma so che chiamare la polizia qui non serve praticamente a niente. Mi diranno che non hanno macchine. Mi diranno che non c'è nessuna pattuglia in zona. Ne ho parlato mille volte, con mille persone. Tutti mi hanno detto che la polizia non arriva mai. Decido che se devo fare una chiamata sola mi conviene chiamare K, lui poi chiamerà chi di dovere. Digito il suo numero, lo sveglio. "I'm hiding, there are thives at home, yes, now, right now, please do something", dico sottovoce. Appena attacco mi nascondo di nuovo. C'è poca aria,. So che se passa ancora qualche minuto senza che mi trovino probabilmente sarò salva.
Mi torna in mente la conversazione di ieri con Cristian, che mi ha detto che un giorno era entrato in un negozio di mattina presto al centro commericale e c'erano i ladri. Gli avevano puntato la pistola alla tempia, lo avevano legato insieme a tutti i commessi e al gestore del negozio. Mi ha descritto la situazione, la paura che ha avuto. Per fortuna ne era uscito illeso. Mi viene anche in mente anche la storia di Katrina, una signora che conosco che martedì è stata bloccata di fronte a casa sua, in un quartiere residenziale alle 3 del pomeriggio, era stata picchiata e derubata. L'ho vista 2 giorni dopo, ancora piena di lividi. Ovviamente avevano controllato i suoi orari, sapevano che stava tornando. "Come sanno che casa mia è vuota", penso con un brivido.
C'è silenzio, decido di uscire di nuovo per mettermi i jeans che sono sulla sedia. Penso ai movimenti che farò prima di uscire dal nascondiglio. Vengo fuori senza fare rumore, mi vesto, sistemo un attimo il letto in modo che a prima vista sembri fatto, per far credere che la casa è davvero vuota. Poi prendo una coperta e mi ci avvolgo nell'armadio, magari penseranno che sono una vecchia valigia. Penso in fretta. Penso che non sarò mai più a casa da sola. Neanche Clarissa c'era stata, a casa sua da sola. Aveva chiamato Orisha, "per compagnia e per sicurezza". Le ragazze bianche le controllano. Questa settimana hanno ammazzato due turisti svedesi a Tobago. L'anno scorso sempre a Tobago hanno ucciso l'amica italiana di Cristian, lui ci aveva parlato al telefono la mattina stessa. Le ragazze bianche le controllano. Le case vuote pure.
Dopo un minuto sento il rumore familiare della macchina di K che arriva sparata davanti casa. Sento bussare forte alla porta d'ingresso. Aspetto, non succede nulla. Cerco di capire se i ladri sono ancora in casa. Mi pare di no. Aspetto. Nulla. Bussano di nuovo. Non c'è più nessuno. Mi alzo, vado in soggiorno. Arrivo alla porta. Vedo che è chiusa, con tutti i luccheti chiusi. Come è possibile?
Sono sconcertata. Non era vero niente. Non ci posso credere, non ci sono mai stati i ladri, era stato un incubo. Voci sognate, così come i rumori. La luce l'avrò lasciata accesa io. Un incubo terribile e reale. Dio-mio-che-paura-che-ho-avuto. Apro la porta, esco di casa. In piedi davanti al cancello c'erano Mister K e Marlon - entrambi un fascio di nervi. Mi vedono uscire, mi chiedono all'unisono se sto bene. Io mi sento svenire. Prima di tutto per il rilascio di adrenalina. E poi per il dispiacere di averli spaventati a morte a causa di un trucco della mia immaginazione. Evidentemente tutta la paura accumulata in mesi di storie dell'orrore era finita direttamente nel mio inconscio. Clinicamente parlando, la perdita della capacita' di interpretare correttamente la realta' e' una delle possibili e piu' comuni manifestazioni di una situazione di stress prolungato.
lunedì 13 ottobre 2008
venerdì 10 ottobre 2008
Curfew parties
Vediamo se così riesco a far capire cosa intendo per "cultura del Carnevale". Nel 1990 qui c'è stato un colpo di stato. Probabilmente l'unico evento politico degno di nota dall'indipendenza nel 1962. Il colpo di stato è durato pochi giorni ed è stato organizzato da un gruppo estremista islamico. Il che è stranissimo, perchè tra africani e indiani, gli islamici normalmente sono i più sottotono.
Comunque il dato interessante è che la gente ricorda due cose fondamentali del coup. La prima è che in televisione passavano sempre e soltanto La Sirenetta (sì, quella della Disney!). E la seconda è che c'erano i curfew parties, le feste del coprifuoco. Quando i terroristi hanno indetto un coprifuoco generale dal tramento all'alba, la prima cosa che i Trinidini hanno pensato di organizzare sono state delle mega-feste che durassero dalle 6 di sera alle 6 di mattina. Già era eccitante trovarsi in uno stato di simil-guerra. Ma vuoi mettere il divertimento di andare a una festa in cui è obbligatorio resistere fino al far del giorno?
Comunque il dato interessante è che la gente ricorda due cose fondamentali del coup. La prima è che in televisione passavano sempre e soltanto La Sirenetta (sì, quella della Disney!). E la seconda è che c'erano i curfew parties, le feste del coprifuoco. Quando i terroristi hanno indetto un coprifuoco generale dal tramento all'alba, la prima cosa che i Trinidini hanno pensato di organizzare sono state delle mega-feste che durassero dalle 6 di sera alle 6 di mattina. Già era eccitante trovarsi in uno stato di simil-guerra. Ma vuoi mettere il divertimento di andare a una festa in cui è obbligatorio resistere fino al far del giorno?
martedì 7 ottobre 2008
La palude magica
Ci saro' andata un mesetto fa, ma il ricordo e' rimasto lucido e intatto nella mia mente come olio su tela. Gli swamps. Ovvero le paludi.
I Caroni swamps sono una grande palude pochi chilometri a sud di Port of Spain, che si visita su piccole barche di legno attaverso un intricato intreccio di rivoli verdi. Ci sono andata in gita domenicale con Lila e Mister K, e ne sono rimasta affascinata in modo infinatemtne superiore alle aspettative. L'inizio del nostro piccolo itinerario e' stato piu' o meno come previsto. La barca si spingeva lenta lungo il corso d'acqua circondato dalle mangrovie, c'era molta umidita' e pareva di essere protagonisti di uno di quei film stile Indiana Jones, in cui c'e' sempre una scena su un fiume tropicale. Ha addirittura piovuto, grossi goccioloni equatoriali, e noi tre ce ne stavamo stretti sotto la cerata, ridendo della nostra sfortuna metereologica. Poi pero' la pioggia e' cessata, e il paesaggio ha cominciato a modificarsi sotto i nostri occhi.
Senza alcun tipo di preavviso ci siamo ritrovati in un ambiente meraviglioso, che ci ha lasciato totalmente senza parole. Dietro un'ansa del piccolo fiume, si e' aperto un grande lago di palude, in cui la nostra barchetta piccolissima si sperdeva completamente. L'acqua era ferma e lucida, e rifletteva la foresta circostante in uno specchio perfetto. Tutto risultava magicamente e simmetricamente doppio. La Northern Range si vedeva in lontananza, verde e muschiosa. Piccole isole si rilazavano in mezzo all'acqua, brulicanti di vita e di foglie. Noi avanzavamo piano, lasciando nell'acqua un solco leggero che spariva subito, come se fossimo una barca fantasma, come se fossimo un ologramma.
La cosa piu' bella era il cielo. Grande, limpidissimo, aperto. Lo guardavamo da sotto, sentendoci schiacciati sulla superficie lucida dell'acqua. Era tardo pomeriggio, il celeste perfetto era striato di nuvole ampie e stracciate, inconsistenti e drammatiche. Cielo lontano e immobile, come un grande telo dipinto al confine di un'immensa cupola vuota. La luce era chiara, fresca, argentata. Il silenzio era impossibile. L'aria era immobile e pulita, sembrava che tutto fosse scolpito nel vetro. Si avvicinava l'ora del tramento, e la barca si e' fermata in un punto qualunque per una buona mezz'ora. Noi siamo rimasti in silenzio, ad ammirare il lento declinare della luce verso sfumature luminescenti d'oro e di rosa.
Ogni tanto quell'ambiente magico di acqua e di luce veniva solcato dagli scarlet ibis, uccelli simbolo di Trinidad e Tobago. Animali bellissimi, un po' simili ai fenicotteri rosa, con la differenza che sono un poco piu' piccoli e che - come dice il nome - sono scarlatti. Un rosso fiamma di una tonalita' irripetibile. Gli scarlet ibis tornano sempre agli swamps al tramonto, dopo essere stati per tutto il giorno alla ricerca di cibo in Venezuela. Ne abbiamo visti tantissimi, che volavano in piccoli gruppi allineati, rossi ed eleganti attraverso il cielo terso. Nessuno osava parlare, li puntavamo solo con il dito, appena ne vedevamo uno nuovo.
Ce ne siamo stati li', avvolti da quell'incantesimo, senza pensare a nulla. Lasciavamo solo che la sera si sviluppasse sotto i nostri sguardi attenti. Minuto dopo minuto, tutto si gonfiava di pigmenti dorati e di riflessi iridescenti.
I Caroni swamps sono una grande palude pochi chilometri a sud di Port of Spain, che si visita su piccole barche di legno attaverso un intricato intreccio di rivoli verdi. Ci sono andata in gita domenicale con Lila e Mister K, e ne sono rimasta affascinata in modo infinatemtne superiore alle aspettative. L'inizio del nostro piccolo itinerario e' stato piu' o meno come previsto. La barca si spingeva lenta lungo il corso d'acqua circondato dalle mangrovie, c'era molta umidita' e pareva di essere protagonisti di uno di quei film stile Indiana Jones, in cui c'e' sempre una scena su un fiume tropicale. Ha addirittura piovuto, grossi goccioloni equatoriali, e noi tre ce ne stavamo stretti sotto la cerata, ridendo della nostra sfortuna metereologica. Poi pero' la pioggia e' cessata, e il paesaggio ha cominciato a modificarsi sotto i nostri occhi.
Senza alcun tipo di preavviso ci siamo ritrovati in un ambiente meraviglioso, che ci ha lasciato totalmente senza parole. Dietro un'ansa del piccolo fiume, si e' aperto un grande lago di palude, in cui la nostra barchetta piccolissima si sperdeva completamente. L'acqua era ferma e lucida, e rifletteva la foresta circostante in uno specchio perfetto. Tutto risultava magicamente e simmetricamente doppio. La Northern Range si vedeva in lontananza, verde e muschiosa. Piccole isole si rilazavano in mezzo all'acqua, brulicanti di vita e di foglie. Noi avanzavamo piano, lasciando nell'acqua un solco leggero che spariva subito, come se fossimo una barca fantasma, come se fossimo un ologramma.
La cosa piu' bella era il cielo. Grande, limpidissimo, aperto. Lo guardavamo da sotto, sentendoci schiacciati sulla superficie lucida dell'acqua. Era tardo pomeriggio, il celeste perfetto era striato di nuvole ampie e stracciate, inconsistenti e drammatiche. Cielo lontano e immobile, come un grande telo dipinto al confine di un'immensa cupola vuota. La luce era chiara, fresca, argentata. Il silenzio era impossibile. L'aria era immobile e pulita, sembrava che tutto fosse scolpito nel vetro. Si avvicinava l'ora del tramento, e la barca si e' fermata in un punto qualunque per una buona mezz'ora. Noi siamo rimasti in silenzio, ad ammirare il lento declinare della luce verso sfumature luminescenti d'oro e di rosa.
Ogni tanto quell'ambiente magico di acqua e di luce veniva solcato dagli scarlet ibis, uccelli simbolo di Trinidad e Tobago. Animali bellissimi, un po' simili ai fenicotteri rosa, con la differenza che sono un poco piu' piccoli e che - come dice il nome - sono scarlatti. Un rosso fiamma di una tonalita' irripetibile. Gli scarlet ibis tornano sempre agli swamps al tramonto, dopo essere stati per tutto il giorno alla ricerca di cibo in Venezuela. Ne abbiamo visti tantissimi, che volavano in piccoli gruppi allineati, rossi ed eleganti attraverso il cielo terso. Nessuno osava parlare, li puntavamo solo con il dito, appena ne vedevamo uno nuovo.
Ce ne siamo stati li', avvolti da quell'incantesimo, senza pensare a nulla. Lasciavamo solo che la sera si sviluppasse sotto i nostri sguardi attenti. Minuto dopo minuto, tutto si gonfiava di pigmenti dorati e di riflessi iridescenti.
lunedì 6 ottobre 2008
The Avenue
Era tanto che volevo scrivere un post sui baretti dell'Ariapita Avenue, il viale dei locali a Woodbrook. Ma ho preso la decisione soltanto durante la serata di addio di Lea, quando la avenue ce la siamo attraversata tutta, dall'inizio alla fine, sbirciando e esplorando uno per uno i bar della capiatale. Ognuno con la sua sfaccettatura, stile e pubblico, costituiscono un mix di ambienti e atmosfere che rappresentano molto accuratamente la diversità sociale dell'isola.
Abbiamo cominciato a More Vino. Forse uno dei posti più carini, dall'aria chic e internazionale. Si vende come posto raffinato dove bere un bicchiere di buon vino. A dir la verità non sono mai riuscita a trovare un vino accettabile a More Vino, anche se lo fanno pagare 50 TT a bicchiere. Ma per me vale comunque la pena di passarci qualche ora per l'atmosfera gradevolissima. Il posto è bello, ha una grande terrazza con pavimento di legno chiaro, piante curate e graziose decorazioni. Servizio perfetto, stuzzichini buoni, prezzi un po' rialzati, clientela solo bianca o facoltosa o finto-facoltosa, ma tutto sommato nemmeno troppo pretenzioso. Esauriti i nostri bicchieri (generosamente offerti da un anonimo del tavolino di fianco: deve essere un'abitudine nazionale...), siamo passate davanti a Satchmo, jazz-bar-ristorante ridicoulously expesive, più o meno sullo stesso stile. Il jazz è buono, il cibo meno.
Ci siamo fermate a Squeeze, uno dei miei posti preferiti. Quando lo dico non ci crede mai nessuno, perchè tutti si aspettano che una ragazza bianca e colta frequenti posti piu' pettinati, come i due appena descritti. Invece a tutti gli Europei piace Squeeze, perchè non è menoso e soprattutto perchè è molto alternativo, concetto che qui non esiste proprio. E' un localino piccolissimo (da qui il nome), in cui la clientela trasborda sempre sul marciapiede. Tutti stanno seduti su casse di bibite vuote, bevono birrette e se la contano su. Ah, dimenticavo. E' un bar gay.
Subito dopo ci sono i due locali più emblematici della Avenue, il Coco Lounge e il Cro Bar. Fa sorridere perchè sono uno davanti all'altro e basta girare lo sguardo di centottanta gradi per vedere la differenza di colore della gente. Red al Coco Lounge, black al Cro Bar. Il primo è un bel locale ricavato da una casa dall'architettura coloniale, con terrazza. L'ingresso si paga, la musica è un po' alta, è sempre pieno. E' un posto molto piacevole, esteticamente uno dei migliori. Se non fosse che ci va gente che vorrebbe tanto, ma tanto, essere bianca. Vi si percepisce lo sforzo collettivo dell'arrampicata sociale. Il Cro Bar è meno prezioso, più semplice. A me piace, ci sono andata qualche volta a bere qualcosa di pomeriggio. Ci sono grandi divani e tavolini all'aperto, atmosfera rilassata, spazioso e senza pretese. La sera però è un po' infrequentabile. Va bene che mi piacciono gli ambienti misti, ma di notte assume un'aria un po' losca. Centinaia di ragazzi - chissà perchè quasi tutti maschi - che bevono, parlano, ridono, e magari cominciano una rissa.
Dopo aver superato le colonne d'Ercole dei due bar rivali, ci siamo fermate ai chioschetti che vendono street food. Ci siamo fatte un bel bicchiere di corn soup, zuppa di mais assolutamente deliziosa che si vende ad ogni angolo. E poi ci siamo divise un po' di stuzzichini, resistendo alla tentazione di mangiare un kebab fatto al momento. Mentre ce ne stavamo sulle panchine ci chiedevamo come mai nel mezzo della notte ci fossero in giro tanti bambini, e commentavamo tristemente il ruolo minimale delle famiglie dei bimbi delle classi più basse. Poi siamo passate davanti al bordello cinese (ufficilmente un centro di massaggi), e abbiamo proseguito.
La avenue era quasi finita. Ci siamo spiente fino in fondo, giusto per vedere il Corner Bar. Un locale abbastanza nuovo dall'aria metropolitana, insolita attenzione al design, un bello spazio interno con divani neri in ambiente verde acido. Il proprietario è un barbone-capellone che fa personaggio solo per l'aspetto, il bar ampio luccica di bottiglie illuminate da sotto, le finestre enormi danno sulla strada come fossero vetrine. Il posto è bello, purtroppo la musica è sempre davvero troppo alta, tanto che l'unico modo per godersi la serata è comprare i drinks dentro e poi berli di fuori.
Per questo abbiamo deciso di ritornare un po' sui nostri passi, in uno dei locali che alla fine preferisco sempre: lo Shakers. Lo preferisco nonostate la musica anni ottanta, nonostante il servizio mediocre, nonostante (sic!) la clientela che vorrebbe essere bianca (e se si va il martedì sera è pessimo, si chiama socializers night e ci sono solo, ma solo bianchi). Ma alla fine mi piace sempre per un motivo molto semplice. Il posto è bello. Ricavato da una graziosissima casa coloniale tutta in legno dipinto di bianco. Circondato da un cortile fresco, riparato da una siepe folta, con qualche albero vivo, vero e palpitante di linfa verde. Punteggiato di tavolini e sedie sistemati in ordine casuale. Se si va un po' presto, quando ancora non è troppo pieno, vi si può respirare piano la notte fresca del Caribe.
Abbiamo cominciato a More Vino. Forse uno dei posti più carini, dall'aria chic e internazionale. Si vende come posto raffinato dove bere un bicchiere di buon vino. A dir la verità non sono mai riuscita a trovare un vino accettabile a More Vino, anche se lo fanno pagare 50 TT a bicchiere. Ma per me vale comunque la pena di passarci qualche ora per l'atmosfera gradevolissima. Il posto è bello, ha una grande terrazza con pavimento di legno chiaro, piante curate e graziose decorazioni. Servizio perfetto, stuzzichini buoni, prezzi un po' rialzati, clientela solo bianca o facoltosa o finto-facoltosa, ma tutto sommato nemmeno troppo pretenzioso. Esauriti i nostri bicchieri (generosamente offerti da un anonimo del tavolino di fianco: deve essere un'abitudine nazionale...), siamo passate davanti a Satchmo, jazz-bar-ristorante ridicoulously expesive, più o meno sullo stesso stile. Il jazz è buono, il cibo meno.
Ci siamo fermate a Squeeze, uno dei miei posti preferiti. Quando lo dico non ci crede mai nessuno, perchè tutti si aspettano che una ragazza bianca e colta frequenti posti piu' pettinati, come i due appena descritti. Invece a tutti gli Europei piace Squeeze, perchè non è menoso e soprattutto perchè è molto alternativo, concetto che qui non esiste proprio. E' un localino piccolissimo (da qui il nome), in cui la clientela trasborda sempre sul marciapiede. Tutti stanno seduti su casse di bibite vuote, bevono birrette e se la contano su. Ah, dimenticavo. E' un bar gay.
Subito dopo ci sono i due locali più emblematici della Avenue, il Coco Lounge e il Cro Bar. Fa sorridere perchè sono uno davanti all'altro e basta girare lo sguardo di centottanta gradi per vedere la differenza di colore della gente. Red al Coco Lounge, black al Cro Bar. Il primo è un bel locale ricavato da una casa dall'architettura coloniale, con terrazza. L'ingresso si paga, la musica è un po' alta, è sempre pieno. E' un posto molto piacevole, esteticamente uno dei migliori. Se non fosse che ci va gente che vorrebbe tanto, ma tanto, essere bianca. Vi si percepisce lo sforzo collettivo dell'arrampicata sociale. Il Cro Bar è meno prezioso, più semplice. A me piace, ci sono andata qualche volta a bere qualcosa di pomeriggio. Ci sono grandi divani e tavolini all'aperto, atmosfera rilassata, spazioso e senza pretese. La sera però è un po' infrequentabile. Va bene che mi piacciono gli ambienti misti, ma di notte assume un'aria un po' losca. Centinaia di ragazzi - chissà perchè quasi tutti maschi - che bevono, parlano, ridono, e magari cominciano una rissa.
Dopo aver superato le colonne d'Ercole dei due bar rivali, ci siamo fermate ai chioschetti che vendono street food. Ci siamo fatte un bel bicchiere di corn soup, zuppa di mais assolutamente deliziosa che si vende ad ogni angolo. E poi ci siamo divise un po' di stuzzichini, resistendo alla tentazione di mangiare un kebab fatto al momento. Mentre ce ne stavamo sulle panchine ci chiedevamo come mai nel mezzo della notte ci fossero in giro tanti bambini, e commentavamo tristemente il ruolo minimale delle famiglie dei bimbi delle classi più basse. Poi siamo passate davanti al bordello cinese (ufficilmente un centro di massaggi), e abbiamo proseguito.
La avenue era quasi finita. Ci siamo spiente fino in fondo, giusto per vedere il Corner Bar. Un locale abbastanza nuovo dall'aria metropolitana, insolita attenzione al design, un bello spazio interno con divani neri in ambiente verde acido. Il proprietario è un barbone-capellone che fa personaggio solo per l'aspetto, il bar ampio luccica di bottiglie illuminate da sotto, le finestre enormi danno sulla strada come fossero vetrine. Il posto è bello, purtroppo la musica è sempre davvero troppo alta, tanto che l'unico modo per godersi la serata è comprare i drinks dentro e poi berli di fuori.
Per questo abbiamo deciso di ritornare un po' sui nostri passi, in uno dei locali che alla fine preferisco sempre: lo Shakers. Lo preferisco nonostate la musica anni ottanta, nonostante il servizio mediocre, nonostante (sic!) la clientela che vorrebbe essere bianca (e se si va il martedì sera è pessimo, si chiama socializers night e ci sono solo, ma solo bianchi). Ma alla fine mi piace sempre per un motivo molto semplice. Il posto è bello. Ricavato da una graziosissima casa coloniale tutta in legno dipinto di bianco. Circondato da un cortile fresco, riparato da una siepe folta, con qualche albero vivo, vero e palpitante di linfa verde. Punteggiato di tavolini e sedie sistemati in ordine casuale. Se si va un po' presto, quando ancora non è troppo pieno, vi si può respirare piano la notte fresca del Caribe.
domenica 5 ottobre 2008
Cena in casa
Quanto mi mancava, una bella cenetta in casa fra amici! L'atmosfera intima e privata dell'abitazione, un po' di buon vino, conversazioni interessanti. Non mi ero accorta di quanto mi mancavano finchè non ne ho fatte un paio qui a Trinidad, nelle ultime settimane. La cena in casa non fa parte della cultura locale. Nella cultura del Carnevale per divertrsi si esce e vive la notte fino all'ultima goccia, fino al primo raggio di sole.
Qualche tempo fa Sissy ha invitato me e Lea a cena. Si trattava di una lezione di cucina, ho insegnato loro a fare gli gnocchi. Ci siamo divertite un sacco, ne abbiamo fatti un casino. Abbiamo parlato, ci siamo raccontate, ci siamo confrontate sulle nostre sensazioni rispetto a Trinidad, all'ONU, al lavoro. Tre ragazze europee che reagiscono in modo simile a simili stimoli, con simile sensibilità. Molto rinfrescante. Peccato che gli gnocchi non siano venuti, le patate non andavano bene. Quando l'ho detto al cuoco Cristian si è messo a ridere, anche a lui la prima volta non sono venuti con le patate locali. E con Cristian abbiamo fatto la seconda cenetta, a casa di K. Una semplice pasta all'arrabbiata, delle bruschette, il gelato alla fine. Abbiamo apparecchiato in terra e abbiamo mangiato sul pavimento, a gambe incrociate, chiacchierado del più e del meno, sentendoci amici.
Venerdì invece è stato da Felix. Era tempo che diceva ai suoi amici che non ne poteva più di sfinirsi allo Zen tutti i santi weekend, che voleva organizzare una cena tra sole persone che hanno qualcosa da dire. Ha chiamato una coppia di suoi amici storici, Rashma e Sasha, più Terry (con la piccola Neena e Alastair a fine serata), Sissy, una ragazza dolce di nome Kimi e me (con Mister K a inizio serata). We clicked. Abbiamo parlato di politica, di viaggi, di società. Di noi, di lavoro, di arte. Seduti sui divani, in piedi in cucina, passeggiando nella veranda. Ci siamo detti a vicenda quanto è difficile creare situazioni di questo genere a Trinidad, quanto è difficile (anche per Terry e Rashma che sono Trinidine) trovare amiche femmine con cui non esiste rivalità, trovare amici maschi senza secondi fini. Ci siamo ripromessi a vicenda che il gruppo continuerà ad esistere. Casa di Felix sarà un punto di ritrovo. Se tutto andrà come vorrei, potrò dire di aver finalmente trovato delle persone con cui mi identifico.
Qualche tempo fa Sissy ha invitato me e Lea a cena. Si trattava di una lezione di cucina, ho insegnato loro a fare gli gnocchi. Ci siamo divertite un sacco, ne abbiamo fatti un casino. Abbiamo parlato, ci siamo raccontate, ci siamo confrontate sulle nostre sensazioni rispetto a Trinidad, all'ONU, al lavoro. Tre ragazze europee che reagiscono in modo simile a simili stimoli, con simile sensibilità. Molto rinfrescante. Peccato che gli gnocchi non siano venuti, le patate non andavano bene. Quando l'ho detto al cuoco Cristian si è messo a ridere, anche a lui la prima volta non sono venuti con le patate locali. E con Cristian abbiamo fatto la seconda cenetta, a casa di K. Una semplice pasta all'arrabbiata, delle bruschette, il gelato alla fine. Abbiamo apparecchiato in terra e abbiamo mangiato sul pavimento, a gambe incrociate, chiacchierado del più e del meno, sentendoci amici.
Venerdì invece è stato da Felix. Era tempo che diceva ai suoi amici che non ne poteva più di sfinirsi allo Zen tutti i santi weekend, che voleva organizzare una cena tra sole persone che hanno qualcosa da dire. Ha chiamato una coppia di suoi amici storici, Rashma e Sasha, più Terry (con la piccola Neena e Alastair a fine serata), Sissy, una ragazza dolce di nome Kimi e me (con Mister K a inizio serata). We clicked. Abbiamo parlato di politica, di viaggi, di società. Di noi, di lavoro, di arte. Seduti sui divani, in piedi in cucina, passeggiando nella veranda. Ci siamo detti a vicenda quanto è difficile creare situazioni di questo genere a Trinidad, quanto è difficile (anche per Terry e Rashma che sono Trinidine) trovare amiche femmine con cui non esiste rivalità, trovare amici maschi senza secondi fini. Ci siamo ripromessi a vicenda che il gruppo continuerà ad esistere. Casa di Felix sarà un punto di ritrovo. Se tutto andrà come vorrei, potrò dire di aver finalmente trovato delle persone con cui mi identifico.
Civilizzazione
In Italia il centro commerciale o shopping mall è percepito come un luogo funzionale. Un sacco di negozi messi insieme, con anche il supermercato, e un parcheggio grande annesso. Nessuno, tranne forse qualche sociologo, pensa che i centri commerciali siano dei posti con particolare fascino. Nessuno, tranne a volte i ragazzini di periferia che non sanno dove andare, ci trascorre il sabato pomeriggio come se fosse un parco di divertimenti. Qui a Trinidad sì. Mentre l'Italiano alla ricerca della vecchia bottega, del negozietto privato, del ristorantino tipico, il Trinidino va a pranzo con gli amici nello spiazzo bianco-lattiginoso dei centri commericali, dove innumerevoli tavolini di plastica sono circondati da ogni genere di fast food.
E' una mentalità a cui guardavo con disprezzo, come segno di progresso tardivo e di incivilizzazione. Inutile aspettarsi di trovare qui la raffinatezza europea. Il Trinidino considera eccitante il solo fatto di trovarsi in un luogo dall'apparenza moderna, che lo faccia sentire "civilizzato". In modo del tutto analogo, il Trinidino trascura il fantastico clima tropicale per rinchiudersi in bar e discoteche al chiuso con aria condizionata. Fa molto USA, immagino. Per questo motivo uffici e ristornanti sono sempre più freddi, e più sono chic più l'aria condizionata è sparata alta. I baretti coi tavolini di fuori si contano sulla punta delle dita, e non esistono posti dove ballare sotto le stelle, tranne forse uno nella più turistica Tobago. E poi ancora, sempre per sentirsi civilizzati, i Trinidnini stanno cominciando a vestirsi all'Americana. Non mi riferisco ai soliti pantaloni larghi da rapper, ma anche a giacche imbottite e stivali di pelle o di pelo alti fino al ginocchio. Col caldo che fa!
Certamente l'argomentazione della civilizzazione ha un grande peso. Però piano piano mi sono resa conto che dietro l'amore per lo shoping mall c'è anche qualcosa di più. Me ne sono accorta quando ho cominciato pure io, che i centri commericali li odio, a volerci andare. A non vedere l'ora di andarci, addirittura. Perchè contrariamente alla caraibica downtown, l'insipido mall per lo meno è un posto pulito. Ha il pavimento tirato a lucido. Senza nessuno seduto in terra tra i rifiuti che chiede l'elemosina. Senza musica alta, senza disordine. Senza uomini che ti mangiano con gli occhi ad ogni angolo, idipendentemente da come vai in giro vestita. E' un posto dove non è necessario stare all'erta, dove tutto, per una volta, è normale. E soprattutto, contariamente a tutto il resto della città, dentro ad uno shopping mall ci si sente al sicuro.
E' una mentalità a cui guardavo con disprezzo, come segno di progresso tardivo e di incivilizzazione. Inutile aspettarsi di trovare qui la raffinatezza europea. Il Trinidino considera eccitante il solo fatto di trovarsi in un luogo dall'apparenza moderna, che lo faccia sentire "civilizzato". In modo del tutto analogo, il Trinidino trascura il fantastico clima tropicale per rinchiudersi in bar e discoteche al chiuso con aria condizionata. Fa molto USA, immagino. Per questo motivo uffici e ristornanti sono sempre più freddi, e più sono chic più l'aria condizionata è sparata alta. I baretti coi tavolini di fuori si contano sulla punta delle dita, e non esistono posti dove ballare sotto le stelle, tranne forse uno nella più turistica Tobago. E poi ancora, sempre per sentirsi civilizzati, i Trinidnini stanno cominciando a vestirsi all'Americana. Non mi riferisco ai soliti pantaloni larghi da rapper, ma anche a giacche imbottite e stivali di pelle o di pelo alti fino al ginocchio. Col caldo che fa!
Certamente l'argomentazione della civilizzazione ha un grande peso. Però piano piano mi sono resa conto che dietro l'amore per lo shoping mall c'è anche qualcosa di più. Me ne sono accorta quando ho cominciato pure io, che i centri commericali li odio, a volerci andare. A non vedere l'ora di andarci, addirittura. Perchè contrariamente alla caraibica downtown, l'insipido mall per lo meno è un posto pulito. Ha il pavimento tirato a lucido. Senza nessuno seduto in terra tra i rifiuti che chiede l'elemosina. Senza musica alta, senza disordine. Senza uomini che ti mangiano con gli occhi ad ogni angolo, idipendentemente da come vai in giro vestita. E' un posto dove non è necessario stare all'erta, dove tutto, per una volta, è normale. E soprattutto, contariamente a tutto il resto della città, dentro ad uno shopping mall ci si sente al sicuro.
L'importanza del Carnevale
La cultura di Trinidad viene spesso definita "cultura del Carnevale". Cultura del bacchanal, parola tipicamente trinidina che non è necessaro tradurre. Ho già scritto in precedenza che in un anno senza stagioni e senza cambiamenti di clima il ritmo è scandito da quest'unico tremendo evento che coinvolge e sconvolge tutta la società, anche chi non vi partecipa. I primi eventi iniziano ad Agosto, e in seguito una serie di feste e occasioni si susseguono a distanza sempre più ravvicinata finchè, una volta che si è tolto di mezzo il Natale, non si fa altro che pensare e prepararsi alla grande orgia collettiva del Carnevale. In ufficio è stato già distribuito il calendario delle fetes, parola rimasta francese che indica le feste fino a notte inoltrata che precedono il Carnevale. Per tutto gennaio e febbraio ci saranno fetes ogni venerdì e ogni sabato. E negli ultimi dieci giorni ci saranno feste ogni singola sera, fino allo sfinimento.
Il Carnevale costa. I costumi sono carissimi, quelli semplici vengono tra i 350 e i 500 dollari americani, a seconda della band. E le fetes costano 50 USD a botta (ma con free drinks tutta la notte). Per questo le banche propongono i Carnival loans, prestiti espressamente finalizzati a vivere appieno il Carnevale, che vengono poi ripagati gradualmente durante il resto dell'anno. Alcuni decidono di non pagare l'affitto nel mese di Febbraio, altrimenti non ci stanno dentro. Spesso e volentieri i landlords capiscono e chiudono un occhio.
La preparazione al Carnevale è l'unica cosa che i Trinidini fanno per tempo, l'unica cosa in cui sono puntuali. Tutti prenotano i propri costumi con mesi di anticipo. Tutti si preparano scientificamente un programma di fitness per non sfigurare in bikini. Un mesetto fa volevo prenotarmi un costume in una delle bands di grido. Visto che non ho agganci che mi permettano di assicurami un posto, ho dovuto seguire la triste procedura di fare la corsa all'ultimo costume su internet. La band ha annuciato che avrebbe aperto le iscrizioni online il giorno 16 agosto, esclusivamente tra le 6 e le 8 di sera. Io alle 6 ero pronta, carta di credito alla mano, misure di vita-seno-fianchi espresse in pollici annotate diligentemente sul quaderno. Io lo giuro, ho provato a cliccare più velocemente possibile. Ma ciononostante non ce l'ho fatta. Alle 6:10 era tutto esaurito.
Il Carnevale costa. I costumi sono carissimi, quelli semplici vengono tra i 350 e i 500 dollari americani, a seconda della band. E le fetes costano 50 USD a botta (ma con free drinks tutta la notte). Per questo le banche propongono i Carnival loans, prestiti espressamente finalizzati a vivere appieno il Carnevale, che vengono poi ripagati gradualmente durante il resto dell'anno. Alcuni decidono di non pagare l'affitto nel mese di Febbraio, altrimenti non ci stanno dentro. Spesso e volentieri i landlords capiscono e chiudono un occhio.
La preparazione al Carnevale è l'unica cosa che i Trinidini fanno per tempo, l'unica cosa in cui sono puntuali. Tutti prenotano i propri costumi con mesi di anticipo. Tutti si preparano scientificamente un programma di fitness per non sfigurare in bikini. Un mesetto fa volevo prenotarmi un costume in una delle bands di grido. Visto che non ho agganci che mi permettano di assicurami un posto, ho dovuto seguire la triste procedura di fare la corsa all'ultimo costume su internet. La band ha annuciato che avrebbe aperto le iscrizioni online il giorno 16 agosto, esclusivamente tra le 6 e le 8 di sera. Io alle 6 ero pronta, carta di credito alla mano, misure di vita-seno-fianchi espresse in pollici annotate diligentemente sul quaderno. Io lo giuro, ho provato a cliccare più velocemente possibile. Ma ciononostante non ce l'ho fatta. Alle 6:10 era tutto esaurito.
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