mercoledì 30 aprile 2008
zut
Prigionieri nel cubo grigio: il suo terzo colore. Fabbriche e farfalle non servono più. Banalmente angelica - la crudeltà è a buon mercato. (Dita-giunco, elettricità sottile, solo un istante). Un sorriso di troppo per poterlo sopportare. Un bacio lanciato al vento, che si schianti a terra, in frantumi sull'asfalto. Svelta impugna le sue chiavi d'argento.
quote
"I want to wake up in the morning
in the kiss of daylight".
Just a mental fabrication.
Everything else
slowly falls into nothingness.
in the kiss of daylight".
Just a mental fabrication.
Everything else
slowly falls into nothingness.
domenica 20 aprile 2008
Cinema II
Dopo aver descritto la meravigliosa movie factory che trasmette film d'essay il giovedì sera, dedicherò qualche riga ad un altro cinema di Port of Spain, dallo stile diametralmente opposto. Si tratta del Globe, il cinema storico della città. Un vecchio edificio rossastro nella centralissima Park Street, con le solite locandine appese fuori.
La cosa particolare di questo cinema è che i film sono irrilevanti. Non si va al Globe per vedere questo o quel film. Si va per passare quattro ore di fila in un pomeriggio o una serata in cui non si ha nulla in programma. Dico quattro ore perchè con lo stesso biglietto si vedono due film, a conferma di quanto detto sulla marginale importanza di ciò che si vede. C'è una sala sola, quindi non c'è scelta. E i film sono immancabilmente bruttissimi. Polpettoni holliwoodiani della peggior specie, dalla commedia di serie B al musical all'attacco degli extraterresti.
Ma il Globe ha anche un grande fascino. C'è sempre poca gente e lotta per restare aperto, ultimo cimelio di una concezione del cinema che ormai è stata soppiantata dal più moderno e banalissimo multisala Movietown con centro commerciale annesso, proprio fuori città. Le sedie sono scomode e il locale è polveroso, ma c'è uno schermo sconfinato e la sala enorme odora di vecchio. Il biglietto per due film costa il prezzo ridicolo di 2 soli dollari USA, mentre l'americanissimo Movietown chiede normalmente 7-8 dollari per un solo film. C'è un barettino che offre cibo dall'aria sospetta, hot dog verdastri e le solite bibite dolcissime che vanno di moda nel Caribe. I pacchettini di pop-corn sono minuscoli ma costano 30 centesimi di dollaro e vengono dati in una carta marroncina come quella delle panetterie. E infine, proprio di fianco alla sale c'è un bel cartello grande con le istruzioni su come comportarsi nel caso arrivi all'improvviso un uragano.
E' il cinema dei poveri, il cinema del popolo, il cinema dei nostalgici. Senza nemmeno l'ombra dell'intellettualismo del cineclub, senza un millesimo del senso degli affari del multisala americano. La gente paga ed entra, senza farsi troppe domande. Costa così poco che se il fim non piace ce ne si può andare in qualunque momento senza troppi rimpianti. O in alterativa, si può decidere di restare e pensare ai fatti propri, mentre nella misteriosa sala buia le coppie si sbaciucchiano e i ragazzetti commentano ad alta voce le curve di tutte le attrici.
La cosa particolare di questo cinema è che i film sono irrilevanti. Non si va al Globe per vedere questo o quel film. Si va per passare quattro ore di fila in un pomeriggio o una serata in cui non si ha nulla in programma. Dico quattro ore perchè con lo stesso biglietto si vedono due film, a conferma di quanto detto sulla marginale importanza di ciò che si vede. C'è una sala sola, quindi non c'è scelta. E i film sono immancabilmente bruttissimi. Polpettoni holliwoodiani della peggior specie, dalla commedia di serie B al musical all'attacco degli extraterresti.
Ma il Globe ha anche un grande fascino. C'è sempre poca gente e lotta per restare aperto, ultimo cimelio di una concezione del cinema che ormai è stata soppiantata dal più moderno e banalissimo multisala Movietown con centro commerciale annesso, proprio fuori città. Le sedie sono scomode e il locale è polveroso, ma c'è uno schermo sconfinato e la sala enorme odora di vecchio. Il biglietto per due film costa il prezzo ridicolo di 2 soli dollari USA, mentre l'americanissimo Movietown chiede normalmente 7-8 dollari per un solo film. C'è un barettino che offre cibo dall'aria sospetta, hot dog verdastri e le solite bibite dolcissime che vanno di moda nel Caribe. I pacchettini di pop-corn sono minuscoli ma costano 30 centesimi di dollaro e vengono dati in una carta marroncina come quella delle panetterie. E infine, proprio di fianco alla sale c'è un bel cartello grande con le istruzioni su come comportarsi nel caso arrivi all'improvviso un uragano.
E' il cinema dei poveri, il cinema del popolo, il cinema dei nostalgici. Senza nemmeno l'ombra dell'intellettualismo del cineclub, senza un millesimo del senso degli affari del multisala americano. La gente paga ed entra, senza farsi troppe domande. Costa così poco che se il fim non piace ce ne si può andare in qualunque momento senza troppi rimpianti. O in alterativa, si può decidere di restare e pensare ai fatti propri, mentre nella misteriosa sala buia le coppie si sbaciucchiano e i ragazzetti commentano ad alta voce le curve di tutte le attrici.
venerdì 18 aprile 2008
Clarissa's birthday
E' stata una bellissima festa. Il complenno di Clarissa un mese dopo.
In realtà il lime è cominciato molto prima, quando siamo fuggite dal nostro stand verso le due del pomeriggio e in un moto di ribellione abbiamo deciso che non saremmo tornate in ufficio. Ci siamo rintanate in casa sua, fresca e legnosa nell'afa del pomeriggio. Mi piaceva stare seduta sul pavimento in quella stanzetta piena di libri, di polvere, di piccoli dettagli femminili, tazze da thé fiorate, cartoline colorate, poesie appese alle pareti e candele, in un ordine-disordine che mi metteva a mio agio. Sembrava di essere in una casa nel bosco, col sole cocente che entrava obliquo dalle finestre, dopo essere passato attraverso mille filtri di foglie, il verde carnoso delle piante oltre ai vetri, gli uccelli che gridavano assordanti nel giardino. Invece eravamo semplicemente a Woodbrook. Abbiamo parlato, continuando una conversazione cominciata lunedì sera con cinque bicchieri di vino e otto ore di parole ininterrotte, una conversazione esplosa come un vulcano dopo due mesi di reciproci sguardi circospetti. Lei ha letto ad alta voce il mio oroscopo, io ho letto ad alta voce il suo, sviscerandone ogni aspetto con precisione scientifica. Poi è arrivata Orisha, e abbiamo letto solo poesia.
Nel tardo pomeriggio abbiamo cominciato i preparativi per la festa, e siamo andate a comprare la pasta della pizza da Vittorio, uno dei 5 italiani sull'isola, ex leoncavallino fallito che ha aperto un ristorante fallimentare pieno di stereotipi sull'Italia a Port of Spain, per l'unica ragione che a suo parere Trinidad è l'isola piu' vera dei Caraibi. Tornate trionfanti con quel prezioso tesoro, abbiamo invaso la cucina e con essa lo spazio vitale dei coinquilini di Clarissa. Una ragazza madre trinidina che ha quasi sempre vissuto a Londra, con un misterioso accento misto che calza a pennello col suo sorriso dolce e meticcio. Un giovane scrittore inglese dal fascino un po' facile. Un dirompente trini alto alto e grosso grosso che balla benissimo e che per tutta la sera ci ha lanciato addosso brani di festosissima musica carnevalesca. E per finire il piccolo di sei anni, un bambino che sprizza simpatia da tutti i pori, abituato a vivere in quella casa di giovani giramondo con le porte sempre aperte, il vento nel soggiorno, e gente che va e viene senza ragione apparente.
E' stato lui a stendere la pizza, usando una bottiglia di vino vuota come mattarello, mentre Clarissa mi diceva che sicuramente era più bravo di me visto che io sono Padana ergo la pizza vera non so nemmeno che cosa sia. Lui era felicissimo mentre impastava con le manine infarinate, e noi gli ballavamo intorno con i bicchieri di vino in mano. Ha cominciato a venire gente, non molti ma molto ben scelti, e io mi sono trovata come sempre a tenere intere, articolate conversazioni con perfetti sconosciuti, nella veranda in legno bianco. La musica era alta, il vino si versava, noi sfornavamo una pizza dopo l'altra tra i gridolini entusiasti del nostro piccolo amico. L'atmosfera generale era un'improbabile combinazione di cool party e di family reunion, di eccitazione e rilassamento, c'era chi ballava sfrenatamente nel mezzo del soggiorno e chi stava spaparanzato sul divano a piedi nudi. Arrivavano e se ne andavano persone che non si è mai capito se fossero amici di Clarissa o meno, e ad un certo punto è arrivata anche la madre del conquilino trini, una signora sessantenne con unghie di cinque centimetri tutte di colori diversi e capelli negri ossigenati che ballava sorridendo, perfettamente a suo agio con la vita. C'è stata anche una bella torta per Clarissa, con le candeline colorate su cui lei ha soffiato e ha espresso un desiderio, come si fa quando si è piccoli.
Forse il momento più bello della serata è stato quando Clarissa, il piccolino ed io ci siamo trovati seduti in cerchio a gambe incrociate sul tappeto, a giocare a scopa con un mazzo di carte napoletane. Incredibile vedere quel bimbetto caraibico che giocava a quel gioco di carte che mi avevano insegnato secoli fa i miei nonni, e che per quanto ne so nel Bel Paese sta finendo nel dimenticatoio insieme ai dialetti. Clarissa lo chiamava sweep. Lui era un bravo allievo, ci ha battute entrambe, forse leggermente aiutato dal tasso alcolico nel nostro sangue. E a un certo punto non riuscendo a contenere tutta quella contentezza nel suo piccolo petto si è messo a ridere, ha buttato la testa all'indietro, e ha gridato a squarciagola: This is the best day of my life!
In realtà il lime è cominciato molto prima, quando siamo fuggite dal nostro stand verso le due del pomeriggio e in un moto di ribellione abbiamo deciso che non saremmo tornate in ufficio. Ci siamo rintanate in casa sua, fresca e legnosa nell'afa del pomeriggio. Mi piaceva stare seduta sul pavimento in quella stanzetta piena di libri, di polvere, di piccoli dettagli femminili, tazze da thé fiorate, cartoline colorate, poesie appese alle pareti e candele, in un ordine-disordine che mi metteva a mio agio. Sembrava di essere in una casa nel bosco, col sole cocente che entrava obliquo dalle finestre, dopo essere passato attraverso mille filtri di foglie, il verde carnoso delle piante oltre ai vetri, gli uccelli che gridavano assordanti nel giardino. Invece eravamo semplicemente a Woodbrook. Abbiamo parlato, continuando una conversazione cominciata lunedì sera con cinque bicchieri di vino e otto ore di parole ininterrotte, una conversazione esplosa come un vulcano dopo due mesi di reciproci sguardi circospetti. Lei ha letto ad alta voce il mio oroscopo, io ho letto ad alta voce il suo, sviscerandone ogni aspetto con precisione scientifica. Poi è arrivata Orisha, e abbiamo letto solo poesia.
Nel tardo pomeriggio abbiamo cominciato i preparativi per la festa, e siamo andate a comprare la pasta della pizza da Vittorio, uno dei 5 italiani sull'isola, ex leoncavallino fallito che ha aperto un ristorante fallimentare pieno di stereotipi sull'Italia a Port of Spain, per l'unica ragione che a suo parere Trinidad è l'isola piu' vera dei Caraibi. Tornate trionfanti con quel prezioso tesoro, abbiamo invaso la cucina e con essa lo spazio vitale dei coinquilini di Clarissa. Una ragazza madre trinidina che ha quasi sempre vissuto a Londra, con un misterioso accento misto che calza a pennello col suo sorriso dolce e meticcio. Un giovane scrittore inglese dal fascino un po' facile. Un dirompente trini alto alto e grosso grosso che balla benissimo e che per tutta la sera ci ha lanciato addosso brani di festosissima musica carnevalesca. E per finire il piccolo di sei anni, un bambino che sprizza simpatia da tutti i pori, abituato a vivere in quella casa di giovani giramondo con le porte sempre aperte, il vento nel soggiorno, e gente che va e viene senza ragione apparente.
E' stato lui a stendere la pizza, usando una bottiglia di vino vuota come mattarello, mentre Clarissa mi diceva che sicuramente era più bravo di me visto che io sono Padana ergo la pizza vera non so nemmeno che cosa sia. Lui era felicissimo mentre impastava con le manine infarinate, e noi gli ballavamo intorno con i bicchieri di vino in mano. Ha cominciato a venire gente, non molti ma molto ben scelti, e io mi sono trovata come sempre a tenere intere, articolate conversazioni con perfetti sconosciuti, nella veranda in legno bianco. La musica era alta, il vino si versava, noi sfornavamo una pizza dopo l'altra tra i gridolini entusiasti del nostro piccolo amico. L'atmosfera generale era un'improbabile combinazione di cool party e di family reunion, di eccitazione e rilassamento, c'era chi ballava sfrenatamente nel mezzo del soggiorno e chi stava spaparanzato sul divano a piedi nudi. Arrivavano e se ne andavano persone che non si è mai capito se fossero amici di Clarissa o meno, e ad un certo punto è arrivata anche la madre del conquilino trini, una signora sessantenne con unghie di cinque centimetri tutte di colori diversi e capelli negri ossigenati che ballava sorridendo, perfettamente a suo agio con la vita. C'è stata anche una bella torta per Clarissa, con le candeline colorate su cui lei ha soffiato e ha espresso un desiderio, come si fa quando si è piccoli.
Forse il momento più bello della serata è stato quando Clarissa, il piccolino ed io ci siamo trovati seduti in cerchio a gambe incrociate sul tappeto, a giocare a scopa con un mazzo di carte napoletane. Incredibile vedere quel bimbetto caraibico che giocava a quel gioco di carte che mi avevano insegnato secoli fa i miei nonni, e che per quanto ne so nel Bel Paese sta finendo nel dimenticatoio insieme ai dialetti. Clarissa lo chiamava sweep. Lui era un bravo allievo, ci ha battute entrambe, forse leggermente aiutato dal tasso alcolico nel nostro sangue. E a un certo punto non riuscendo a contenere tutta quella contentezza nel suo piccolo petto si è messo a ridere, ha buttato la testa all'indietro, e ha gridato a squarciagola: This is the best day of my life!
giovedì 17 aprile 2008
Assaggio d'Oriente
Sono salita in macchina con lui per andare a comprare qualcosa da mangiare, e sono subito stata affascinata dalla musica araba che regnava nell'abitacolo. Era uno dei volontari UNV, un medico egiziano che stava trascorrendo la giornata con me e Clarissa alla fiera sul mondo del lavoro organizzata per i liceali trinidini. "Tu non puoi capire questa musica", mi ha detto in tono in grave appena sono entrata. Una frase netta e profonda, con una venatura di tristezza. Una frase che parlava direttamente a me, senza convenevoli. Mi ha fatto ricordare come è mi immediato entrare in contatto con gli arabi, così placidi, così gravi, così diversi dal festoso popolo del Caribe. Mi ha fatto sentire autorizzata a fargli subito una domanda personale, così, senza nemmeno conoscerlo. "Ti manca casa?". Lui ha risposto con scandalosa sincerità. "No". Un sì sarebbe stato triste, ma quel no era terribile. Stava parlando a me. Poi ha aggiunto che sebbene fosse egiziano aveva quasi sempre vissuto in Canada. "So Canada is home for you"; "It's supposed to be", mi ha detto in un sospiro, senza vergognarsi della propria desolazione. Nonostante la sua negatività, quella conversazione mi stava calmando. Non mi stava chiedendo comprensione, non stava esigendo nulla da me, semplicemente dialogava. Domande vere, rispose vere. Quando abbiamo aperto le portiere per tornare al nostro stand siamo stati aggraditi da una fortissima musica soca dal solito ritmo sfrenato, vibrante e violento. Il Medio Oriente se ne sarebbe rimasto chiuso in macchina.
mercoledì 16 aprile 2008
Not-such-a-small-world
Difficile non sentirsi soli, ogni tanto.
Nella mia stanza con le tende blu comprate a Downtown Port of Spain, con i quadretti di gatti art nouveau di Montmartre, con il pacchetto quadrato di fiammiferi fregato al ristorante di Berlino, con il volantino del festival du court-métrage di Bruxelles che chissà perchè era rimasto in valigia, con le foto in bianco e nero di Lisbona ritagliate dal giornale distribuito nell'unica buona pizzeria di Baixa-Chiado, con la cartelletta comprata alla cartoleria dell'università di Salamanca e con la cartolina gialla del mio bar preferito di Ginevra appesa sopra al letto. Col mio computer che emette radiomontecarlo che-trasmette-direttamente-dal-principato-di-Monaco e mi fa pensare a quando torno in macchina a Milano alla fine di una serata. Scorro lentamente tutti i miei contatti messenger divisi per nazionalità, tutti categoricamente grigi perchè in Europa sono le quattro di notte.
Difficile quando penso che Ana è a Madrid a cominciare una vita nuova di zecca e non so nemmeno se abbia trovato casa, che Miguel è a qualche rassegna di cinema d'essay a San Paolo, che Yani è su un treno per Bologna che cerca di sopravvivere nonostante tutto, che Amy è in bilico fra due mondi, che ho perso traccia dei sogni di Giò proprio quando mi ha detto che era a un passo dal realizzarli, che Silvia scrive la sua tesi-capolavoro nel suo studio di Parigi. Che tutte le altre persone importanti che ho scovato e custodito come gemme sono ora disperse in città diverse e irreconciliabili. Che mio padre ha buttato il mio numero di telefono, che mia mamma e mio fratello ci sono sempre ma sono confinati alle iconcine di messenger e ai "lol" e ai quindici minuti di teleconferenza con la webcam una volta la settimana.
Difficile non sentirsi soli quando Orisha mi dice che non mi parla profondamente di sè perchè non abbiamo abbastanza ricordi accumulati per definirci amiche; quando Mas torna a dormire nello stesso letto dopo aver fatto finta di scappare e avermi quasi fatto impazzire, e capisco di essere stata la sola ingenua a cadere nella trappola psicologica di implorarlo di restare; quando la mia amica più calda si rivela fin troppo mediorientale e mi aggredisce perchè mi fraintende in continuazione; quando un invito al cinema è in realtà un monito alla cautela estrema per non essere fagocitata.
Quando mi trovo ad uscire con un gruppo di amici che non mi sono potuta scegliere, a cui mi sono aggrappata come a un treno preso al volo senza sapere la destinazione, giusto per non restare a terra; quando capisco che l'unica, l'unica, l'unica amicizia consapevolmente e liberamente scelta su quest'isola resterà per sempre un rapporto virtuale, e allora che diavolo di differenza c'è con gli amici in Europa; quando mi rendo conto che con Clarissa ci sono più somiglianze di quanto sembri e la vedo fragile e ferita, e ho paura di essere inevitabilmente destinata anche io ad accumulare tutta quella mole di fragilità, tutta quella massa di ferite.
Nella mia stanza con le tende blu comprate a Downtown Port of Spain, con i quadretti di gatti art nouveau di Montmartre, con il pacchetto quadrato di fiammiferi fregato al ristorante di Berlino, con il volantino del festival du court-métrage di Bruxelles che chissà perchè era rimasto in valigia, con le foto in bianco e nero di Lisbona ritagliate dal giornale distribuito nell'unica buona pizzeria di Baixa-Chiado, con la cartelletta comprata alla cartoleria dell'università di Salamanca e con la cartolina gialla del mio bar preferito di Ginevra appesa sopra al letto. Col mio computer che emette radiomontecarlo che-trasmette-direttamente-dal-principato-di-Monaco e mi fa pensare a quando torno in macchina a Milano alla fine di una serata. Scorro lentamente tutti i miei contatti messenger divisi per nazionalità, tutti categoricamente grigi perchè in Europa sono le quattro di notte.
Difficile quando penso che Ana è a Madrid a cominciare una vita nuova di zecca e non so nemmeno se abbia trovato casa, che Miguel è a qualche rassegna di cinema d'essay a San Paolo, che Yani è su un treno per Bologna che cerca di sopravvivere nonostante tutto, che Amy è in bilico fra due mondi, che ho perso traccia dei sogni di Giò proprio quando mi ha detto che era a un passo dal realizzarli, che Silvia scrive la sua tesi-capolavoro nel suo studio di Parigi. Che tutte le altre persone importanti che ho scovato e custodito come gemme sono ora disperse in città diverse e irreconciliabili. Che mio padre ha buttato il mio numero di telefono, che mia mamma e mio fratello ci sono sempre ma sono confinati alle iconcine di messenger e ai "lol" e ai quindici minuti di teleconferenza con la webcam una volta la settimana.
Difficile non sentirsi soli quando Orisha mi dice che non mi parla profondamente di sè perchè non abbiamo abbastanza ricordi accumulati per definirci amiche; quando Mas torna a dormire nello stesso letto dopo aver fatto finta di scappare e avermi quasi fatto impazzire, e capisco di essere stata la sola ingenua a cadere nella trappola psicologica di implorarlo di restare; quando la mia amica più calda si rivela fin troppo mediorientale e mi aggredisce perchè mi fraintende in continuazione; quando un invito al cinema è in realtà un monito alla cautela estrema per non essere fagocitata.
Quando mi trovo ad uscire con un gruppo di amici che non mi sono potuta scegliere, a cui mi sono aggrappata come a un treno preso al volo senza sapere la destinazione, giusto per non restare a terra; quando capisco che l'unica, l'unica, l'unica amicizia consapevolmente e liberamente scelta su quest'isola resterà per sempre un rapporto virtuale, e allora che diavolo di differenza c'è con gli amici in Europa; quando mi rendo conto che con Clarissa ci sono più somiglianze di quanto sembri e la vedo fragile e ferita, e ho paura di essere inevitabilmente destinata anche io ad accumulare tutta quella mole di fragilità, tutta quella massa di ferite.
martedì 15 aprile 2008
Jam session
Sabato sera Orisha mi ha riportata nella sala prove dei tre musicisti. Non ero entusiasta di andare, mi sembrava che fra tutti gli amici che mi aveva presentato i musicisti fossero quelli con cui avevo meno in comune, con cui mi sentivo meno a mio agio. Ma mi sono fatta coraggio e sono andata, "in fondo non sono qui per essere in situazioni familiari". Ed effettivamente è bastato tornare una seconda volta in quella stanza per sentirmi più tranquilla, per connettere meglio con loro tre. Un'ulteriore prova di quanto stia divetando fulminea nella capacità di adattamento.
Il rasta che conosce Orisha da anni le ha detto solo una frase. "C'è un microfono: usalo". Lei non se lo è fatto ripetere due volte, ed è così che ho fatto conoscenza con l'anima da star della mia rude coinquilina. A quanto pare lei era abituata ai microfoni. Mi aveva detto che tempo addietro era stata selezionata da un pool di poeti trinidini di fama mondiale, tra cui anche uno dei premi Nobel per la letteratura, e se ne andava in giro in una carovana con loro e altri giovani poeti e musicisti a declamare ai quattro angoli di Trinidad la loro arte. Mi aveva detto che secondo un ranking informale lei era stata giudicata la seconda giovane poetessa più promettente dell'isola. Poi aveva smesso, ed era per questo che tutti, ogni volta che la vedevano, le chiedevano quando sarebbe tornata alla ribalta.
Credo che proprio in questi giorni abbia cominciato a pensare alla possibilità di un comeback, e il tentativo numero uno è stato fatto sabato scorso nella saletta fumosa, con me come sola spettatrice. E' stato bello. I ragazzi suonavano una base. Chitarra, batteria, basso. Soft, d'accompagnamento. Lei parlava, recitava, a braccio, improvvisando in jam session. Certe frasi avevano senso, certe no. Inizialmente titubante, poi più sicura. Un'improvvisazione su un tema. Una declamazione in musica. Non avevo mai assistito ad un esperimento musicale di quel tipo.
La cosa più bella però è successa alla fine, quando lei ha dedicato una poesia a me. Vivi is in transition, il titolo. Già domenica scorsa, mentre guardavamo le nuvole, aveva cominciato a canticchiare Vivi is in transition, left the familiar faces behind, is all alone in Trinidad. Era una specie di scherzo. Sabato l'ha ripresa, e l'ha elaborata. Io ascoltavo quello parole in musica dirette a me, mentre gli altri suonavano concentrati. Descriveva la mia situazione. Mi diceva di non preoccuparmi. Mi diceva di vivere le cose giorno per giorno. Di prendere il mio tempo. Il rasta ha cominciato a farci gorgheggi, l'altro ragazzo effeti sonori. Orisha ripeteva il ritornello, e il terzo ci intercalava qualche assolo. Io sorridevo muta in un angolo, piena di gratitudine.
Era il modo di Orisha di starmi vicino. Non mi avrebbe sorriso, non mi avrebbe abbracciata, non mi avrebbe chiesto come è andata oggi. Ma mi stava dedicando una canzone in una buia sala prove in St. James, piena di cenere sul pavimento e di raccoglitori per uova ammonticchiati negli angoli.
Il rasta che conosce Orisha da anni le ha detto solo una frase. "C'è un microfono: usalo". Lei non se lo è fatto ripetere due volte, ed è così che ho fatto conoscenza con l'anima da star della mia rude coinquilina. A quanto pare lei era abituata ai microfoni. Mi aveva detto che tempo addietro era stata selezionata da un pool di poeti trinidini di fama mondiale, tra cui anche uno dei premi Nobel per la letteratura, e se ne andava in giro in una carovana con loro e altri giovani poeti e musicisti a declamare ai quattro angoli di Trinidad la loro arte. Mi aveva detto che secondo un ranking informale lei era stata giudicata la seconda giovane poetessa più promettente dell'isola. Poi aveva smesso, ed era per questo che tutti, ogni volta che la vedevano, le chiedevano quando sarebbe tornata alla ribalta.
Credo che proprio in questi giorni abbia cominciato a pensare alla possibilità di un comeback, e il tentativo numero uno è stato fatto sabato scorso nella saletta fumosa, con me come sola spettatrice. E' stato bello. I ragazzi suonavano una base. Chitarra, batteria, basso. Soft, d'accompagnamento. Lei parlava, recitava, a braccio, improvvisando in jam session. Certe frasi avevano senso, certe no. Inizialmente titubante, poi più sicura. Un'improvvisazione su un tema. Una declamazione in musica. Non avevo mai assistito ad un esperimento musicale di quel tipo.
La cosa più bella però è successa alla fine, quando lei ha dedicato una poesia a me. Vivi is in transition, il titolo. Già domenica scorsa, mentre guardavamo le nuvole, aveva cominciato a canticchiare Vivi is in transition, left the familiar faces behind, is all alone in Trinidad. Era una specie di scherzo. Sabato l'ha ripresa, e l'ha elaborata. Io ascoltavo quello parole in musica dirette a me, mentre gli altri suonavano concentrati. Descriveva la mia situazione. Mi diceva di non preoccuparmi. Mi diceva di vivere le cose giorno per giorno. Di prendere il mio tempo. Il rasta ha cominciato a farci gorgheggi, l'altro ragazzo effeti sonori. Orisha ripeteva il ritornello, e il terzo ci intercalava qualche assolo. Io sorridevo muta in un angolo, piena di gratitudine.
Era il modo di Orisha di starmi vicino. Non mi avrebbe sorriso, non mi avrebbe abbracciata, non mi avrebbe chiesto come è andata oggi. Ma mi stava dedicando una canzone in una buia sala prove in St. James, piena di cenere sul pavimento e di raccoglitori per uova ammonticchiati negli angoli.
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